"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pasolini a Mosca
come inviato speciale di Vie nuove
al VI Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti
Via nove numero 32
10 agosto 1957
( © Trascrizione integrale da cartaceo, curata da Bruno Esposito )
Mosca, agosto
dal nostro inviato Pier Paolo Pasolini
Festa di paese per trentamila
FINISCE il Baltico. L'aeroplano gira su Riga che è un 'enorme distesa di sobborghi di fabbriche, su una specie di canale o fiordo. Atterrato, corre a lungo su un prato, dove, sotto il bel solicello, dei contadini stanno raccogliendo il fieno. Davanti alia stazione dell'aeroporto sono ad aspettarci. E' il primo saluto dell'URSS. Tre ragazze di cui una in costume, in fila tra le aiuole: hanno rose rosse in mano. Una donna anziana, in divisa, dal sorriso confortevole delle hostess, fa gli onori di casa. Con noi dal bimotore, è sceso un gruppo di giovanetti islandesi che vanno al Festival. Sono suonatori. Ascoltano il discorsetto di un tipo comparso anche lui tra le aiuole, sotto il bel sole. Tutti siamo gratificati di fiori. La cosa è semplice e gentile, Anche perchè avviene nell'aria dell'ultime Thule. Ma dietro quelle tre povere ragazze, respira già, seppure con fiato leggero, il nuovo mondo. Cosi nell'Hotel dell'aeroporto di Riga, i primi sapori della Russia: caviale rosso, idromele, sciroppo di ciliegie. Tutto è estremamente delicato. La Russia, sotto l'aeroplano da Riga a Mosca, è un deserto. Non una casa. Temporali, schiarite, sole; e non una casa sotto l'aeroplano che se ne va tranquillo.
Un enorme e complicatissimo tappeto, tutto a ghirigori e ingorghi, perfettamente tondo, oltre che astratto. Non un segno di vita. Così l'aeroplano scende di botto tra i boschi, in una grande distesa di verde, dove sono accalcati centinaia in lunghe file, centinaia di bimotori.
Le sale d'aspetto dell'aeroporto sono piene di viaggiatori: ma pare di essere nella sala di aspetto di una stazione ferroviaria con molti viaggiatori di seconda. Nelle sale dell'Inturist, uomini e donne che ridono e si agitano. Comincia la confusione del festival: la baraonda, la torre di Babele. I moscoviti sono impreparati al turismo ed agli stranieri. 30 mila ospiti tutti in una volta, sono troppi anche per la loro buona volontà. II fatto Nella grande sfilata allo stadio Lenin, tre sono stati i momenti di commozione non puramente estetici: il passaggio degli algerini, salutati dalla folla immensa con un urlo indescrivibile; il passaggio degli spagnoli in un gruppo stretto e disordinato, silenziosi, colmi di un dolore impersonale e quasi simbolico; ed infine il passaggio dei cinesi: una fiumana di colori in cui la raffinatezza estrema si fonde in un insieme colmo di quello "aumento di vitalità" che sanno dare solo le opere d'arte autentiche di non sapere fronteggiare sempre la situazione addolora molto gli organizzatori: la sera del mio arrivo, ho visto all'Hotel Ucraina, (dove sono capitato molto fortunosamente) una interprete piangere per il dispiacere che un ospite fosse ancora senza camera all'una di notte, dopo molte ore dal suo arrivo. Piangeva come per un caso privato, di cui lei fosse l'unica responsabile. In nessun film russo (che ero poi destinato a vedere) ho visto data ed espressa poeticamente questa situazione: un dolore o una gioia collettiva che diventa interiore. Non credevo fosse possibile: ed i film (o forse anche i cattivi romanzi) sovietici fanno di tutto per rendere la cosa incredibile. Invece accade.
Entrare in Mosca per la prima volta — o almeno venendo dall'aeroporto — è di una estrema dolcezza. Verso sera, con un fiume di luci intorno, non pare affatto una città straniera. Pare di esserci sempre stati. Immaginate la periferia di Milano o meglio ancora di Torino, naturalmente ingrandita (ma non moltissimo): con elementi di disordine, però, diciamo poetici, cromatici. Mosca è una immensa Garbatella: un misto dunque di liberty e di novecento, con pareti colossali e graticci di finestre. Spesso tuttavia, con stile di casette basse, ad un piano o due piani, come se ne incontrano nelle città provinciali del nord: Vicenza, Treviso o Udine. In questo paesaggio urbano — immenso e familiare — galleggiano ogni tanto dei grattacieli — quegli orrendi edifici, condannati da Krusciov. Ma non sono insopportabili. Ispirano anzi della simpatia. Sono case commoventi, come tutti gli sforzi degli umili per apparire grandi.
Mosca è una città di contadini. La domenica file di donne e di vecchi si siedono su delle vecchie panche davanti alla porta di casa, con i fazzoletti in testa, e le mani nel grembo. I ragazzi sono tracagnotti, col bacino largo, le spalle malfatte ma poderose; camminano con le mani lontane dai fianchi, come se fossero sporche o bagnate. Le ragazze sono una strana mescolanza di robustezza e di gentilezza; non ho mai visto dei corpi cosi solidi e potenti. Però ci sono anche i magrolini, i mucchietti di cenci. E' una delle tante contraddizioni e sproporzioni di questa nazione. Le nuove generazioni esplodono di forza, ma sopravvive in loro il denutrito e macilento servo. Questo è umilissimo fra gli umili, e fa i lavori umilissimi. Mi ero sempre chiesto chi in una società socialista, potesse fare ancora il facchino; l'ho visto. La selezione è naturale, non corrotta o artificiale.
