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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 29 gennaio 2025

Discorso parlato su Pasolini "corsaro", di Gianni Scalia. "Salvo Imprevisti", numero speciale dedicato a Pasolini, a. III n. 1 (7), 1976

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Discorso parlato su Pasolini "corsaro"

di Gianni Scalia

"Salvo Imprevisti", numero speciale dedicato a Pasolini, 

anno III, numero 1 (7), 1976

sì, è pagina 32. 38

(© Trascrizione dal cartaceo curata da Bruno Esposito)


Ora che è morto, si può parlare delle "idee" di Pasolini? Le idee erano il suo corpo, la sua esistenza, la sua presenza nella vita, nella società. Per lui erano una prova, la prova. So bene: molti, forse "tutti", consideriamo le sue idee datate, o paradossali, o inattuali. Inutili, per essere "agite". Ormai siamo nella condizione di una scelta e di una decisione estrema. Lo credo sempre più: "o socialismo o barbarie". Tertium non datur. O meglio, il tertium è la scelta e la decisione estrema. Non si può sospenderla, differirla, spostarla. Non è possibile compromesso. Con il compromesso si perde. Si tratta di sapere quale socialismo. Forse, il significato (se è ancora possibile adoperare questa parola nel "mondo" dei segni) di quello che Pasolini ha scritto negli ultimi due anni è tutto qui: qual è il senso della vita in questa vita non vivibile? Una dichiarazione o professione di fede; no, non di fede o di speranza, come diceva, ma di carità. Una domanda di carità. ("Vi basta, compagni, questa vita? diceva un poeta, socialista, e suicida). E la domanda di carità di Pasolini era una domanda "propria", del suo corpo, della sua mens; di ciascuno e di tutti. Nel capitale totale, nell'economia politica della vita, è ancora possibile distinguere tra pubblico e privato, teorico e pratico, esistenziale e mentale, materiale e "coscienziale"? Di ciascuno e di tutti? L'ideologia è "praticamente vera". La "coscienza" è conoscenza e dolore: mente che pensa come corpo che soffre, e desidera: quotidianità che si ribella, trasgressione che si "normalizza"...

La contraddizione che attraversa la totalità determinata, è totale: non separa ma unisce, nella scissione, le idee, le pratiche, i discorsi, gli atti, la significazione, la comunicazione. Essere radicali, come è noto, è andare alla radice: il rapporto tra gli uomini. Un primo passo: dire no, la coscienza dello ' 'scandalo", l'incalcolabilità delle "conseguenze". Pasolini lo sapeva. E' vero, occorre trasformare la "crudeltà" dell'essere oppressi-oppressori; cambiare, sempre, ogni volta, in consapevolezza l'atto di negazione, di rifiuto, di protesta, la cecità del dolore e della disperazione, l'oscurità dell'angoscia e del desiderio. Ma non farli diventare "razionali". La radice è nella insopportabilità di questa vita, e nel desiderio, non di "sopravvivere", ma di vivere una vita altra, un'altra vita: la "passione di essere differenti". 
Il senso della vita, in questa vita, non è una domanda impossibile. Ha ancor senso, in mezzo alle complici "purificazioni" che sul non-senso compiono le "sensatezze" amministrate nella banalità del male, nello spettacolo quotidiano, non del "peccato", ma della sua ripetizione come "virtù". E' una domanda che non nasce più dalle domande sulle "cause" del vivere, ma ormai sugli "effetti" del vivere questa vita, su questa vita come effetto. 
"'La religione della vita quotidiana", come diceva Marx: il feticismo delle merci, del denaro, del capitale, della pratica sensibile e conoscitiva, dell'organizzazione dei rapporti tra gli uomini nel lavoro-corpo, nel bisogno-desiderio, nel linguaggio, nelle istituzioni. Essere radicali è cominciare la critica della nuova "religione", della religione che ci unisce nella divisione. 
L' "intero è falso", proprio perché solo l'intero è vero. La contraddizione è totale. Non si corregge, equilibra, riforma. Si deve sopprimere. Cominciando con la critica dell'intero. 
Pasolini, negli ultimi anni, è stato "corsaro". II termine è metaforico, avventuroso, impreciso. Ma sintomatico. Tradotto nelle lingue "correnti" (e messo tra virgolette esatte e atroci) ha significato, per quasi-tutti: scomodo, inquietante, sconcertante, intemperante, riassuntivo, immediato, estemporaneo, digressivo, impaziente, paradossale, irrealistico, allusivo, emotivo, imprudente, provocatorio, scandaloso... La polisemia dell'avversario del "mutamento" è per definizione, ampia, generale, generalizzabile. D'accordo, magari, in privato, sulla provocazione (e non, s'intende, nel senso vocale, etimologico, etico, "evangelico" del gridare la verità dai tetti...); ma pubblicamente, politicamente, scientificamente, "responsabilmente" , si doveva dissentire, prendere le distanze; tacere o parlare d'altro. O meglio, correggere, integrare, equilibrare neutralizzare, diplomatizzare, responsabilizzare (con tutta la serie del suffisame "moderno"...) 
E Pasolini, negli ultimi due anni, portando alle conseguenze estreme, fino che ha potuto, la sua contraddizione "non-dialettica" (o "troppo dialettica"), ha continuato a ripetere, con l'ossessione dello "scandalo" e lo scandalo dell'ossessione, la "litania" dei perché descrivendo, perpetuamente, sollevava le domande in tempi di descrizione di "novità" e in mezzo alla perentorietà degli inviti e moniti "razionali" al quomodo, alla manipolazione e alla formalizzazione, alla credibilità. Sollevava la domanda sulla insopportabilità di questa economia politica della vita, in cui essere-uomini è essere produttori, consumatori... La richiesta di complicità nelle domande-risposte sui fatti. 
"io sono più di due anni che cerco di spiegarli e di volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato... 
Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti e ad approfondire i miei tentativi di spiegazione". 
Chi parla e scrive da "corsaro" su problemi "ultimi" , cioè primi, comunque si esprima, deve essere, se si può, aiutato; non tacitato, omesso, normalizzato o "spiazzato". Deve essere tradotto. Non rimosso o liquidato tra la "sovversione" senza futuro e il "compromesso' senza presente... Tradurre non vuol dire correggere, verificare o falsificare, equilibrare, misurare. Vuol dire: essere altrettanto intransigenti. Magari, rovesciare quella intransigenza, quella radicalità, in un'altra intransigenza e radicalità. La tolleranza è tale solo se è intransigente; l'"apertura" (come si dice, contro tutte le "chiusure") è efficace solo se rifiuta l'efficacia dell'efficienza e la "giustezza" della giustificazione di ciò che è, come è. 
Tradurre è transducere. (Come sapeva Benjamin). 
Pasolini non si fermava al quia delle spiegazioni senza comprensione, del sapere senza soffrire, della coscienza senza '"conoscenza di classe" (o lo desiderava! ), della conoscenza senza trasformazione del "conoscente" di fronte al "conosciuto". Chiedeva, oltre che a sé, agli altri; non il silenzio (o la chiacchiera), ma la parola; non solo la parola ma l'azione dell'aiuto, non solo il consenso, ma il dissenso: cioè, la radicalità (non la promotion) del consenso. (L'interrogazione è stata posta; la ferita si apre; la cicatrice appare sulla nostra pelle, e sulla nostra faccia, e sulla crosta delle nostre "idee", dei nostri atti, forse anche del nostro "non confortevole" soggiorno... Un segno è diventato traccia, taglio, buco, ferita. Fa male. E si sente male). 
Pasolini, con i suoi mezzi, era alla ricerca dei "perché", rispondeva continuando a chiedere. Descriveva e soffriva, sopportava e rifiutava, incarnava (ribellandosi alle "questioni") i fenomeni del "corpo sociale" (e le facce e i gesti) della nostra macchina di socii, di "creature sociali" del Capitale, i segni infetti della società, di cui cercava la "fonte di corruzione ben più lontana e totale" che la "corruzione" che ci prepariamo, con efficacia, con sicurezza, con "realismo" a correggere. "Ed eccomi alla ripetizione della litania. E' cambiato il "modo di produzione" (enorme quantitativo, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merci, produce insieme rapporti sociali, umanità". La "metafora" del Palazzo, in cui sono oppressi e oppressori, nelle due "parti" da sopprimere nel loro rapporto e non da comporre nel compromesso o gestire nell'equilibrio, è solo una "metafora"? Non è la metafora del Capitale, della società del Capitale, del capitale come Società? 

