"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Un racconto di
Pier Paolo Pasolini
Matrimonio nella baracca
Vie nuove numero 46
22 novembre 1958
( © Trascrizione integrale da cartaceo, curata da Bruno Esposito )
« DOV'E' Pescron »? Nessuno a Douai sapeva dov'era questo Pescron: un campo di baracche di minatori italiani. Douai è una cittadina vicino a Lilla: perduta in una pianura ch'è tutta una immensa e desolata città. Una città di miniere, col pavé, le piccole case che sembrano di ferro, laccate di rosso e affumicate di carbone sotto i tetti gotici di lavagna. Nel sole, triste, nella tenebra del maltempo nordico, tristissima. Neanche i suoi abitanti, i francesi di Douai, hanno un'aria allegra. L'italiano che vedemmo, e distinguemmo subito, era invece riconoscibile per un'aria di intima allegria, di benessere fisico. Era estremamente timido, alle nostre prime domande: coi suoi occhi chiari, la sua parola difficile. Un siciliano ventenne di Aragona. Ci portò lui a Pescron. Le baracche erano di legno scuro, come magazzini in abbandono, allineate in ordine su praticelli d'erba triste e pulita.
Avevamo intanto fatto un pò di amicizia col giovane siciliano, grosso e timido come un lombardo: ed egli aveva già fatto dentro di sé i suoi trepidi calcoli. Nell'esprimersi era confuso, a prima vista, ma, alla fine, le sue spiegazioni risultavano piene di saggezza e di precisione: e di un'intima ansia. Ci portò in una delle baracche di Pescron semideserta, all'ombra del terryl e della torre della miniera. Quel giorno si sposava sua sorella, ed egli volle portarci alla festa di nozze.
La baracca era piena di parenti e amici: siciliani, scuri e solenni, vestiti di nero come in patria. L'interno era piccolo, e le venti persone ci stavano appena: tutti erano seduti, quasi in silenzio, sulle misere sedie allineate lungo le pareti: la sposa e lo sposo insieme agli altri, senza espressione, con un povero viso serio e intimidito.
Uno si incaricava di mettere dischi nel grammofono. In fondo c'erano le donne anziane e i bambini, e un tavolino che serviva da buffet con i vassoi di latta pieni di bicchierini verdi e giallini; un altro tavolino era adibito ai regali: c'era, per il momento, su questo tavolino, solo una pentola.
Sulla parete, li sopra, era attaccato a un chiodino un telegramma della madre della sposa, che, dal paese, mandava baci e auguri.
Stemmo un poco li, con un nodo alla gola, a dire qualcosa agli sposi, a ballare. Poi ce ne andammo, stringendo a uno a uno la mano a tutti: e. dal di fuori, quella era una baracca come tutte le altre, perdute nella triste luce della domenica. Solo si vedeva arrivare e entrare qualche giovanotto, col suo vestito scuro, le sue gambe tozze e il viso massiccio sotto il ciuffo. Ma altri giovani si erano uniti a noi, insieme al primo, felici di essere oggetto d'interesse, di parlare con italiani. Ci portarono verso la miniera. Questa si alzava con le sue costruzioni, ferree e sgangherate, contro il cielo incolore: accanto, terribile, il terryl.
Camminammo per strade sconnesse, lungo vecchi muretti, solidi e grigi, come di ferro. Più vicino alla miniera c'era un altro campo italiano. Qui erano alloggiati quelli senza famiglia, i giovani venuti su da poco.
Un piazzale, tra vecchi bunker tedeschi, un pò d'erba sperduta, una lunga latrina: il campo consisteva in tre soli baracconi di legno. Entrammo nel primo: tramezzi, vecchi e marci, dividevano l'interno in una serie di stanze lungo uno scuro corridoio. Non c'era nessuno: solo odore di stracci bagnati, di carbone, di gelo. Uno o due giovani, pallidi e vestiti coi panni di lavoro, si affacciarono alle porticine scassate, a guardarci, seri, ansiosi. Dormivano in due per ogni stanza. Le stanze erano sgabuzzini, con due cuccette, una stufa a legna, e una misera confusione di cassette, sacchi, attaccapanni. Tutte le pareti, contro l'umidità, erano tappezzate da vivaci manifesti di vecchi film americani e francesi.
UN GIOVANE ormai invecchiato abitava in una di queste stanze e ci ospitò: era li da otto anni. Si può dire, vi aveva passato tutta la vita. Si chiamava Antonio Mollica. Nel 1950, quasi appena arrivato, mentre stava per scendere nella taglia, una berlina si sganciò e gli si rovesciò addosso, rompendogli una spalla. Nel '54, sceso dalla berlina, la sganciò dalla locomotiva, e la fissò, mettendo sotto la ruota un travicello di legno: si allontanò d'una decina di metri, ma la berlina, male fermata, si mosse da sola, schiacciandolo contro la locomotiva e fratturandogli il bacino. Nel '57, mentre trasportava il materiale nel fondo della miniera, il vagoncino del treno deragliò, ed egli, per rimetterlo sul binario, si produsse uno strappo muscolare, e cadendo all'indietro, si spezzò sulla roccia tre vertebre.
