Benvenuto/a nel mio blog

Benvenuto nel blog

Questo blog non ha alcuna finalità di "lucro".
Viene aggiornato di frequente e arricchito sempre di nuovi contenuti, anche se non in forma periodica.
Sono certo che navigando al suo interno potrai trovare ciò che cerchi.
Al momento sono presenti oltre 1400 post e molti altri ne verranno aggiunti.
Ti ringrazio per aver visitato il mio blog e di condividere con me la voglia di conoscere uno dei più grandi intellettuali del trascorso secolo.

Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

sabato 2 aprile 2022

Pier Paolo Pasolini, una discussione del ’64 - Cinema e letteratura nell'opera di Pier Paolo Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





Una discussione del ’64 

Cinema e letteratura nell'opera di Pier Paolo Pasolini

   Trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell'opera di Pier Paolo Pasolini, organizzato dal Circolo del Cinema ad Alessandria (21 novembre 1964), in Atti del Convegno Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo (Alessandria, 19-20 febbraio 1977), Amministrazione provinciale di Pavia - Comune di Alessandria, 1977.
Oggi in Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, a cura di Walter Siti

(Una nota redazionale informa che le domande poste dai partecipanti sono state sintetizzate; le risposte di Pasolini, riportate integralmente, senza raddrizzarne l'aspetto parlato.)


Pasolini -   Prima di tutto vi ringrazio per essere qui così numerosi - addirittura siete in piedi, e la cosa mi dispiace un po’ - e quello che temo soprattutto è di deludervi, perché... a ognuno il suo mestiere: il mestiere dell’oratore o del dicitore pubblico non è il mio, quindi c’è il rischio di una grave delusione, tant’è vero che non comincio nemmeno con quello che mi si chiede, cioè con una specie di introduzione, di conferenza, di relazione per introdurre il dibattito. Ferrero mi ha chiesto di fare una specie di piccola introduzione, ma non mi sento di farla appunto perché non sono un oratore e non mi piace affrontare il pubblico in questo modo: vorrei entrare addirittura nel vivo della serata passando, semplicemente, al dibattito. Vorrei, cioè, che questo nostro incontro fosse una specie di conferenza stampa in cui alcuni di voi mi chiedono delle cose e io rispondo con tutta semplicità, appunto senza nessun apparato di mestiere o di demagogia oratoria.


 Partecipante -  Signor Pasolini, lei, oltre che scrittore, è un comunista impegnato: il suo ultimo film, Il Vangelo secondo Matteo, è stato proiettato in privato, in una sede adattissima, il Vaticano, e secondo la stampa, che è stata in questo unanime, fra molti cardinali e vescovi. Ora io appunto chiedo: è una crisi di coscienza, la sua, che ha portato a questo film, o è semplicemente uno dei tanti film che si vanno programmando?


Pasolini - Vorrei precisare due cose. Lei ha detto che sono scrittore e anche comunista impegnato. No: sono uno scrittore impegnato: come comunista non lo sono moltissimo, lo sono come un comune simpatizzante, un compagno di strada del comunismo. Un’altra cosa inesatta che lei ha detto, probabilmente non per colpa sua, ma per una fonte d’informazione non corretta, è che il mio film sia stato proiettato finora in visione privata in Vaticano. No, per carità: in Vaticano non è stato proiettato, è stato proiettato in una sala pubblica di Roma dove adesso è in programmazione normale ed è stato visto non dai vescovi o dalla curia o da alcuni rappresentanti ufficiali del Vaticano, ma da un migliaio di vescovi che partecipano, credo, al concilio ecumenico e adombra appunto niente affatto l’aria di ufficialità, ma ha avuto anzi una certa aria di fronda, Stabilite queste cose per l’esattezza del discorso, vengo alla sua domanda che è molto impegnativa: anzi, è la domanda della serata, direi. Lei mi chiede di dire di una cosa molto privata come una crisi di coscienza: ora, parlare delle cose mie private mentre scrivo solo, a casa mia, mi è abbastanza facile, per quanto sia sempre difficile parlare di se stessi, della propria intimità; mi è mille volte più difficile parlarne qui. Quindi arriviamoci pian piano alla risposta, diciamo, essenziale, sostanziale: perciò vorrei rispondere a lei dando alcuni elementi esterni, che possono servire un poco da introduzione a ciò che mi ha chiesto prima: molto di più adesso, rispondendo a un individuo che mi ha fatto una domanda precisa.


   Non si tratta di un caso di coscienza nel senso comune che ha questa parola: molti si sono aspettati da me questo, alcuni con delusione, altri con speranza. A coloro che aspettavano con speranza, cioè ai preti e ai miei amici di Assisi, e a quelli che mi hanno aiutato nelle ricerche filologiche e storiche, rispondo che una caduta da cavallo, come loro speravano, una caduta da cavallo sulla via di Damasco non si è avuta, per il semplice fatto che io disarcionato da cavallo è da un bel pezzo ormai che lo sono, e trascinato, legato alla staffa, sbattendo la testa sulla polvere, sui sassi e sul fango della strada di Damasco! Quindi non è successo niente: non sono caduto perché ero già caduto e trascinato da questo cavallo, diciamo, della razionalità, della vita del mondo. Non si tratta di un caso di coscienza, dunque, particolare di questo momento specifico: è un unico caso di coscienza della mia vita.


   L’elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato, si può dire: è infatti sin dal 1942, l’anno in cui è uscito il mio primo libro di versi, che si chiamava Poesie a Casarsa ed è scritto in dialetto friulano, il dialetto materno di mia madre e dei paesani di mia madre. In questo primo libretto, ventidue anni fa, la poesia principale, che costituiva la spina dorsale del libro, si intitola La domenica uliva. In poche parole la situazione è questa: c’è un giovane, che ero naturalmente io trasportato un po’ così, fantasticamente, nei panni di un giovane contadino casarsese, nel sole della Pasqua; e una giovinetta che porta le frasche degli ulivi, e distribuisce le frasche degli ulivi, e che è l’incarnazione della madre morta di questo giovane. Fanno un dialogo tra di loro, e questo dialogo è molto vago, così, a un livello stilistico abbastanza elevato, diciamo così, perché il mio friulano non era un dialetto usato realisticamente: era un dialetto che era quasi l’estrema conseguenza dell’ermetismo, cioè una lingua per poesia. Alla fine di questo dialogo, questo giovane esclama: «Cristo mi chiama, MA SENZA LUCE». Questi due versi potrebbero essere un’epigrafe che potrei mettere anche oggi al mio Vangelo.


   Questo nel 1942, anzi prima, perché il libro è uscito nel ’42, ma questi versi sono di ancora prima, quando ero ragazzo. Questo elemento religioso e irrazionale mi ha seguito per tutta la vita, tanto è vero che un mio libro di versi si chiama L‘usignolo della Chiesa cattolica, ed è stato scritto durante la guerra e nell'immediato dopoguerra: è uscito soltanto qualche anno fa. Un altro mio libro si intitola addirittura La religione del mio tempo: e in questo libro si affrontano non più dal di dentro, ma un po’ dall’esterno, ossia ideologizzati, fatti razionali, questi elementi religiosi della mia psicologia e della mia cultura. E affronto frontalmente questo problema. La poesia che appunto dà il titolo al libro affronta il problema dei miei rapporti con la Chiesa cattolica. C’è un verso che dice: «Eppure Chiesa sono venuto a te», e mi riferivo appunto al periodo di quei primi miei versi friulani, al periodo della mia prima lettura del Vangelo quando ero ragazzo. E finisce polemicamente con la Chiesa: posizione che io tuttora ho, ho avuto almeno fino a ieri, fino a un minuto fa.