***

Certo, nel "dibattito" (come ormai si dice, sottraendo all'etimo ogni punta polemica, cruenta, trasformandolo in team, conversazione, disputa, registrazione, convegno, istanza" di base o di vertice, popolare o d'élite, divulgativo dall'alto o didatticamente anti-didattico dal basso...); nel dibattito "culturale", in cui gli intellettuali fingono di non essere tali, e sono perché "rappresentativi" della loro stessa "non-qualità" di intellettuali, sostengono le forme nuove della loro collocazione o "dislocazione" -lo "Spiazzamento" sembra essere l'ultima trovata! I "temi" di Pasolini post mortem trovano il loro posto, sono "dibattuti". Dibattuti pubblicizzati e dimenticati, verbalizzati e omologati. Sono, appunto, "temi". Pasolini è, spesso, simbolo, referto, fattispecie, cavia, testimone, "martire"... I pensieri di Pasolini non erano temi. Erano "cattivi pensieri", tesi, antitesi; sofferenze e insopportabilità, come ho detto. Verità ed errori. Domande, non affermazioni "dimostrate". (La dimostrazione era il loro essere "accaduti"). Richieste, non programmi. Interrogativi, se si vuole, secondo la violenza della carità e la perversione della diversità; non progetti, programmi, "poetiche" , promozione di "idee", fumetti "ideologici", slogans effimeri sociologici, immediatamente "semiotizzabili". Pasolini parlava in corpore vili, nel suo corpo, che è stato, appunto, straziato, e con la sua voce; si presentava in carne ed ossa senza "autorevolezza"; nomade, spesso, nelle "discussioni", divorato come da un vizio: il vizio di cercare, di scandalizzarsi (prima che essere "scandaloso"). E' difficile considerarlo, come ce ne sono tanti ormai, un grande o piccolo maitre à penser, un professore (o professionista) di morale o di storia o di azione (col dito alzato, o col pugno chiuso in un cadenzato omoteleuto..., o con le mani incrociate nel "pensiero"). Ha posto domande, anche nella forma sbagliata? 
Ha chiesto il diritto dell'eresia. Non ha nascosto la sua faccia; come quella di tutti, stravolta, derisoria, mascherata, orrendamente "vera", viva. 
Si è detto, subito dopo la sua morte, che era necessario continuare nelle sue domande, nei suoi "perché". Non è avvenuto. Più o meno bene (o male) insediati nella nuova Professionalità, gli intellettuali, i "lavoratori di testa", hanno solo riprodotto i "temi". O ne hanno proposti altri. Lo si è sostituito sulle colonne di quel giornale, che è la nostra laico-progressista preghiera del mattino. Si sono affrontate le questioni della società italiana "in trasformazione". Si tace, per lo più, della società italiana in degenerazione. Lezioni contratte di economia politica (cioè, di politica economica), finanziaria e monetaria, corsi accelerati  di sociologia, spiegazioni sintetiche di psicanalisi, cattedre provvisorie di psicologia... Interrotti, percorsi, contestati, talora, dal basso, attraverso, in obliquo, ritornano avanguardisti-dopo, professori ex-rivoluzionari, leaders post-sessantotteschi come "dirigenti" partitici. Si razionalizza il "mutamento", si illustra la violenza, si propone la scrittura come azione, si discute delle relazioni "distintive" tra politica e cultura, della neutralità o partiticità delle scienze, si postula la "decodificazione" quotidiana dei segni quotidiani: si prepara la classificazione linguistica e semiologica delle parole appena dette dalle bocche ribelli, del "lessico" femminista (non più familiare...). La disperazione è ineffabile, inclassificabile; la "miseria" deva poesia è la "letteratura minore" o "selvaggia"; i frammenti della vita sono le nuove forme di "de-composizione" grafica; la ribellione è "improduttiva"... E' come una grande e vacua, gonfia perché vuota, tesa e sorda, cassa di risonanza di "temi", di parole d'ordine e di frasi fatte, di pezzi di "assiomi" e di convenienze, di ufficialità e di acquisite "irregolarità" protempore ; un enorme spettacolo kitsch e revival; un immenso déja vu, letto, conosciuto, fatto... 
Si privilegiano e si offrono le ricette pragmatiche e si sconfessano, nella lunghissima "transizione", le domande "utopiche"; si spera il meglio, o il peggio. Si proclama lo scandalo altrui, e non il proprio. Non ci si scandalizza di nessuno scandalo. Si gioca al terrorismo, altrettanto che all'ottimismo del progresso inevitabile, dell'equilibrio "favorevole". Raramente, la reciprocità del pessimismo dell'intelligenza e dell'ottimismo della volontà, per davvero. Le condizioni presenti non permettono che la loro irreciprocità costante. 
Si parla del progresso imminente, nelle peggiori manifestazioni della degradazione: si parla dei "guasti" immediati senza sperare sul potere di "eversione" della contraddizione, ma giocando sul calcolo della sua incontraddittorietà... 
Pasolini non mi sembra un maestro di pensiero, un professionista politico o culturale, uno scienziato, un politico, un riformatore, o un profeta. Il "corsaro" era un'altra figura, senza figure, o, magari, di paziente, di portatore di tutte le figure che gli si attribuivano... Chiedeva e denunciava il "perché" dei fatti nei fatti stessi. Aveva scelto un modo "ingiusto", uno stile senza stile ("la banalità del suo linguaggio"), un linguaggio preciso e "improprio", esatto e "oscuro", di parlare di una sola cosa: dello scandalo del presente, nella sua totalità. O meglio, non parlava di questo-e-d'altro; parlava del "rovescio", del "nascosto". 
(Nella società del Capitale, come scriveva Adorno, l'orrore è "naturalizzato" nelle due forme dell"'ovvio - e dell'"incomprensibile"). Provocava lo straniamento, che rivela la contraddizione del naturale (positivo o negativo), l'inversione del versus, la morte della storia, la non-società della socializzazione. Si faceva portatore della diversità, condannata ad essere, insieme, medesima e altra, senza complicità perché senza innocenza... 