Ora prende una pensione per invalidità di circa trentaduemila franchi all'anno (cinque per cento per la spalla, dieci per cento sul salario per il bacino); del resto non può lavorare, perchè in seguito all'ultima caduta gli è venuta un'artrosi e una complicazione polmonare: ma non ha nemmeno diritto alla pensione per questo, perchè il controllo medico della miniera lo dichiara comunque idoneo a lavorare nel fondo a lavori leggeri.
Uscimmo dal baraccone di Mollica, verso un altro. Nel frattempo un gruppo di giovani minatori si era raccolto intorno a noi: una ventina, tutti segnati dalla fatica, pallidi, deperiti, vestiti male. Non ce n'era uno che esprimesse nello sguardo, nei gesti, un pò di giovinezza, di calore. Ma solo depressione e ansia. Fra gli italiani, c'erano sette otto algerini.
NELLA baracca accanto abitavano, sole, due coppie di sposi: le mogli, coi figli piccoli, benchè bambine anche loro, erano venute in Francia come « turiste ». E non godevano perciò di nessun diritto. Erano ignorate, loro, i loro sposi, i loro bambini. Non dimenticherò mai quei visi; quelle stanze ricavate da sconnessi tramezzi nel magazzino, cupe, umide, abbandonate. Li passavano la loro domenica, consolata un poco da un misero sole.
Scendemmo nella miniera il giorno dopo. Ci fu un pò di solennità nell'operazione. Il direttore della miniera, un uomo duro, modesto e intelligente, ci affidò a un ingegnere, che gli somigliava, forte come un operaio, e che ci condusse giù.
Il cerimoniale era complicato: bisognava svestirsi completamente e rivestirsi coi panni da minatore: una tuta, un pastrano, un paio di grosse scarpe, un elmetto con la pila saldata sul davanti. Così salimmo sulla torre dell'ascensore, uno scheletro traballante e massiccio, entrammo nell'ascensore, aperto, come un montacarichi, e sprofondammo giù, a trecento, seicento, mille metri sotto la terra.
GIUNGEMMO in una ampia galleria con le pareti sbiancate di calce, illuminata. Qualcuno andava e veniva, con estrema e triste naturalezza. Salimmo in un trenino di carrelli, e, per circa mezza ora, ci internammo nella miniera. A un bivio, scendemmo. Imboccammo una galleria più piccola, senza rotaie: era scavata nella rocca, e la roccia, qua e là, franava: il pavimento era pieno di frantumi, di massi. Spesso il soffitto cedeva, ed era puntellato da un paletto di legno.
Camminammo a lungo per questa galleria, illuminata dalle pile che tenevamo sugli elmetti, finchè l'ingegnere si fermò davanti a una fessura, alta poco più di un metro, sul pavimento, piena di paletti, di legname, di massi. « Qui» disse, e s'infilò dentro: Io seguimmo in quel pertugio, ed entrammo nella taglia. Bisognò camminare rattrappiti, quasi carponi: la taglia era bassa, ma abbastanza larga. II soffitto era tutto puntellato da paletti, tanto che pareva di camminare, o meglio di strisciare, in una specie di bosco.
Ognuno come in una buca, in una tomba, lungo i centocinquanta metri del cunicolo, incontrammo una ventina di minatori. Ci comparivano a uno a uno, e fissavano su di noi il bianco degli occhi, nelle facce nere e sudate, interrompendo di scavare la roccia col martello pneumatico, da cui erano scossi con estrema violenza.
Avevano piccoli corpi, I cui toraci nudi, anneriti dal carbone, lustrati dal sudore, mettevano in mostra le strisce dei muscoli, le costole, come nelle immagini dei santi martirizzati. Ci guardavano dapprima con spavento, poi con sospetto, infine, riconoscendoci, l'ansia prevaleva sulla gioia. Cominciavano subito a parlare delle loro necessità, della loro attesa. Erano soli, abbandonati; appena usciti dalla miniera, nelle loro baracche, dovevano pensare a farsi da mangiare e a lavarsi la biancheria; la paga era misera, non riuscivano a mettere da parte quasi niente. Ma l'ossessione di ognuno era una sola: quella che le loro mogli avessero il permesso di raggiungerli: e, se non le mogli, le sorelle, la madre. Ci raccontavano quasi piangendo, come per una ingiustizia che non riuscivano a capire, le lunghe pratiche per ottenere quel permesso che non arrivava mai. Uno, magro e scavato, aspettava oltre la moglie, anche i figli.
Un altro, laggiù in Sicilia, aveva la ragazza, voleva sposarla e farla venire su. Un terzo, che l'ingegnere ci disse essere il migliore della squadra — non lo sembrava, con quella faccia spaventata, di ragazzo disperato e debole — voleva con lui le due sorelle.
Li salutavamo, cercando di confortarli: essi riprendevano in mano il martello pneumatico, e ricominciavano la lotta, scossi come da un vento terribile, contro la roccia nera e polverosa.
Pier Paolo Pasolini
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Curatore, Bruno Esposito
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