   Questo elemento religioso, irrazionale, ha trovato, secondo me, la sua concrezione più plastica, più urgente, più attuale, più immediata, più viva, nel mio film Accattone. E non soltanto per il contenuto di Accattone: forse vi risulterà che molti critici, sia comunisti che cattolici, hanno detto che Accattone è un film religioso. L’hanno detto in molti: i comunisti addirittura con un leggero senso critico, addirittura l’hanno chiamato «un film cattolico», per una ragione generale di contenuto. Infatti qual è il contenuto reale di Accattone? Il contenuto reale di Accattone, il contenuto elementare, letterale di Accattone, è la salvezza di un’anima. Al di là dei contenuti complicati che si intersecano tra di loro, si contaminano tra di loro: uno di denuncia sociale, che è quello più clamoroso, la denuncia della miseria del sottoproletariato delle borgate romane. L’altro che è una specie di reminiscenza laica e liberale in me, e cioè che un individuo è fondamentalmente libero dalla coercizione del proprio ambiente. Al di là di questi due elementi contrastanti che sono poi il tema delle mie poesie in generale, questa mia affermazione marxista di denuncia, questa mia sopravvivente formazione di tipo laico-liberale-crociano, decadente ecc. ecc., al di là di questo intrecciarsi e poi urtarsi di questi due elementi, che sono stati gli elementi intriganti del mio film, il contenuto letterale è la salvezza di un’anima.


   C’è un giovane delle borgate romane, un miserabile non per colpa sua, che fa lo sfruttatore di donne; ma attraverso l’amore di una delle donne che trova nella sua strada, cerca di redimersi come può, poveraccio, come il suo ambiente e la sua «filosofia», il suo modo di vedere il mondo, gli consentono. Cerca di non fare più questo mestiere vergognoso, cerca addirittura di andare a lavorare, non ci riesce e fa il ladro: è già un gradino, è già un passo verso la salvezza. E poco prima di morire, fa un sogno che è appunto la sua salvezza: sogna di scavalcare un muro che getta la sua ombra su una grande vallata illuminata dal sole e vede un vecchietto, un becchino che scava una buca, e capisce che è la buca per il suo cadavere, e chiede a questo becchino di scavare un po’ più in là, appena appena un po’ più in là del filo d’ombra, nel sole, nella luce: fa il segno della salvezza della propria anima.


   Basandosi su questo contenuto letterale del film, i critici sia cattolici che comunisti avranno perfettamente ragione nel dire che Accattone è un film fondamentalmente religioso e addirittura cattolico. Ora io direi: sì, va bene, certamente hanno ragione, ma secondo me il fatto che è spia, più profondamente, più sostanzialmente, della religiosità di Accattone, è un altro, più esteriore da una parte e molto più profondo dall’altra: ed è lo stile di Accattone, la tecnica, vorrei dire, di Accattone. Come forse molti di voi sanno, io sono arrivato al cinema in modo piuttosto irregolare: sono arrivato al cinema dalla letteratura, assolutamente privo di una preparazione tecnica. Addirittura, quando ho cominciato a girare il film, non sapevo che differenza ci fosse tra la parola «panoramica» e la parola «carrellata»: e il primo giorno che ho girato la prima scena del mio film, l’operatore mi dice: «Che obbiettivo mettiamo nella macchina?» e io non sapevo che cosa fossero questi obbiettivi. Dunque una totale impreparazione tecnica. E ho dovuto sostituire questa mia preparazione pratica della tecnica cinematografica, reinventandomi questa tecnica, inventandola dal vero. E istintivamente ho scelto un dato tipo di tecnica, che è appunto quella dove si vede, dove si legge, meglio che nei contenuti, che sono sempre, di fatto, un pochino esteriori, casuali, dove si legge questa sua intima religiosità, perché io concepivo la tecnica in maniera che vorrei dire, così, sacrale. Avevo un senso della sacralità tecnica dei movimenti della macchina, delle carrellate, delle panoramiche, del gusto della fotografia. Accattone io vorrei definirlo, a parte le riuscite, l’esito, un film romanico: un film visto frontalmente; quasi ieraticamente. Sentivo le mie carrellatelle, così, con la mia Arriflex, che era una mia povera macchina da presa, le mie carrellate sul Pigneto, sugli stracci, sul sole, sul fango, sulla polvere di Roma, che avevano un andamento di scoperta, di verginità, di solennità e di misura che, almeno nelle mie intenzioni, erano appunto sacrali. E in questa mia sacralità tecnica, dello stile e della tecnica di Accattone, direi che è il fatto così clamoroso di quella che lei chiama la mia crisi di coscienza. Cioè nella presenza continua in me di una crisi di coscienza che non è di un giorno e di un momento, di una stagione, ma che mi accompagna da tutta la vita: cioè il mio è un continuo stato di crisi. In questo senso il mio Vangelo non è altro che la manifestazione più clamorosa di questo mio stato di crisi, che ha avuto in questi ultimi anni, del resto, due testimonianze: una è appunto Il Vangelo ed è una concrezione clamorosa, appariscente, ben chiara e precisa; e l’altra è il mio ultimo libro di versi Poesia in forma di rosa che racconta il mio stato di crisi in maniera immediata, quasi diaristica. Ora lei mi chiederà: «Perché mai questa crisi che accompagna tutta la sua vita si è fatta sentire proprio adesso, nel 1964, in modo così violento, così pressante?». Beh, le dirò che questo è un fatto non soltanto mio personale ma è un po’ di tutta la società letteraria italiana, degli intellettuali. Io ho sentito quel momento della cultura italiana che si può chiamare appunto «crisi irrazionalistica»: glielo dico sempre molto schematicamente, poi semmai, rispondendo ad altra domanda, magari approfondirò: però, in poche parole, le cose stanno così. Durante tutto il Cinquanta si è lottato nella cultura italiana per una razionalizzazione e per una prevalenza, da parte di tutte le ideologie, sugli elementi irrazionali, mistici, estetizzanti, che avevano dominato la cultura italiana durante il fascismo e anche nell’immediato dopoguerra, all’inizio del neorealismo. Gli anni Cinquanta sono caratterizzati dunque da una forte carica di irrazionalità nelle lettere italiane: e debbo dire che ho partecipato molto attivamente a questo lavoro e a questa operazione razionalistico-ideologica della letteratura e della cultura italiana, soprattutto con una rivista specializzata proprio in questo e caratterizzata da questo che è stata la rivista «Officina».


   Con il finire degli anni Cinquanta, il benessere, il boom, la congiuntura, il cambiamento delle condizioni economiche e sociali in Italia, si è avuto un periodo che è stato chiamato della «desistenza», del disimpegno, dello sbiadirsi della carica iniziale di questa razionalizzazione che ha le sue radici nella Resistenza, dello sbiadirsi e dello stingersi di questa carica in vari tipi di involuzione, in vari tipi di crisi. Ne sono stato vittima anch’io perché sono un cittadino italiano che vive in questa storia, sono stato anch’io vittima, oggetto, o cavia di questo momento involutivo verso l’irrazionalità, verso certi elementi religiosi, irrazionali, mistici che sono stati tipici, tutti, della cultura italiana alla fine del decennio della razionalizzazione, del decennio degli anni Cinquanta. Ecco, in poche parole, quel che riguarda la mia «crisi di coscienza». Se lei vuole approfondire la domanda, ne faccia pure un’altra che sia il seguito della prima, se non è soddisfatto della risposta.