***

In questo era corsaro, ed era "scandaloso". E' facile equivocare, in buona, o cattiva, coscienza. Pasolini non era scandaloso. Non promuoveva lo scandalo. E' possibile nella società del capitale, possessiva e permissiva, proprietaria e socializzata, egoista e "comunitaria", disarmonicamente prestabilita, promuovere scandalo? Pasolini ecco, si scandalizzava. E' una reazione sempre meno frequentesempre più impensata. La spiegazione, e non la comprensione, dell'orrore, del dolore, della corruzione, dello sfruttamento, ci fa sempre meno scandalizzati. Pasolini voleva, prima di spiegare,  comprendere? Conoscenza, e non solo "coscienza" di classe: cioè, dei rapporti corrotti tra gli uomini. Era "cristiano"? I più sono scandalistici, scandalosi: non scandalizzati. In scandalo c'è un etimo di sopportazione e di insopportabilità, che conosciamo sempre meno. Scandalo è pietra d'inciampo, è rottura, critica (patimento e intollerabilità), entrare negli interstizi, nei "buchi", abitare nella "merda delle contraddizioni". Rifiutandola esprimendola. Lo scandalizzato è impotente, ma sofferentetollerante che non sopporta, non si sopporta: si nega convivendo, si estranea abitando insieme: abbassa gli occhi per non vedere gli occhi che vede e che lo guardano, arrossisce del pudore o della vergogna altrui, senza innocenza; è solitario nella divorante solidarietà: cerca i rapporti che teme o spera, desidera ed evita. E perché li desidera? Dopo aver creduto e sperato negli "innocenti" , sa che nessuno è colpevole se non è innovente. E, forse, che la redenzione non é dell'innocente, ma del colpevole che assume su di sé non solo la pena, la colpa, e interroga, genealogicamente in sé, la morale di tutti, e di ciascuno, nel suo status di normale diverso, senza "risentimento" .
Lo scandalo è, dunque, scandalizzarsi. Scandalizzarsi è il primo passo della critica, del pensiero, e della pratica, della trasformazione. Lo "scandalo" non è l'immoralità, l'anti-scientificità, l'impoliticità; l'inazione o il pragma. Scandalo è questo modo di produzione di umanità; é il dominio, l'oppressione, lo sfruttamento di uomini su altri uomini, "mascherati" dalle esigenze della Storia, del Sistema, della Struttura, dell'organizzazione del Potere che è potere, e del potere che sarà il nuovo potere. 
Lo scandalo é nell'assenza dello scandalo, per cui non soltanto una parte degli uomini è oppressa (come sempre, da sempre; siamo nella "preistoria"), ma è diviso, scisso, offeso il rapporto sociale, il rapporto tra gli uomini, che è rapporto di classe. E' la verità della critica dell'economia politica. Pasolini lo "sapeva" solo nella forma della "presa di coscienza", dello scandalizzarsi. 
Cioè, nel corpo, e secondo la scienza del dolore. 

***

Fare il corsaro era un modo di praticare la critica, nel corpo e nella società. Porre domande finali ai vertici (agli "intellettuali"): e alla base. Verificare, se si può dire, le ipotesi soli con le richieste. O meglio, se continuo a parlare nelle lingue correnti, misurare le proposte, non con il risultato (o il successo), ma con il dissenso: i programmi alternativi, non con l'alternativa, ma con il diritto dell'eresia; la volontà di "gestione", non come riuscita soltanto del progresso, ma con la realtà insopportabile del dolore presente. La teoria, non con la pratica, ma con la pratica rovesciata della realtà: l'oppressione non solo con posizione", ma con il desiderio di classe, cioè con il desiderio del non essere oppressi, qui, ora. Lo scandalo è, forse, nella non-reciprocità del rapporto sociale di classe tra oppressi e oppressori, dominanti e dominati. Esisterà finché non si comprenderà (e non si sopprimerà) l'ineguaglianza di questa equivalenza di oppressione; l'irreciprocità di questa reciprocità: il non-rapporto di questo rapporto. Finché non si chiederà conto di questa irreciprocità, malgrado tutte le "apparenze". 