Questa una delle prime e sicure impressioni che si hanno a Mosca. Quanto agli altri mestieri umili o servili, sono esercitati quasi sempre dalle donne. Ci sono certe anzianotte toste che fanno la barba che è una meraviglia.
Sono felice di avere conosciuto questa gente.
Ho visto, come, naturalmente, sia vero che l'uomo è imperfetto; e come una diversa organizzazione sociale non cambi i vizi acquisiti in secoli di storia (i russi sono ancora pigri, complicati, ed eccessivi come al tempo di Dostoievskij). Ma credo per tutta la vita, ho fatto un'acquisizione assoluta: cioè che la società può essere veramente diversa come crediamo sia fatalmente destinata ad essere; che i vizi, le imperfezioni eccetera che vi permangono non contino nulla: e cosi le difficoltà, le responsabilità della scelta, gli ostacoli. Ma trionfa, ad ogni momento, ad ogni gesto, in ogni dimensione, quello che per noi è ancora il mito della giustizia sociale.
Siamo in un'altra fase della storia dell'uomo, dove quelle che sembrerebbero essere le cose semplici lo sono effettivamente: tutti sono davvero umili, ed i diversi ceti e livelli si formano naturalmente senza pregiudicare il dato fondamentale che è uguaglianza sociale. La faccenda della classe dirigente è una sciocchezza come il mito russo del popolo asiatico. Ciò che soprattutto si sente nell'aria di questo paese è la scomparsa delle classi sociali: quanto al resto pare di essere nella pianura Padana.
Per conto mio, ho sempre odiato i Festival, e le chiassate delle organizzazioni giovanili. E' un odio dovuto alla ragione che sono stato avanguardista. Qui sono stato smentito. Prima di tutto il mito in cui credono i giovani, espresso dalle parole Pace ed amicizia (il grido del Festival); che possono benissimo essere anche considerate parole retoriche di propaganda. Ma i giovani ci credono e perciò le rendono vere. Ecco una cosa (tanto semplice) che ho capito nel club degli operai di una fabbrica del centro di Mosca, dove si svolgeva uno dei mille incontri del Festival. Gli ospiti erano dei giovani italiani, e cosi vi ero capitato anche io con Trombadori, con Breitburd (lo Stiopa del libro di Levi) ed altri amici. E' bastato stare li dieci minuti per capire tutto. Quello che i figli hanno appreso dai padri adesso è loro. E l'hanno reso più puro e più sicuro. I battimani, le grida, i discorsi in quel piccolo paese di operai, sperduto nel cuore di Mosca, avevano nella loro umiltà e nella loro allegria, un senso profondo che faceva venire le lacrime agli occhi.
Con maggior violenza, del resto, ero stato smentito il giorno prima, all'apertura del Festival allo Stadio Lenin.
Non cercherò di renderne le dimensioni, che da sole sarebbero state sufficienti ad attuare quel trauma da cui i sentimenti sono modificati ed esaltati. D'altra parte mi ci vorrebbe un'intera pagina di giornale, non dico a tentare una trascrizione di quella parata, ma semplicemente ad elencare il numero delle nazioni i cui rappresentanti sfilavano davanti ai centomila spettatori dello stadio. I gruppi nazionali, grandi e piccoli, sbucavano da una porta sotto la gradinata, in una baraonda indescrivibile di bandiere, in un clamore altissimo di grida e saluti, facevano il giro della pista. andandosi poi ad ammassare nel prato. I russi hanno un meraviglioso senso dello spettacolo: e qui si erano scatenati. I colori, i movimenti delle masse eccetera, erano esteticamente perfetti: si adeguavano a questo entusiasmo della folla e magari al sole ardente, vinto a tratti dalla dolcissima arietta che veniva chissà da quale pianura. Ogni gruppo avanzava ballando, suonando e salutando, nei costumi nazionali.
Ma in questa fiumana travolgente, almeno tre sono stati i momenti di commozione non puramente estetici: il passaggio degli algerini, saluti dalla folla immensa con un urlo indescrivibile, il passaggio degli spagnoli (probabilmente emigrati) in un gruppo stretto e disordinato, silenziosi, colmi di un dolore impersonale e quasi simbolico, ed infine il passaggio dei cinesi: una fiumana di colori in cui la raffinatezza estrema si fonde in un insieme colmo di quello aumento di vitalità che sanno dare solo le opere d'arte autentica.
La cosa più bella di Mosca è la piana di notte. Sotto le mura del Cremlino che si stende complicato e leggero con le sue cupole moresche ed i suoi fastigi settecenteschi nel cielo grandissimo della città, vengono ad ammassarsi chissà per quale misterioso accordo, (ma pare sia una specie di tradizione) migliaia e migliaia di giovani: una folla sterminata. Ma l'aria è paesana: sembra la sagra di un villaggio di contadini. Non c'è niente nemmeno un chiosco, niente. Solo questa folla sterminata di ragazzi e di ragazze. Una allegria come non ne ho viste mai li agita, li fa ridere, scherzare. Sono vestiti come i contadini la domenica: ma forse ancora più poveramente, e rozzamente. Girano a gruppi. assetati di divertirsi e di conoscere. Accerchiano gli stranieri, fanno con loro conversazioni interminabili. Giocano fra loro ai giochi che si usano dai ragazzini nelle piazzette dei paesi. Fanno giochi, i figli, secondo antiche ed ininterrotte tradizioni contadine. L'immensità si frantuma in mille umili atti pieni di una storia di cose come non abbiamo mai visto ne immaginato.
dal nostro inviato Pier Paolo Pasolini
( © Trascrizione integrale da cartaceo, curata da Bruno Esposito )
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