 Partecipante - Mi sono avvicinato a lei non questa sera ma da parecchio tempo attraverso i suoi libri e attraverso una corrispondenza molto interessante che lei ha sospeso, e oggi riprende dopo un anno, su «Vie Nuove». Dopo aver visto i suoi film, a cominciare da Accattone, vorrei chiederle se è possibile, secondo lei, stabilire un parallelismo tra poesia e politica, e in particolare una precisazione su che cosa lei intende per religiosità, perché mi sembra che questa parola possa essere travisata.


Pasolini -   Questa domanda è veramente ancora più imbarazzante e impegnativa della prima, se possibile. Credo di poter affermare che questo, che lei chiama «parallelismo», c’è indubbiamente, c’è anche al di fuori della nostra volontà: certo che non bisogna dare né alla parola «politica» né alla parola «poesia» un significato corrente, comune, conformistico, bisogna recepire questi due termini, queste nozioni, in modo, diciamo così, molto largo, ampio, filosofico, non pratico nel senso spicciolo. Quando lei dice «politica» e la lega alla poesia, spero non intenda una lotta politica pratica, una lotta politica spicciola, diciamo così, ma la dice nel senso greco della parola. In tal caso non è possibile che un’esperienza politica sia disgiunta da una esperienza poetica. Perché l'esperienza politica in un senso così grande, come le stavo dicendo, è l’esperienza di ogni cittadino, è l’esperienza, diciamo così, storica di un uomo. Un uomo vive in un momento storico preciso, in una condizione economica, sociale precisa e non può prescinderne nel profondo, e quindi, come in ogni altro uomo, la sua esperienza storica è quella che è, ed è quella che determina la sua azione di uomo, e anche un poeta non può non sottostare a questa legge, diciamo così, «naturale». Se lei poi, invece, mi parla di un collegamento tra politica e poesia nel senso pratico della parola, questo può avvenire in certi momenti, più o meno. È chiaro che durante la Resistenza c’è stato un legame fortissimo tra politica e poesia, cioè la poesia non era legata da legami profondi, quasi inconsci, con la situazione politica di uno scrittore, ma era addirittura il portavoce della sua politica. A un certo punto il poeta rinunciava in parte a essere poeta e voleva essere più politico nella sua lotta immediata, nella sua guerra ai tedeschi, nella sua guerra al fascismo, ecc. In altri momenti, il distacco è formalmente e superficialmente più grande, e appunto, riferendomi all’inizio degli anni Sessanta, in questo revival di forme irrazionalistiche, avanguardistiche ecc., sembra che la distanza sia più grande, e lo è in realtà, in un senso immediato e pratico. Nel profondo no, nel profondo è chiaro che, per ogni poeta, attraverso la lettura di una poesia, lei può sempre risalire alla situazione, alla posizione politica del poeta, sempre. È questa la dimostrazione pratica che è un legame imprescindibile: in base a un esame stilistico, prenda Spitzer: non so se lei conosce più o meno il metodo della critica stilistica; i critici stilistici erano di origine idealistica, quindi non hanno molto a che fare con me, in fondo, però il loro metodo è fondamentalmente giusto, secondo me. Col risalire, da un sintagma, da uno stilema, da un modo di dire «diverso», da una parola, da un aggettivo, si arriva alla situazione originaria del poeta. Ne sono convinto - farei una scommessa con chiunque: lei mi dia, senza mostrarmi il titolo di un libro, mi faccia leggere dei versi, e io, da un esame stilistico, dagli aggettivi, dal modo di scrivere di questo poeta, le so dire la sua posizione politica, non con assoluta precisione, però con un’approssimazione abbastanza notevole. Questo significa che il legame è imprescindibile. Non sono d’accordo sulla bontà di questo legame quando è un fatto puramente pratico; quando un poeta, al tempo del fascismo, faceva delle poesie fasciste, scriveva delle cose orrende, così come quando un comunista fa delle poesie per uno scopo pratico, per esaltare il suo partito, il suo regime, la sua ideologia: questo legame no, questo evidentemente, in linea di massima, mi pare un legame illecito; ma che nel profondo ci sia un legame tra politica e poesia, mi sembra un fatto addirittura pacifico.


 Partecipante -  Sono un cattolico che segue e ammira da anni quanto lei scrive e ritengo che esista una continuità molto profonda tra le sue prime poesie e Il Vangelo secondo Matteo, senza dimenticare La ricotta, che mi sembra una sintesi più esplicita di temi già affrontati precedentemente. Ora, ne La ricotta, lei mette in bocca al regista alcune frasi di cui vorrei chiarisse il significato, perché mi è parso esprimessero una posizione polemica nei confronti di tutta una certa cultura marxista (faccio ad esempio il nome di Asor Rosa) che aveva nei confronti della sua opera una posizione nettamente manichea, poiché lei non è né un marxista ortodosso né un cattolico ortodosso. Ma quando lei fa dire a Orson Welles, nel dialogo con il giornalista fascista, che siamo tutti nello stesso carrozzone, mi è sembrato che questo stonasse con l’impegno con il quale lei si è opposto sia a un certo settarismo di destra, cattolico, sia a un certo settarismo marxista. Quindi vorrei una delucidazione su questo, e vorrei anche, riferendomi al rapporto tra la sua opera poetica e la situazione della società italiana, chiederle quali saranno, se ci saranno, le linee secondo le quali sarà possibile, per la cultura italiana, arrivare a una posizione dialogica per cui le posizioni non restino se stesse, ma si venga definendo quella immagine dell’uomo che lei ha sempre cercato.


Pasolini -  La ringrazio molto per le sue parole, molto gentili, molto acute. Dunque mi pare che le sue domande siano, più o meno, tre: una richiesta di delucidazione sui miei programmi ideologici, mentre lavoravo a La ricotta; nella seconda domanda mi chiede in che senso la mia posizione politico-poetica si ponga nella società italiana, e nella terza una specie di ipotesi su quale dovrebbe essere la funzione della cultura per un effettivo miglioramento, per un progresso effettivo dell’uomo, più che nel senso del cittadino. Per quel che riguarda la prima domanda, vorrei innanzitutto dirle, in limine, che il regista Orson Welles, ne La ricotta, non rappresenta me stesso, e quindi le cose che lui dice le dice in proprio: probabilmente il regista è una specie di caricatura di me stesso, un me stesso andato al di là di certi limiti e caricaturizzato e visto come se io fossi diventato, per un certo processo di inaridimento interiore e di conseguente cinismo, un ex comunista. E allora si spiegano le sue risposte ironiche, ciniche, scettiche, che colpiscono il mondo su tutti i fronti, si può dire. Il contenuto reale di La ricotta non era la posizione di Welles rispetto al giornalista fascista, che è un elemento marginale del film, e quelle domande si spiegano solamente attraverso questa mia precisazione, cioè il regista è un me stesso andato al di là di certi limiti, un po’ caricaturizzato. Il reale contenuto di La ricotta era un altro; il reale contenuto del film è Stracci, è il sottoproletariato visto questa volta non più dentro se stesso, come se il resto del mondo non esistesse (cosa che mi è stata molto rimproverata, non capisco poi perché, per Accattone); cioè non è un mondo visto completamente dal di dentro, come appunto in Accattone in cui personaggi come Orson Welles non c’erano, non c’era un rappresentante borghese, un rapporto col resto del mondo attraverso una mediazione dell’autore o di un personaggio che rappresentasse l’autore. Accattone rappresenta un mondo a sé, isolato, una specie di campo di concentramento, di sacrario del sottoproletariato, come diceva Pio Baldelli, e così, in fondo, anche Una vita violenta o Ragazzi di vita. Ne La ricotta c'è questo personaggio che è un po’ la presenza dell’altro mondo, del mondo delle classi dominanti, della cultura in rapporto con il sottoproletariato, ed è un rapporto cinico ed estetizzante, nel migliore dei casi, che è rappresentato da questo regista, che è un uomo colto, estetizzante, cinico appunto.