***

Il corsaro era violento senza pace, ma con carità. I "temi" del corsaro sono tentativi sul "perché"; interrogazione sulle condizioni, più che sui "condizionamenti", al vertice più ché alla base, e viceversa, nella gerarchia equivalente del Capitale: sulla scissione incarnata tra il dire e il fare, quando in molti continuiamo a proclamare, nel nostro nuovo "illuminismo", che dire è fare. Appunto, dire di fare, fare nel dire, fare per dire, dire sul fare... I segni (che siamo, da cui siamo fatti) sono più, e oltre che, segni. Segni che si rifiutano di essere segni. Le "metafore" di Pasolini. 
Il Palazzo, il Processo. il "genocidio". la "mutazione antropologica" Chi non continua a dire che sono metafore? E' bene prendere sul serio, come diceva Nietzsche, le metafore sono concetti "sepolti", stratificati, enormi, che pesano... (E le metafore di Marx: il feticcio della merce, la "nebulosa" religiosa, il "cristallo" del lavoro?...). Vogliamo dimenticare che in ogni "testo" dobbiamo cogliere non la finzione, ma vincere la verità dell'opposizione di reale e immaginario, sensibile e soprasensibile; uniti insieme e "rovesciati", come nella Merce. Addetti, come sempre, al vizio del realismo", che perverte ogni segno e ogni discorso, cercandovi il segno "fedele" della realtà (o del concetto) e non il significato del rovescio rovesciato, del potere (le delfin-potere), dell'oppressione e della ribellione, della contraddizione. Temiamo le "metafore" nel nostro competente disprezzo, o previa pietà. 
Il Palazzo è la metafora del Potere come totalità. Non come parte. In esso siamo implicati, responsabili, quotidianamente, del suo presente e del suo futuro, della sua "crisi" e anche del suo "sviluppo". La metafora chiede di essere scissa in domande: gestione dello sviluppo o trasformazione radicale dei rapporti sociali? Riforma della "crisi" e forma di transizione, o imminenza del comunismo? (Il comunismo "della povertà", diceva Pasolini, con un'altra metafora). Capitale "considerato come un tutto", o come forma che si può sostituire, correggere, gestire, senza sopprimere? ("La borghesia non è il Capitale", scriveva Marx). Il nuovo potere del capitale è il potere di totalizzazione dello sfruttamento, dell'oppressione, del dominio nella forma del nuovo Patto Sociale. Sono domande "metaforiche"? 
Il Palazzo non soltanto lo stato, le istituzioni, gli apparati ideologici (materiali o simbolici), il "governo", la "classe dirigente" (la parte che si pone come tutto). E' il "riassunto ufficiale", la concentrazione organizzata della contraddizione sociale, dei rapporti di produzione di classe. Il Palazzo è la società del capitale in tutte le sue forme specifiche, che si può capire non secondo specificità, ma nella sua totalità determinata. Il Palazzo è la società del capitale in cui "le classi" sono diventate la riproduzione sociale di ogni rapporto tra gli uomini: la riproduzione sociale del rapporto capitalistico. Appunto: il Capitale produce non solo prodotti, forze produttive e mezzi di produzione, ma rapporti sociali, "umanità", come scriveva Pasolini nelle sue metafore. 
Perché strappare alle metafore la loro fame, la loro sete, la loro "prevaricazione" di totalità? 
Produzione di umanità. cioè "mutazione antropologica". Nella società del Capitale, si produce società, per intero, per la prima volta. C' è una catena di significanti, in quella metafora, che chiede di essere compresa: la connessione tra sviluppo (cioè: forze produttive) e socializzazione (cioè: rapporti sociali di produzione, sulla base di questo sviluppo): la connessione tra sviluppo/socializzazione e "nuovo potere" (cioè: potere come forma di questo sviluppo/socializzazione); la connessione tra nuovo potere e "omologazione" culturale, organizzazione della "cultura" come produzione della comunicazione, della significazione, delle "istituzioni" e dei "servizi". 
Nella metafora, le connessioni fanno esplodere la contraddizione di una "strategia" che sia solo di "opposizione", di partecipazione alternativa, di gestione "sociale" dello sviluppo (di questo sviluppo), di compromesso o collaborazione di classi. E, per cosi dire, fa vedere, mostra (non solo denota o connota) la "tremenda realtà" , l'eguaglianza delle due facce, la perdita di identità nella "diffusione delle identità". La nuova eguaglianza, il nuovo patto sociale, che converte "le contraddizioni in opposizioni" (come Brecht sapeva) e le opposizioni in una nuova Equivalenza appunto, ci allontanano sempre più, dalla "comprensione simultanea", come annunciava Marx, che la socializzazione non è solo l'estensione e la generalizzazione dei "diritti" sociali, ma la riproduzione dei rapporti sociali di classe. 
E il Genocidio non è forse, metafora dello sfruttamento universale, della produzione che lo sviluppo fa del sottosviluppo; e, ancora più, che il sottosviluppo è la forma dello sfruttamento ancora "imperfetto" dello sviluppo? 
E il Processo non è, forse, la metafora della "responsabilità" di classe, cioè totale, della "classe dominante", non nella sua rappresentatività politica, ma nella sua struttura di dominio economico/politico/sociale? E, insieme, la metafora della domanda di politicità, a livello profondo, della società, non nel senso di "gestire", ma di agire per la trasformazione totale, per la rottura e non per l'equilibrio? Non é solo un processo morale, una richiesta di "alternanza", la proposta di un'azione di "riforma". E' la richiesta di "verità", nella "mania di verità". Pasolini, nel suo linguaggio metaforico, diceva di usare non "le categorie della politica", ma della "verità politica" (che l'intellettuale, non addetto specialisticamente ai "problemi morali o ideologici", è tenuto a "servire"). 
Siamo disposti ancora a parlare di "verità" nella politica? Siamo pronti a non reprimere questa "metafora"? Forse, Pasolini diceva che la politica é la critica della politica. 
Evidentemente, non si sono letti troppo bene gli - Scritti corsari. 