   Per quel che riguarda la seconda domanda, è difficile rispondere: mi mette veramente in gravissimo imbarazzo perché dovrei essere estremamente sincero e, al tempo stesso, estremamente preciso, cosa che di fronte a un microfono e a molta gente è difficile, quindi me la caverò dandole una immagine, una definizione un pochino esteriore e marginale rispetto a quello che potrei dirle. Io credo che la caratteristica principale della mia posizione ideologica di cittadino e di scrittore sia quella di rappresentare con sincerità, con la sincerità che è chiesta dalla poesia (perché altrimenti la poesia non è poesia, e che cosa si mette a scrivere un poeta se non è sincero il più possibile?), una situazione che è tipica della maggior parte dei borghesi che non sono più tali ideologicamente. Un politico quasi sempre proviene dalla borghesia, Togliatti proveniva dalla piccola borghesia piemontese, e l’enorme maggioranza dei dirigenti socialisti e comunisti proviene da un ambiente, da un’educazione borghese. Ora, in loro, questo fatto gioca sino a un certo punto: a un certo punto abbandonano questa loro posizione dell’infanzia, della formazione, dell’ambiente sociale in cui sono vissuti, lo abbandonano e passano su altre posizioni. Quel passato rimane dentro di loro come elemento che può servire a un futuro critico, a un futuro storico, per spiegare meglio certe loro azioni ma non conta nella loro azione, nella loro passione ideologica, nella loro azione politica, conta soltanto nell’inconscio ma non in loro. Ma uno scrittore che compie lo stesso passaggio da una formazione, da un livello politico borghese a una ideologia antiborghese, evidentemente non può prescindere da questo fatto, non può dimenticarlo, non può sprofondarlo nell’inconscio, deve analizzarlo e soffrirlo sino in fondo. Praticamente io credo, e come me molti altri, nella mia posizione; credo che la nostra utilità (non parlo di una posizione come valore, come ideale, ecc. ecc., parlo proprio di utilità pratica) sia quella di rappresentare, un po’ come cavie, quello che succede nelle viscere, nel cuore, nella psicologia di un borghese che a un certo punto capisca l’ingiustizia dell’ideologia borghese e passi a un’altra ideologia, nella fattispecie l’ideologia marxista. E rappresentare questo conflitto nel suo farsi, non come una cosa fatta o che succeda nel profondo o al di fuori di lui, ma come una cosa che succede in lui come in una cavia; e rappresentare questo con la massima sincerità e senza nessuna paura di battersi contro i vari conformismi, come lei diceva, perché se questo mi costa disprezzo, e quindi lotta, da parte dei borghesi che mi considerano un traditore, mi costa però anche un grande sforzo di sincerità, di conflitto e di urto con i marxisti che mi rimproverano i miei residuati, le mie sopravvivenze borghesi. Questo comporta una situazione non comoda, ma credo che qui sia appunto la mia «utilità» di uomo di lettere, di cinema, di cultura insomma.


   L’ultima domanda che lei mi fa mi trova molto disarmato perché di fronte al futuro è difficile essere lucidi come di fronte alle cose che sono accadute e stanno accadendo. Per quello che riguarda il futuro, io credo non si possa che ribadire quello che ho detto per il presente, cioè continuare anche per il futuro sempre su questa strada, di una opposizione che sia inesorabile, che sia critica fino in fondo, che non desista mai un momento, che non consenta un momento di riposo, nessun compromesso al proprio rigore. Questa mi sembra, per uno scrittore, la strada da seguire. Naturalmente sono stato sommario perché questo dovrebbe essere un discorso molto più complesso, mi scusi se mi limito a darle soltanto questa notizia, questa cosa, in fondo, morale.


 Partecipante -   Mi scusi, ma visto che questa è la serata delle domande imbarazzanti, anch’io ne ho una che esprimo in poche parole. Lei ha parlato di elementi religiosi e irrazionali, questo mi ha fatto supporre che contrapponesse questi aspetti ad altre razionalità e proprio questo mi ha posto il problema di come lei pensa il rapporto tra questi aspetti. Perché ritengo che, se una persona sente e sostiene queste cose, non possa fare a meno di cercare di tradurle anche sul piano razionale. Insomma, le sente e quindi vuole tradurle in tutta la loro «obiettività». Ora, quello che ha detto ultimamente, cioè che lei, in un certo senso, si sente la cavia di una contraddizione, di una certa lacerazione tra una coscienza ancora borghese, diciamo così, è una scienza anche ideologica e razionale, ci consente di poter utilmente fare un confronto tra la dicotomia larvata, che si intravedeva tra le sue parole, e questo aspetto che mi pare possa essere utilmente approfondito. Anche perché, ripeto, non penso che ci si possa mantenere in una situazione in cui ciò che è razionalmente affermato non sia sentito e ciò che sia sentito sia battezzato irrazionale.


Pasolini -   Sì, effettivamente la risposta si basa tutta su questa sua ultima osservazione, il termine irrazionale è un termine di comodo: quando io parlo di elemento religioso come elemento fondamentalmente irrazionale, intendo riferirmi soprattutto alla elaborazione della religione data dalla cultura borghese della fine dell’Ottocento e del principio del Novecento, e cioè al decadentismo. Moravia, recensendo Il Vangelo secondo Matteo, ha detto benissimo una cosa che secondo me è giustissima, e cioè che i borghesi forse si meraviglieranno di questo film e resteranno stupiti e scandalizzati, e non troveranno il modo di agganciarlo alle mie opere precedenti, mentre Moravia sostiene, con la lucidità che caratterizza sempre questo scrittore, che invece sarebbe semplice perché, evidentemente, tra il mio marxismo e il mio decadentismo mancava la mediazione di un termine, che è appunto il cristianesimo. Quindi, quando io dico irrazionale, penso alla elaborazione irrazionalistica che ha dato dell’elemento religioso la borghesia. E infatti tutta la letteratura italiana precedente la guerra, l’ermetismo, il simbolismo italiano, il crepuscolarismo stesso, è tutta caratterizzata dalla presenza dell’irrazionale e dal fondo cattolico. Quindi quella specie di rivolta, di continuazione della Resistenza, che è stata la ricerca del razionale e dell’ideologico negli anni Cinquanta, è una rivolta che, partendo da un livello, da un piano letterario, di lotta contro il decadentismo, contro le forme decadentistiche e quindi irrazionalistiche in senso letterario, arrivava a colpire nel fondo l’ambiente che produceva queste forme letterarie, cioè l’ambiente cattolico nel senso di controriformistico, nel senso di clericale, che aveva prodotto in Italia, contemporaneamente, il fascismo a basso livello e ad alto livello queste forme di letteratura. Io usavo irrazionale proprio in questo senso; naturalmente poi una precisazione terminologica di questa parola, in senso culturale, è molto ampia. Se lei vuole insistere su questa domanda, insistiamo pure perché questo è un problema vivo della serata.


 Partecipante -  La mia non era, scusi l’insistenza, una questione terminologica perché nel suo discorso mi era sembrato di avvertire una volontà, d'altra parte giustificata, di parlare, diciamo così, «oggettivamente» e quindi di classificare, etichettare, certi atteggiamenti. Però lei mi risponde che diceva irrazionale per indicare certi aspetti ben precisi che non erano quelli della sua religiosità vera. Quindi, proprio per questo, la mia domanda insisteva sulla razionalizzabilità di questa religiosità che è la sua e non sulla irrazionalità di una religiosità già consumata, tant’è vero che lei la classifica e cerca di allontanarsi dall’immediato travaglio di questa valle di delirio, di bugie, di cui parlava.


Pasolini -   Non è vera una cosa che lei afferma, che la mia irrazionalità non fosse di quel tipo che ho delineato essere della cultura borghese, decadente, che mi precedeva. No, la mia irrazionalità era proprio e continua ad essere di quel tipo lì, appunto per le ragioni che dicevo prima: che un uomo, un cittadino, sia o non sia poeta, non può prescindere dalla propria formazione, dal proprio ambiente, dal proprio mondo sociale e politico, dalla propria storia. Quindi, in un certo qual modo, quando io parlavo di irrazionale per me, intendevo proprio riferirmi a questo tipo di irrazionalismo che ha caratterizzato la cultura su cui io mi sono formato; la razionalizzazione di questa cultura io ho potuto operarla non attraverso le mie forze (non essendo io un «addetto ai lavori», ma soprattutto uno scrittore, un poeta che fiancheggia il suo lavoro con dei conati di ideologia e di razionalizzazione più o meno riusciti, non essendo dunque il mio lavoro specifico questo), sono ricorso a una ideologia, l’ideologia marxista, e ho razionalizzato questo irrazionale attraverso il marxismo, cioè attraverso la visione marxista, attraverso lo storicismo marxista, ho razionalizzato questo tipo di irrazionalità. Questo è stato il mio tipo di razionalizzazione: c’è stato nella mia coscienza, è chiaro, dentro di me, nel mio profondo, nella costituzione psicologica mia, non è detto che questo non continui invece a lavorare, cioè la razionalizzazione è una forma terapeutica ma non garantisce la guarigione assoluta.


 Partecipante - Trovo che ci sia una divergenza tra marxismo e cattolicesimo, ma non tra comunismo e cattolicesimo, e potrei fare anche qualche esempio. Ma quello che voglio sapere riguarda la sincerità della sua espressione. Cioè, se la sua espressione artistica è cattolica irrazionalmente, allora questo significa che la sua convinzione personale non è più cattolica. Ecco, vorrei una spiegazione.


Pasolini -   Mi sembra che questo sia abbastanza chiaro fin dal principio, non c’erano dubbi sul fatto che io non sono cattolico ideologicamente, io non sono cattolico e non sono credente, quindi non vedo perché la mia razionalizzazione dell’irrazionale debba essere cattolica, la mia razionalizzazione è di tipo marxista. Certo che c’è una certa contraddizione, però, come ho già detto, non sempre una razionalizzazione guarisce completamente da certi elementi irrazionali, patologici.


 Partecipante -  Però chiamarli irrazionali e patologici pone una questione di coerenza: si direbbe, parlando un po’ volgarmente, che lei sente in un modo e pensa in un altro.


Pasolini -  Evidentemente mi sono spiegato in un modo un pochino contorto, sbagliato: vediamo allora di chiarire un po’ la cosa e cercherò di farlo in maniera elementare, in modo che non ci siano dubbi, cercando di evitare contorcimenti filosofici ché altrimenti non ci raccapezziamo più. Adesso faccio io una domanda a lei. Togliatti era indubbiamente un marxista, è stato il primo dei marxisti italiani per dei decenni, non c’è il minimo dubbio su questo, credo che me lo concederà. Un marxista, poi, ortodosso, che ha sempre teso all’ortodossia, perché la meta, il fine della sua vita era quello di portare avanti, il più avanti possibile, un grosso partito che aveva alle spalle, quindi non poteva aver dubbi, non c’erano grosse crisi da avere, perché se aveva delle crisi doveva risolverle immediatamente, perché il suo ideale era ben al di là di queste sue piccole crisi personali. Quindi, evidentemente, Togliatti è stato il tipico marxista ortodosso dei nostri decenni. Ora, lei può non sapere che nel fondo di Togliatti, nel suo atteggiamento umano e, in definitiva poi, anche in certe sue soluzioni politiche, anche tattiche, non c’è un fondo della sua formazione borghese? Potrebbe lei tagliare nettamente da Togliatti, che è il marxista per eccellenza, gli elementi della sua formazione e della sua «natura», che è in qualche modo borghese? Ora, in Togliatti questo non ha senso, non ha significato, non ha importanza, o l’avrà per gli storici futuri o per un approfondimento critico che noi vogliamo fare ma in sede totalmente astratta, ideologica, conoscitiva, questi elementi, che in Togliatti hanno un’importanza relativa, in me, che non sono un politico, che non ho fini politici immediati nella mia vita, che non ho fini strumentali ma ho un unico fine, quello della chiarezza verso me stesso e verso gli altri, questi elementi sono di una importanza assoluta, io devo continuare a esaminarli, non posso respingerli. Quindi il tema continuo del mio essere scrittore, del mio esprimermi non può prescindere dal tener presente questo elemento borghese. Il mio strumento linguistico è su un piano estremamente borghese. Se consideriamo infatti questo elemento che io non posso allontanare da me, se lo consideriamo soprattutto nel mio caso, e più generalmente nel caso di altri scrittori, poeti e registi, rileviamo la presenza di elementi irrazionali che sono tipici in assoluto della borghesia e della cultura del decadentismo borghese e vediamo che questi elementi sono preponderanti in senso assoluto. Tutti questi autori hanno, come fondamento comune, un assoluto distacco dell’individuo dalla società, uno sprofondamento nel proprio inconscio e quindi l’elemento caotico, oscuro, irrazionale che è dentro di loro. E sempre stato uno schema mio e quindi, quando parlavo di irrazionale della borghesia, volevo dire che nel fondo della borghesia europea c’è sempre il cattolicesimo controriformista, cioè il permanere in me di questo elemento irrazionale con cui devo continuamente fare i conti: non posso toglierlo da me, un politico lo può fare, ma un poeta, uno scrittore no perché la sua situazione è una situazione esistenziale e quindi è sempre di fronte agli elementi della sua esistenza, che sono concreti, dei mostri con cui deve lottare, non li può ignorare, non li può escludere. Ecco perché penso di non essere contraddittorio; difficile sì, difficile anche per me stesso. Ecco io non sono qui per darvi delle spiegazioni esaurienti, sono qui per parlare con voi, quindi non aspettatevi da me una spiegazione esauriente ma molto lacunosa, confusa, incerta, problematica perché io in questo momento non ho risolto niente, sto risolvendo ancora. E quindi, se c’è una certa contraddizione, lo so che c’è ma non lo è nel senso che mi è sempre stato obiettato, per il semplice fatto che io ho razionalizzato, attraverso l’ideologia marxista, questi elementi irrazionali: li ho razionalizzati, ho capito che cosa sono, ho capito che sono un prodotto della cultura borghese, so come si manifestano, so tutte queste cose, però non sono guarito, ci sono ancora in me, soffro ancora dei momenti di angoscia, ho dei momenti di terrore, di spavento, ho quei momenti di irrazionalità che sono indomabili, che non si possono domare con una cura cosciente, razionale e ideologica degli stessi. E quindi devo continuamente fare i conti con loro, poiché questi elementi irrazionali coincidono con degli elementi fondamentalmente religiosi; non mi sembra sia assurdo il fatto che io sia stato incantato dalla lettura del Vangelo secondo Matteo, e abbia voluto esprimere come mito - se volete approfondiamo questo fatto -, come mito nazional-popolare il Vangelo di san Matteo.