Pasolini non ha affermato il regresso; ha contestato questo "progresso", che ha decifrato come contraddizione. Parlando della fine" del passato, ha parlato dell'assenza (della perdita) del futuro. E' "reazionario"? Non c'è nostalgia dell'"umanesimo" perduto (anzi, per Pasolini gli uomini non sono più "umani"; 
nell'"inferno" presente è impossibile un "paradiso terrestre" metodologico, scientifico: nessuna scienza dell'uomo! ), o delle civiltà scomparse, o del mondo contadino "sommerso". La distruzione è prodotta, come il sottosviluppo dallo sviluppo. C'è la constatazione e la denuncia della "contraddizione in processo" 
(Marx dei Grundrisse) di questo progresso capitalistico. Certo, occorre essere dialettici (e materialisti): il plusvalore è, insieme, sviluppo e "reificazione", progresso e "sangue e fango", forza di produzione e di distruzione. Occorre comprendere (simultaneamente) la contraddizione dell'unità, non l'opposizione di progresso e regresso; e, precisamente, la reciprocità di omogeneità e disgregazione, di uniformità e diversità, di socializzazione e violenza. Ciò che è morto, è prodotto come "morto"; ciò che è disgregato è "riciclato" nella sua dissoluzione; il "diverso" non è solo l'escluso, ma l'attore contraddittorio della sua esclusione, che deve scoprire il processo di produzione della diversità. Il Capitale ha "confuso" le parti, in quanto produce il presupposto della loro unità divisa. Per scoprire la contraddizione, non è più possibile "opporre" una parte all'altra. 
Il Capitale, come produzione di rapporti sociali, è produttore dei rapporti sociali in cui si produce, si scambia, si consuma. L'analisi del Capitale deve essere "all'altezza" del capitale che produce umanità. Dobbiamo prendere sul serio le metafore. Il dominio dal Capitale non è soltanto formale, ma reale. Tutti gli uomini sono sottomessi a questo dominio, a questo "essere comune" perché si riproducono socialmente i rapporti tra loro. Negli Scritti corsari, "frammenti di un'opera dispersa e incompleta" , la "scandalosa ricerca" dell'attualità, ha, anche, inventato un "genere" , un linguaggio giornalistico, che ha prodotto alcune immagini, terribili e semplici, della nostra società. In fondo, al fondo "dell'attualità", ha calato e ha fatto precipitare in esempi, documenti, prove, testimonianze dell'orrore, la critica della società industriale mostruosamente "disumana" nella sua "tecnicità dolce", nella "ideologia inconscia ma reale dell'edonismo": la dissoluzione dell'essere nel fare, la legge universale della produttività-consumismo come legge della società del lavoro e del guadagno, del successo e del potere, della ricchezza e del profitto, del prestigio e dell'utilità. L'uomo, cioè il produttore di rapporti sociali, è alienato e estraniato nel circolo della "maledizione". C'è qualcosa di " biblico" in questi articoli di giornale? nei meccanismi della produttività, della prestazione e del rendimento della massificazione violenta, disperata, cieca, della distruzione "scientifica" della Natura. E' finita la lotta contro la "mostruosità"? Dovremmo per competenza delegare alle "macchine" la lotta contro il Leviatano moderno? E, per "razionalità", sconfiggere in noi ogni pathos dell'unde malum, e delle domande-lotta di Giacobbe? 
Il male esiste; non si è "corretto" negli schemi della ragione tecnica. Non maledire, certo. Ma, certo, dire no. La negazione dello "stato di cose esistente" non si è ancora conclusa di fatto con la "negazione della negazione". Produrre sempre più per consumare sempre più; e consumare sempre più per produrre sempre più. Il "circolo" nell'ideale progetto di sviluppo. L'alienazione è in questo "circolo" che ci costituisce, ci attraversa, ci fa sopravvivere e ci distrugge. La violenza quotidiana e istituzionale, simbolica e materiale, il potere e l'avere sostituiscono, nello sviluppo, l'"essere sociale". Lo sviluppo come contraddizione in processo, è anche la contraddizione tra lavoro e produzione, tra lavoro e bisogni, tra società e essere sociale, tra sviluppo e sottosviluppo, tra miseria e ricchezza, tra "libertà" e liberazione... La produzione è anche distruzione; il consumo é anche consumazione. La legge universale del capitale è l'economia politica della vita, del desiderio, della sessualità, del linguaggio: produzione-consumo; omologazione e genocidio; socializzazione e disgregazione; abbondanza e miseria del superfluo, che riproduce lo sfruttamento del "necessario" o aumenta la repressione del "superfluo". La liberazione, l'emancipazione, ormai, nella società del capitale, non può essere che a titolo umano, non solo a titolo storico (come diceva Marx). Forse Pasolini sosteneva, "cristianamente" , la liberazione attraverso la libertà dal Possesso e dal Potere, dall'Avere e dalla Prestazione. 
Le forme, cioè, del non essere dell'essere sociale. 
Ci stiamo abituando a non interrogarci sulle domande e sulle risposte finali. Sulla necessità della felicità. ("Non è la felicità che conta? Non é per la felicità che si fa la rivoluzione? " "Oggi questa felicità è andata perduta. Ciò significa che lo sviluppo non è in nessun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista"). 
Sulla coscienza della "reificazione" , sulla coscienza della "unità' tra Padrone e Servo e tra Servo e Ribelle. Ci abituiamo, nella coppia padrone/servo, all'accettazione mediata del padrone "eterno", alla sua insopprimibilità, per "ragioni tecniche" (come diceva Marx a proposito della opposizione tra "godimento" e "arricchimento"). Dobbiamo dimenticare che esiste, può esistere la "servitù volontaria" (ah Freud! l'"eterno ritorno", il fatum della riproduzione, dell'accumulazione "cosiddetta originaria"? (Ah Nietzsche!) Pasolini "cinese"? O marxiano? L'accumulazione e la riproduzione, "trasudante da tutti i pori sangue e sudore", "quest'opera d'arte sublime della storia moderna" . (Lo hanno dimenticato gli storicisti-progressisti? Hanno accettato l'interpretazione "marxista"). 