  Partecipante -  Mi sembra che il problema sollevato negli ultimi interventi dovrebbe avere un chiarimento se il discorso viene impostato sul suo ultimo film, che io purtroppo non ho ancora potuto vedere. Se lei è ideologicamente marxista, considera marxista anche il suo ultimo film ? Nel caso, invece, che lei non consideri quest'opera ideologicamente marxista, la ritiene puro prodotto della sua irrazionalità?


Pasolini -   Poiché qui il film non è stato ancora visto, dovrò limitarmi alle mie intenzioni senza che lei possa verificare i risultati. Le racconterò un po’ come mi è venuto in mente, mi è venuto in mente per puro caso, leggendo il Vangelo secondo Matteo ad Assisi, un giorno che ero stato invitato lì, da questi preti di Assisi, a dibattere il mio film Accattone. È importante che lei sappia come mi è venuto in mente di fare il film, stavo leggendo il Vangelo, e alla quinta o alla sesta pagina mi è venuto in mente: ma io qui devo fare un film: è bellissimo, è un film meraviglioso. Mi è nato così, come puro moto spontaneo, e profondamente irrazionale in tal senso, cioè ho obbedito a un impulso che in quel momento lì era assolutamente oscuro, era una forma di esaltazione, era quella che Berenson chiama l’«aumento di vitalità» che dà la lettura di un grande testo, la visione di un grande quadro. Questo aumento di vitalità si è espresso in me nell’idea di farne un film, la cosa è nata quindi molto irrazionalmente, poi ci ho ripensato naturalmente prima di proporlo al produttore e di proporlo a me stesso e ho capito molte cose: quello che soprattutto mi piaceva nel film era la figura di Cristo perché tutto il Vangelo di Matteo è bello, piace più degli altri e l’avrei comunque scelto rispetto a quelli di Luca e di Giovanni perché mi piace di più, per delle ragioni che magari le dirò dopo, ma quello che mi ha colpito è l’implacabilità, l’assoluto rigore, la mancanza di qualsiasi concessione, l’essere sempre presente a se stesso in maniera ossessiva, ossessionante, con un rigore addirittura folle, che ha la figura di Cristo nel Vangelo secondo Matteo. Cioè, la chiave di questo film è la frase di Cristo: «Non sono venuto a portare la pace ma la spada». Ecco lei pensi che la chiave in cui io ho fatto il film è questa, è questo che mi ha spinto a farlo. Ora, lei evidentemente mi pone una domanda alla quale io dovrei rispondere con un sì o con un no, perché, tra l’altro, proprio nel Vangelo secondo Matteo c’è la famosa frase di Cristo: «dite sì se è sì, no se è no, tutto il resto viene dal Maligno». Ora, evidentemente, il Maligno parla molto dentro di me, mi viene molto dal Maligno, ed è la contraddizione, è l’ambiguità, cioè il Maligno è diffuso tra di noi perché non possiamo, in realtà, dire sì o no perché siamo tra il sì e il no, siamo storicamente tra il sì e il no, siamo metà qui e metà là e quindi in noi c’è il Maligno che parla. E vorrei poterle dire: sì, è un’opera marxista, ma non glielo posso dire. Io credo che nella mia coscienza di autore lo è, e insisto ancora perché, leggendo il Vangelo secondo Matteo, lo leggevo da marxista, come lo dovevo leggere? Cioè i farisei li vedevo come classe dirigente del tempo, la predicazione di Cristo l’ho vista come una rivoluzione fatta con i metodi che poteva impiegare un rivoluzionario allora, cioè dicendo (anziché prendere il mitra come facevano i partigiani): porgi l’altra guancia. E infatti è finito sulla croce. Quindi la mia lettura del Vangelo non poteva che essere la lettura di un marxista ma contemporaneamente - ecco perché qui non posso dire né sì né no -, contemporaneamente serpeggiava in me questo fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo. Tutto il Vangelo è dominato da questo senso di qualcos’altro, che io come marxista non le posso spiegare e nemmeno lei può spiegare. E che il marxismo non può spiegare. Fino a un certo limite della coscienza, anzi, dentro tutta la mia coscienza è un’opera marxista: e infatti, per darle qualche piccolo esempio, io non potevo girare delle scene senza che in queste scene ci fosse un momento di sincerità, almeno come attualità. E così i soldati di Erode come potevo farli? Potevo farli con dei baffoni, con i denti digrignanti, vestiti con degli stracci, come i cori dell’opera? No, non li potevo fare così, li ho vestiti un po’ da fascisti e li ho immaginati come delle squadracce fasciste o come i fascisti che uccidevano i bambini slavi buttandoli per aria. La fuga di Giuseppe e di Maria verso l’Egitto come l’ho pensata? L’ho pensata ricordandomi certe fughe, certi sfollamenti di profughi spagnoli attraverso i Pirenei. Cioè, avevo assolutamente bisogno di un momento di attualità, che poi magari nel film non salta nemmeno fuori perché non tutti se ne accorgono, ma io nel girarlo avevo bisogno di questo. Ora, le ripeto, nella coscienza, nel fare il film, l’ho fatto come lo può fare un marxista, con in più questo alone - che cercavo sempre di evitare perché io mi dichiaro e sono non credente -, questo alone metafisico, questo senso della morte, questo senso dell’assoluto che è appunto quell’elemento irrazionale che andrebbe ben precisato, lo so bene, ma che è difficile precisare e che dà al film qualcosa di più di quello che è e che potrebbe essere un’opera marxista, non in senso qualitativo ma in senso proprio storico, in senso elementare.


 Partecipante -   Attraverso le sue risposte, devo constatare che noi marxisti, noi comunisti, dobbiamo vedere un Pasolini diverso oggi da quello di dieci anni fa. D’ora in poi dovremo abituarci a un Pasolini molto, molto diverso...


Pasolini -   Ebbene, è la realtà: noi siamo sempre diversi. Dopo aver parlato con voi, stasera, quando me ne andrò verso Milano, sarò un pochino diverso da quello che ero prima di venire qui. È terrorizzante il fatto che uno debba cercare delle figure immobili. Io sono in continua evoluzione, e nessun pudore, nessun senso di malinteso realismo mi fermerà in questo: data la fondamentale, ormai, mia ideologia marxista che non potrà mai cambiare e dati gli elementi basilari della mia lotta. Quindi ci sarà effettivamente un’evoluzione, una contraddizione continua, come ho detto prima: il sì e il no. Con delle involuzioni, certo: non c’è evoluzione che non richieda anche dei momenti involutivi, è soltanto un’evoluzione astratta e utopistica quella che vede gli uomini in marcia, che fanno un passo dopo l’altro e vanno avanti; non è affatto vero, tutta la storia ha dimostrato che ogni volta che si sono dovuti fare dei passi avanti, a volte si son fatti dei passi indietro per andare ancora avanti, e così avviene anche negli individui. Io lo dico molto semplicisticamente ma, insomma, le cose stanno così.


 Partecipante -   In tutta la sua produzione s’intrecciano una speranza terrena, il grido della rivolta e della rivoluzione, e una speranza, non necessariamente irrazionale e controriformistica, che va oltre il limite della speranza terrena: cioè un momento escatologico. Non vedo contrasto fra la tendenza a razionalizzare e l’accorgersi di continuo che la vita ha sempre qualcosa che non si può schematizzare, racchiudere in un sistema compiuto: così, se quando si parla di filosofia si dice proprio che essa rappresenta il rifiuto del sistema compiuto, e c’è invece chi vede il marxismo come sistema compiuto, questa non è razionalità. Direi che questa è paura di vedere le spinte che vanno oltre, che obbligano a un ripensamento, a una rimessa in questione. Questo intreccio di una speranza terrena e di una speranza che la trascende, e che io avverto operante nella sua opera, per me non è una contraddizione.


Pasolini -   Beh, io posso accettare il suo intervento come schema, non lo posso accettare in certe sue affermazioni. Per esempio, posso accettare il fatto che lei dica che al di là del marxismo, al di là del sistema compiuto marxista, ci sono degli elementi che il marxismo non può spiegare, che non accoglie, non accetta ecc. ecc. Soltanto, mi rifiuto di pensare che questo elemento sia la speranza nell’aldilà. Lei ha cercato di introdurre con molta cautela, con molta buona educazione, questo aldilà, e io vorrei accettarlo, vorrei farla felice, dirle sì, però questo non lo posso fare.


 Partecipante -   Ma l’uomo Cristo che lei ritiene interessante, in questo senso non è l’uomo che risolve i problemi, ma è una proiezione di una serie di istanze dell’uomo...


Pasolini -   ... sì, sì, in un certo senso io posso accettare la sua obiezione, ed è giusta, effettivamente succede questo, che è vero che in me questo elemento irrazionale, che lei dice, non si configura come speranza nell’aldilà, ma come angoscia e terrore, cioè come incertezza, ma non come speranza nell’aldilà. In un cattolico, questo irrazionale, poi, si riassume in un fatto preciso e dogmatico che è la speranza nell’aldilà, che in me, però, ancora non c’è e non vedo neanche come possa mai esserci. Però è chiaro che effettivamente sono mutate molte cose in questi ultimi anni, in questi ultimi decenni, nel mondo, mutate in modo tale per cui il marxismo deve appunto fare uno sforzo poderoso e angoscioso per mettersi al pari con questi mutamenti. Ecco, non so se avrei potuto concepire Il Vangelo, in maniera così persuasiva di fronte a me stesso, fino a farlo, se non ci fosse stato, per esempio, Papa Giovanni; se non ci fosse una data situazione nel mondo, che renda possibile l’apparizione di un Papa come Giovanni XXIII. Per tornare al marxismo, il marxismo come sistema filosofico - almeno come risulta a me che non sono filosofo, e non seguo studi specifici di filosofia, non sono competente fino al punto di poterli seguire - non mi risulta che abbia mutato la sua base filosofica, che è ancora quella del positivismo dell’Ottocento. Ecco, non credo che sia intervenuto con molta chiarezza a evolvere il positivismo e l’illuminismo, che sono il fondo della filosofia atea del marxismo, che è un pochino fermo, un pochino retrodatato e ritardatario: la scienza stessa ha superato certe posizioni scientifiche del positivismo e dell’illuminismo, quindi, evidentemente, un certo assestamento filosofico urge al marxismo stesso.


  Partecipante -  Il fatto che Sartre, oggi, in Italia, possa parlare ufficialmente, in un dibattito, con i marxisti italiani sulla morale, cosa che certamente in una visione positivistica del marxismo, ancora dieci anni fa, non sarebbe stata concepibile, è segno di un fermento che è in atto da tempo...


Pasolini -   Sì, è il segno di un grandissimo fermento, d’altra parte anche i rapporti tra comunismo ed esistenzialismo di dieci anni fa sono un po’ la stessa cosa, insomma: l’apertura del marxismo verso certe forme esistenziali e quindi, in fondo, irrazionali e così nuove che la sua filosofia non aveva ancora affrontato. Evidentemente questo è successo perché i marxisti hanno avuto sempre degli obiettivi immediati - la Rivoluzione russa, la Spagna, la Resistenza, la guerra contro il fascismo -, cioè degli obiettivi immediati che hanno forse un pochino rallentato, cioè no, che rendevano lecita fino a quel punto la loro filosofia. Era giusto: finché i preti erano con Franco, o con gli zar o benedivano i moschetti di Mussolini, era chiaro che la filosofia dei marxisti doveva essere quella che era. Ma a questo punto il mondo sta cambiando, sta seguendo delle strade che in parte sono al di là del limite previsto, non so, mettiamo da Lenin. Lenin - che ha fatto delle previsioni meravigliose nei suoi scritti: ha preveduto molto al di là della sua vita - a un certo punto dice che la Cina avrebbe finito col diventare una colonia della Gran Bretagna, e invece abbiamo visto la Cina diventare ben altro che una colonia della Gran Bretagna. Quindi ci sono certe situazioni oggettive nel mondo per cui, se certi valori si stanno spostando e certe situazioni si vanno evolvendo, è chiaro che il marxismo deve evolvere certe posizioni filosofiche. Non c’è dubbio.


 Partecipante -   Vorrei intervenire in questo dibattito sui rapporti tra marxismo e filosofia per ricordare che, se è vero che nel marxismo esistono delle componenti illuministiche e positivistiche, è altrettanto vero che il marxismo migliore, soprattutto attraverso Gramsci, si è sempre battuto contro il positivismo e contro il «marxismo volgare». Non mi pare poi che si possa parlare di una filosofia marxista in senso stretto: ad esempio, nell’ambito dell’estetica, Lukács e Della Volpe non sono affatto d’accordo nel definire certi concetti. Si potrebbe forse dire che, allo stato attuale, il marxismo non si può considerare una filosofia, ma una cultura. Allo stesso modo non penso che si possa definire il cristianesimo come una filosofia: marxismo e cristianesimo non sono affatto dei sistemi e coloro che tendono a sistematizzarli sbagliano.


Pasolini -   Siamo perfettamente d’accordo su quello che lei dice, e cioè che il marxismo non deve essere inteso come un sistema fisso, come modo di conoscenza del mondo fisso, e tutto il mio discorso fatto finora verte proprio su questo: nel polemizzare contro il marxismo volgare che cerca di fare del modo di conoscenza marxista della realtà un modo di conoscenza conformistico e fisso. È chiaro che sono d’accordo su questo. Quanto alla filosofia, spero che le basti questa precisazione: quando dicevo filosofia, non intendevo affatto riferirmi alla filosofia nei suoi vari aspetti di estetica, morale, ecc. ecc. Siccome il discorso era un discorso teologico, intendevo riferirmi a quella parte del marxismo che si occupa dei problemi metafisici, teologici. Per quel che riguarda la convinzione teologica dei marxisti, e cioè l’ateismo marxista, secondo me ha delle origini pratiche perché questa sistemazione filosofica del marxismo ancora non si ha: lei ha ragione. Però se lei lo ricerca nei marxisti, qui e fuori di qui, l’ateismo marxista è quasi sempre, in pratica, storicamente, di ascendenza positivistico-illuministica. È chiaro che la filosofia marxista nel senso che dicevo, di cultura marxista spirituale come diceva lei, non è di quella ascendenza lì, questo è un fatto elementarissimo, è stato bene che lei lo abbia ricordato, le sono grato ma forse su questo eravamo già tutti d’accordo. Insomma, come filosofia intendevo quella branca filosofica che si occupa di problemi metafisici, cioè un tipo di marxismo che è appunto legato secondo me, insisto a dirlo, ad elementi umani e culturali di ascendenza positivistica e illuministica. Ecco, semplicemente questo volevo dire, non so se è soddisfatto... comunque può farmi altre obiezioni...


 Partecipante -  Non rimango soddisfatto dell’eccessiva identificazione, anche su questo piano, del positivismo con il marxismo. Dire illuminismo è già un’altra cosa. Ora, nel marxismo è presente un elemento di rottura, una aggressività che mancavano ai positivisti i quali, poi, finivano nella accettazione di una determinata religione, foss’anche la religione dell’umanità e del cosmo... Il che significa che il loro tentativo di razionalizzazione aveva nella cuffia proprio una rottura...