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Pasolini è stato un intellettuale "patetico" (e consolatorio nel suo pathos), superato? Ci sono due modi di essere intellettuali d'opposizione? ( Ricordarsi del Kopfarbeiter brechtiano, sempre.) Attraverso il pathos e attraverso l'ironia? Nel pathos c'è, a volte, da Eschilo in poi, la conoscenza. Nell'ironia, a volte, l'ignoranza del male. Dovremmo praticare l'humour e la dialettica, come ci suggerisce Brecht, compagni inseparabili nella "sopportazione della contraddizione" , unici a tener testa alla "truce coppia Ananke-Logos
"Piango un mondo morto" Ma non sono morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo no a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione...' Forse, tutto il senso di Pasolini, nella verità e nell'errore, è qui: "Cosi non si può più andare avanti. Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo". E bisognerà da qui capire Pasolini. 

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Pasolini è stato un intellettuale. Non ha nascosto di esserlo. Una figura diversa da quelle in presenza: tecnici delle comunicazioni e dei servizi, operatori culturali, nuovi professionisti, "'regolatori" dei rapporti sociali esistenti. Almeno negli scritti corsari. Il "corsaro" è, forse, la manifestazione estrema della crisi dell'intellettuale "tradizionale" e dell'intellettuale "impegnato" (o neo-impegnato, "organico" al nuovo "blocco storico"). Non è a servizio, né in servizio. Paga, anche, la condanna della sua "mania di verità", che può essere mania, ossessione, "malattia". Ed essere "maniaci" della verità sembra spesso, a noi progressisti, che non "serva" alla rivoluzione. Ma il corsaro Pasolini stava scoprendo la critica dell'economia politica. E l'economia politica dell'intellettuale, della cultura, della (cosiddetta) "funzione" intellettuale. Che non risiede nel "Contenuto" o nei modi (regole, tecniche) della attività intellettuale, ma "nell'insieme dei rapporti sociali in cui le attività intellettuali (e quindi i gruppi che le impersonano) vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali" (Gramsci). L'intellettuale deve essere "organico" al nuovo potere, all'"ascesa al potere della nuova classe", come ci invita qualcuno? Sono queste le "ambizioni" e i "compiti grandiosi" del "ceto intellettuale"? (Si può "riuscire", allora ma proprio come "'ceto intellettuale"). 
L'intellettuale corsaro non è organico. Qui il primo passo della critica; e la condanna della "riuscita". Denuncia e professa la sua non-professionalità, critica il suo ruolo e le "sue" istituzioni; non è ' 'autorevole", cioè: rappresentativo. Dissente, reagisce, esibisce i sintomi della nuova contraddizione. Disturba, turba; parla, non solo dello sviluppo, ma della sua contraddizione. Sbaglia perché anticipa? Perché non accetta "ricatti" dal futuro? 
Perché rifiuta lo statuto (il brevetto, il certificato) di "autonomia" (sia pure a un nuovo livello)? Perché rifiuta i benefici e la concretezza della pragmaticità, della nuova professione di "autorità" scientifica e politica? 
Pasolini, credo, comprendeva, nella sua diversità "corsara" , la crisi dell'intellettuale "neo-professionista", "organico", restauratore progressista del ruolo e della rappresentanza, che, nella specificità generalizzata, cancella la contraddizione della propria specificità, occulta che la sua nuova "illusione" è altrettanto "disillusione" del "vecchio" ruolo che mezzo di riproduzione reale del sistema, nelle sue funzioni, istituzioni, servizi. La contraddizione sociale di classe attraversa e costituisce contraddittoriamente tutte le pratiche specifiche. 
Cominciava a comprendere che la "cultura" non è quella degli intellettuali, o quella della classe dominante, né quella della classe "subalterna"; è, nell'ultima figura del Capitale, la socializzazione, la forma delle relazioni sociali, l'enorme "comunicazione" o scambio o equivalenza nella forma di valore occorre cominciare, forse, dalla "povertà" dell'intellettuale, dalla sua perdita, perché non ha "niente da perdere" , come ogni oppresso ("pensante" o "soffrente", diceva il giovane Marx), se non il suo "potere" e la sua "proprietà" (secondo il "trucco sinonimico" del significato doppio) di intellettuale. "Ha il necessario coraggio ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere". La definizione di Pasolini era unilaterale. Ma, forse, possedeva, metaforicamente, il futuro. "Niente da perdere". I "lavoratori della testa" devono cominciare con la comprensione che la testa è lavoro, e il lavoro non è ' 'la testa". (Il '"trucco" hegeliano della trasformazione del logos in lavoro e della ritrasformazione del lavoro in logos). Rovesciare, non alzare a livello "superiore" , la loro testa rovesciata. E' qui la loro necessaria "povertà?".

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Pasolini è stato politico. Forse, l'intellettuale più politico di tutti. Ha evitato la solita "questione" dei rapporti tra cultura e politica. Non ha posto, in altro modo, la "questione". Ha parlato direttamente, immediatamente, non richiesto. (Brecht non certo "corsaro" diceva, a suo tempo, "pensiero interventista", "engreifedes Denken"). Situazioni-limite come quotidianità, e viceversa; buchi, alterità, anomalie normali, orrori di tutti i giorni, di giorno dopo giorno. Ha visitato e frequentato i luoghi pourris: ha abbandonato la liturgia e il rituale delle convenzioni, delle "scomunicazioni". Ha parlato in persona prima. Oltre quel "muro del rischio", di cui ha scritto, dopo, Fortini: il gioco del tacere-parlare, cioè del silenzio. 
E' stato uomo pubblico. Ma non un "personaggio" (di cui si è 
troppo forte) siete tutti "personaggi" come "maschere del teatro dello scambio". Si tratta di non mascherare con l'innocenza la naturalità; di non naturalizzare la maschera. Le maschere: l'identità di apparire ed essere. A volte, bisogna rompere a proprio rischio l'identità. Perdersi. (Chi si perderà...) E Pasolini si è servito della sua "autorità" di personaggio, senza avere e chiedere "'autorevolezza", l'autorità delle istituzioni. E' andato incontro, deliberatamente, alla incompetenza scientifica, all'inattività e "inorganicità" politica. Non usciva dalla contraddizione. Ma ha usato la contraddizione. In un certo senso, si è sdoppiato: persona e personaggio, "diverso" e eguale. Per parlare' non come-Pasolini" ,come ci si attendeva da Pasolini-personaggio, come ci si aspettava dal Pasolini' 'scandaloso" non dal Pasolini che si scandalizza continuato a usare la sua contraddizione. Su questo bisognava giudicarlo, e contrastarlo, e aiutarlo. E invece, non lo si è giudicato mai se non secondo politica (non: critica della politica); secondo scienza, secondo i "saperi". "Non gioco su due tavoli, quello della vita e quello della sociologia". (La scienza - e la letteratura, ecc. - come critica, credo, non deve avere come suo "oggetto" se stessa; non deve essere un gioco di assimilazione, ma l'analisi dell'alterità e della rimozione). Lo si è giudicato secondo la moralità convenzionale, dei "valori" stabiliti; o secondo la moralità progressista dei valori' "da stabilire".. Incapaci di tradurlo. Gli intellettuali italiani, i più, prima che morisse non l'hanno "tradotto", come chiedeva. Dopo che è morto, hanno parlato, molto , facendone un caso, un test, un "esempio"... un amico. 
Prima, e dopo, sono rimasti nella specificità della competenza, scientifica e politica. Opponendo, per necessità, il silenzio dell'opportunità o lo "scandalo" di fronte allo scandalo. Pronto, il Pharmakos nel doppio senso. 
Ma io credo che Pasolini sia stato politico.(Non ho dimenticato una frase "primaverile", in cui si diceva che non tutta la vita è politica, ma che occorre fare di tutta la vita politica). Ha inventato immagini. Ma erano immagini politiche. Non immagini fuori, o al potere. Ma contro il potere. Senza autorevolezza, appunto. Il suo "personaggio", l'ha messo al servizio della Critica. Narcissico, il suo narcisismo è stato politico, sociale, paradossalmente. Ha parlato di Sé, parlando politicamente. (Il personale è politico). Ha parlato in nome proprio, non in nome di qualcuno, o per qualcuno. E ha parlato di problemi di tutti. E' stato politico 
da intellettuale. Ma non è stato un politico intellettuale, né un intellettuale politico. Ha cercato di comprendere gli oppressori, oltre che gli oppressi; ha cercato l'amore "deviato" nell'odio; ha cercato di "spiegare" al diverso l'atroce eguaglianza della sua diversità, perché imparasse a ribellarsi con la diversità della sua "eguaglianza". Ha saputo parlare del fascista. Ha capito il nuovo fascismo, del tutto diverso dall'altro: il "fascismo" capitalistico-totale. Affermazioni, difficili, aspre, poco sopportabili. Ma, intanto, Pasolini ci poneva domande semplici, e temibili. Il fascismo è tra noi, in noi; è il nuovo potere del capitale; l'antifascismo non basta, in questa nuova radicalità del rapporto sociale "socializzato". La lotta di classe ci attraversa tutti. Bruciando le "immagini" progressiste del fascismo e dell'antifascismo, Pasolini ha toccato la radice della società del capitale, al di là, o al di qua, della sua "storia", e la necessità di trasformare, alla radice, la società del capitale. Il "grembo" è sempre fecondo. (Le analisi del fascismo, le avevano già fatte Brecht, i "francofortesi"... Non sono più nelle nostre teste ben piene, anche se sono nelle nostre schede bibliografiche). 

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Pasolini è stato un "semiologo". Cioè, ha decifrato dei segni. Ma guardando in faccia, nella faccia; guardando le facce. Le ha trovate irriconoscibili, non-riconoscibili. E riconosciute. Sono le facce come "caratteri di maschere". La sua semiologia non è stata una "scienza". Il segno è stato, per lui, una faccia sociale, 
immediatamente, un comportamento, una pratica. Un'azione sociale. Semiologia della vita, non della lingua, de "lalangue". Semiologia come decifrazione dell'alienazione, analisi della malattia, del "lato cattivo" della storia che progredisce. Richiesta, indiretta, non di spiegare i segni, in positivo, ma di comprendere il luogo di produzione della loro "perversione". La scienza dei 
segni di Pasolini è stata una scienza di segni che si rifiutano di essere dei "segni". 

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 Pasolini è stato politico. Da "corsaro". Bene e male. Gli altri: o fanno gli intellettuali, o fanno i politici. Distintamente presupponendo l'unità che è, però, alle loro spalle. E' per questo che hanno autorevolezza. Bene e male. E basta. Pasolini "corsaro" non scriveva solo contro il potere, ma anche contro e per coloro che, all'opposizione del potere, sono il "futuro" potere. "Guardiamo con uno spaventoso misto di ammirazione o odio/chi osa dire qualcosa di opposto/all'opposizione istituita? " Anche questa era una domanda difficile. Il corsaro non è forse all'opposizione dell'opposizione? E' uno status difficile. Perché non è uno status. E' un movimento continuo, permanente della critica. E' doloroso. Il dolore, inutile in sé, è utile se fa nascere "conoscenza". E non è l'"infelicità" delle troppe coscienze felici. Pasolini non parlava da "cittadino", ma da corsaro, era illegale, eslege, diverso, non cittadino, ma compagno (Forse, sintomo della dissociazione tra critica e classe, tra scienza e proletariato, tra proletariato e rivoluzione). Non chiedeva l'appartenenza: denunciava la perdita della cittadinanza. Non praticava la dicatio. Era, per buona parte, "maledetto". (Si, la continua "confusione" di arte e vita... Deve fare altro l'avanguardia? Se non criticare se stessa come avanguardia? ) Non era reazionario. Non era "giacobino". Il giacobino è legato alle categorie di Potere e di Partecipazione. Il marxista, a quelle di Oppressione e Emancipazione. 

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Pasolini, è diventato "di consumo". I suoi libri sono stati ristampati in edizioni popolari (l'industria culturale della sua morte: la popolarità del suo assassinio). Si è parlato della sua morte, o del suo "suicidio'; della sua volontà suicida. Ora, a pochi mesi, non si parla più neppure di Pasolini morto. Ma di un autore, di un 
"sonetto". Delitto omosessuale, crimine sociologico, delitto politico. (La verità sulla morte deve essere ancora conosciuta. Sapremo, non sapremo). Pasolini è diventato di consumo. Cioè, è consumato. Tutti gli intellettuali italiani gli erano "familiari", gli davano del tu... Nessuno, o quasi, lo ha aiutato. Perché non fosse "solo", teoreticamente e politicamente. Senza convenzioni, e convenienze. Si sa, ormai, le opposizioni radicali, critiche sono minoranze "cognitive" (come dicono i sociologi)- Se ne è parlato troppo, in quanto tutoiement generale,in questa chiacchiera universale_ Ora è un test per variazioni sulla omosessualità, o sulla pornografia, o sulla censura, Il suo ultimo film, "terribile per il potere", come dicono gli esperti, potrà beneficiare, commercialmente, dell'intervallo di proibizione temporanea. Ci si batte per Salon Kitty. Quanto Kitsch "fascista' e sul fascismo, editoriale, cinematografico, storiografico. 
Già si dice che è stato un vero "poeta", anche se datato; un ottimo regista (anzi: un "cineasta di successo"); un saggista acuto. E un uomo "buono", generoso, patetico, incoerente tra "idee" e "fatti". I suoi amici sono moltissimi. Tali, perché sono stati suoi amici. Non amici di lui. Crescerà, probabilmente, nel tempo, durerà; entrerà (già entra) nelle storie della letteratura, e nelle tesi di laurea. Con agio, per alcuni; con incertezza, per altri; con molto sospetto storico-critico per altri ancora, esegeti severi. ex-enragés. Per uno storico bravissimo é un esempio di "decadentismo neorealistico". Amici seri sussurrano che è, in fondo, da "poeta vero", un dannunziano. Che ha scritto alcuni versi perfetti, protetti dal tempo. Fin troppo difficile dire che ha sbagliato? E' troppo facile chiedere perdono, a volte, alla sua memoria? Si dimentica che è morto, perché è stato ammazzato. 
Qualcuno di noi, forse, sente oscuramente che è stato fatto tacere. Che è stato, anche lui, un "suicidé de la societé". 
Pasolini è diventato di consumo. Si è detto tutto, e nient'altro. 
Che è una vittima della società (o del "suo" mondo). Che era destinato, predestinato. Che si era preparata la morte, come in una "sua" sceneggiatura, (Funebre, macabra sceneggiatura che soddisfa la società dello spettacolo). Che è stato vittima del suo "corpo" , della sua "immaturità". (Si dimentica che alla fine aveva abiurato dall'"innocenza", presunta, del corpo). Lo si indizia come un caso, lo si evoca come tema di dibattiti e convegni su altro, fantasma benigno o maligno. Lo si esercita come pensumpresumo. E' presumibile che si faccia un film; come ora si fanno fumetti, album di fotografie, calendari di "vizi" (ormai ammessi), libri di edificazione, chiacchiere di scandalo lecito, vite romanzate e saggi-verità, bibliografie, filologia universitaria... 
Molti ne parlano esistenzialmente(acquietarela cattiva coscienza; cessare il "dialogo" con lui, per pietà e perdono. Perché continuare a chiamarlo "il povero Pasolini"?), prendendo le distanze dalle sue idee, e dalla sua vita. Oppure, identificando con il suo corpo il proprio corpo. Molti lo hanno discusso con "giusto" distacco; molti l'hanno celebrato sacrificalmente, e cioè misticamente. (C'è anche una mistica laica. E i "cristiani" sentono, da parte loro, sempre la "grazia" nella disgrazia, la redenzione nella corruzione. Mai, l'orrore. Sempre la redenzione, mai l'emancipazione. Sempre la "giustificazione", del peccato e della colpa. Mai, l'ingiustizia: il male "prodotto" dai rapporti sociali). Molti non parlano più; gli amici, si dice - per pudore. 
E' stato paradossale. Lo dicono coloro che sono nella doxa, non quelli che sono "vicini" alla verità, che la cercano nel "lato cattivo" della storia, nella contraddizione. Si è detto che Pasolini lascia un vuoto nella cultura (e nella società) italiana. Ma Pasolini viveva e scriveva in un "vuoto": lui stesso vuoto in quel "vuoto pieno di buchi" (come diceva Artaud), che è la vita nella società del capitale, l'atroce, mostruosa religione della vita quotidiana. ("Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi: come un malato: poi ricominciai a andare (è la vecchia storia)"! Il fatto è che Pasolini è stato ucciso. C'è come un'oscura, tormentosa "ragione" del Potere che fa tacere chi è contro, fuori, o meglio è indifeso al di dentro. Chi è, in vario modo, un sintomo che parla, o un segno che non-significa. Cioè, proprio chi è solo silenzio, o chi è solo parola. Senza armi; per il momento. Chi, come sua arma, non ha che il desiderio di non essere oppresso. 
O la parola del rifiuto, anche nel suo "linguaggio di schiavo". 
O la capacità, ancora, di scandalizzarsi. 

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Devo concludere. E non posso, e non devo, se non in prima persona. Cosi mi scriveva, in una delle sue ultime lettere, un mese prima di morire, Pier Paolo Pasolini: "L'idea di 'tradurre' in termini di economia politica, e di critica dell'economia politica, ciò che io dico giornalisticamente , mi sembra non solo bellissima, ma da attuarsi subito. Per ' 'Nuovi Argomenti" e perché non prima, con una certa semplificazione, com'è dovere di un 'traduttore', sul "Corriere"? E' questo che occorre, subito. Per me, per te, per tutti...".E cosi scriveva sul "Mondo" (n. 44, del 30 ottobre 1975): 
"Oggi pare che solo platonici intellettuali (aggiungo: marxisti), magari privi di informazioni, ma certamente privi di interessi e complicità, abbiano qualche probabilità di intuire il senso di ciò che sta veramente succedendo: naturalmente però a patto che tale loro intuire venga tradotto -letteralmente tradotto- da scienziati, anch'essi platonici, nei termini dell'unica scienza la cui realtà è oggettivamente certa come quella della Natura, cioè l'Economia politica". 
Sorrisi, tra me, di orgoglio, e di timore: tra quei "platonici intellettuali" c'era Pasolini, dunque; e tra quegli "scienziati anch'essi platonici" c'era, per lui, il       ci-devant. (Preparai l'articolo, solo a condizione che lui accettasse ciò che scrivevo "in traduzione", e che uscisse in quella sede in sua compagnia. Avevo da "ridire" su quel "platonismo" (no, non platonismo, risalire dai fatti alle "essenze"; ma il marxiano "a forza di astrazione"); e su quella scienza della natura (no, critica dell'economia politica, eccetera eccetera). Quell' articolo, che resterà inedito, lo scrissi (ne tremo ancora, si licet) nella notte del 1° novembre. E la mattina del 2 novembre, la notizia che la consuetudine lessicale chiama crudele"', e lo è. 
Gianni Scalia 



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Curatore, Bruno Esposito

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