Pasolini -   È quello che sto dicendo e facendo con i film e con le opere, è proprio questo, cioè l’affermare una religiosità del marxismo: ma adesso lei non deve confondere le carte in tavola. Quando io ho sempre parlato di una religiosità del marxismo, di una fondamentale religiosità del marxismo - siamo d’accordo: Gramsci cos’è stato? È stato un grandissimo (come uomo, dico, non come pensatore ma in parte anche come pensatore) spirito religioso nel senso grande della parola, nel senso ultimo che lei diceva - io parlavo semplicemente di mero rapporto del marxismo con il cattolicesimo e con la metafisica cattolica, che è generalmente una posizione atea, cioè una posizione polemica rispetto ai preti, al clero che si schierava con le reazioni, evidentemente, e quindi un ateo della fine dell’Ottocento, dei primi del Novecento vorrei sapere dove altrove prendeva le proprie ispirazioni filosofiche sulla creazione del mondo se non nel positivismo...


 Partecipante -   Ma Marx veniva prima...


Pasolini -   Sì, l’ho capito, ma... Comunque, di fronte a un professore di filosofia mi arrendo... Mi faccia le altre due obiezioni: cercherò di risponderle.


 Partecipante -  La prima: lei ha posto una dialettica nella letteratura italiana, specialmente in quella del Novecento, fra razionalismo e misticismo, inteso indubbiamente in un’accezione religiosa. Non solo: ma poi ha identificato il misticismo col cattolicesimo...


 Pasolini -  ... non ho mai fatto questo...


 Partecipante -   ... mi scusi: mi pareva che quando lei ha parlato degli ermetici, o addirittura dei crepuscolari, abbia parlato di una cultura di fondo di carattere cattolico...


Pasolini -   ... questo sì...

 

Partecipante -  Benissimo: non solo ha parlato di un legame con il decadentismo, ma di un nesso fra decadentismo e cattolicesimo. Vorrei far notare come indubbiamente nel decadentismo europeo, e poi anche in quello italiano, non si possa tanto scorgere la componente cattolica, quanto una fortissima componente che arriva dal mondo protestante. Non si può capire il decadentismo europeo, e in parte anche italiano, senza tener presente Kierkegaard che, fino a prova contraria, cattolico non era: e la maggior parte degli scrittori validi della nostra cultura in direzione religiosa - se noi ne possiamo trovare qualcuno nel Novecento - direi che, più che legarsi a una posizione cattolica, sono più che altro da vedere come stimolati da un decadentismo europeo che ha delle fondamenta in Kierkegaard, in Rilke, in Franz Kafka e via dicendo. Il nostro misticismo, la nostra religiosità, è estremamente limitata, e mi pare che lei non abbia trattato di questo. Allora veniamo anche al problema di una certa coerenza del letterato italiano. Anziché di una tensione fra religiosità e razionalità parlerei di una tensione fra formalismo e razionalità nella letteratura del Novecento: perché anche molti uomini che sembravano essere aperti a una vita spirituale intensa, come i vari d'Annunzio, Papini, poi alla fin fine si sono trovati ad essere semplicemente dei formidabili maestri delle forme, dei Monti trasportati in un nuovo ambito letterario. Quando si parla di coerenza degli intellettuali italiani, bisogna sempre tenere presente che questa loro tendenza a trasformarsi può essere anche una tendenza a trasformarsi perché hanno una posizione estetizzante che li porta a passare da posizioni estremamente serie e impegnate ad altre più facili, più spettacolari, più evasive. Naturalmente non è che io accusi lei di estetismo, ma quando ho sentito parlare di una necessità di essere sempre diversi, ricordiamoci che ci sono almeno due modi di essere diversi. C’è il modo di esserlo secondo coerenza e cioè svolgendosi, e c’è il modo di esserlo «saltando». Ora, il modo di esser diversi «saltando», nella nostra tradizione letteraria e culturale è sempre stato un modo di essere che ha portato all’estetismo, uno dei mali forse più forti della nostra cultura dall’Ottocento al Novecento...


 

Pasolini -  Beh, senta, il suo discorso sarebbe brillante e vero se fosse vero che estetismo e formalismo non fossero irrazionali. Ha basato tutto il suo discorso sulla mia sbagliata identificazione... Lei ha detto: «Lei ha posto la situazione italiana del Novecento e attuale come una specie di dicotomia tra razionalismo e irrazionalismo» e lei invece mi ha detto: «No, direi che si tratta di una dicotomia tra razionalismo e formalismo ed estetismo» e io le dico che formalismo ed estetismo sono fatti profondamente irrazionali. E ribadisco che questo irrazionalismo è un prodotto della cultura decadente europea, cioè un elemento della cultura decadente europea e il fondamento della cultura è la religiosità: protestante nei paesi protestanti (ma io mi riferivo all’Italia, alla patria del decadentismo che è la Francia e alla Spagna, nella fattispecie paesi cattolici). Quindi non credo di esser caduto in nessuna contraddizione: quanto meno, ho fatto qualche «salto», evidentemente; d’altra parte non trovo affatto vero quello che lei dice, che nella tradizione italiana i salti hanno sempre portato a posizioni estetizzanti. Non è affatto vero: magari i letterati italiani avessero fatto più salti, ma vanno sempre coi piedi di piombo, piano piano, col loro doppiopetto borghese, tranquilli, in pace con la società e con se stessi: questo è il letterato italiano tradizionale. Magari avesse fatto qualche salto in più. Non vedo poi per quale ragione un salto porta a posizioni evasive, irrazionali: perché? Questa è una definizione, un apriorismo che lei dà: è un dato di fatto che io non accetto. Ora, andare avanti a salti può essere un po’ scomodo, e può portare sia da una parte che dall’altra. Io credo che mi porti nella strada giusta, cioè nella strada che io ho seguito fin dal principio...


   Partecipante -  ... non mi riferivo a lei...


Pasolini -   ... no lei si riferiva a me, lei è chiaro che si riferiva a me, ma non importa...


 Partecipante -   Lei prima aveva parlato del film Accattone. Aveva detto che l’aspetto artistico consisteva nella tecnica con cui l’aveva girato. Potrebbe parlarci un po’ di cosa intende per questa tecnica, e anche spiegare i motivi per cui lei a un certo punto ha deciso di passare al cinema?


Pasolini -   Ho oscillato un pochino, prima, quando ho parlato della sacralità tecnica di Accattone, allora, per spiegarmi meglio, le racconterò il passaggio e il momento di crisi tra Accattone e Il Vangelo secondo Matteo. Ho già detto che ero arrivato al cinema digiuno di tecnica, che ho dovuto scoprirmi tutti gli elementi propri non soltanto dello stile cinematografico, ma della tecnica cinematografica, perciò ho dovuto scoprire che ci sono gli obbiettivi grandi, gli obbiettivi piccoli che ottengono diversi effetti fotografici; ci sono diversi tipi di luce e di controluce, che ottiene certi effetti cinematografici mentre la luce piatta ne ottiene degli altri; ho dovuto imparare tutti i movimenti di macchina, tutti i possibili movimenti di macchina e li imparavo inventandoli di volta in volta. E inventavo attraverso una certa semplificazione: è chiaro che io, non conoscendo gli strumenti tecnici, non potevo gettarmi a fare delle complicazioni, delle raffinatezze e delle complicazioni tecniche. Il mio primo, istintivo approccio con la tecnica cinematografica è stato quello di semplificarla: questa semplificazione ha portato con sé una scoperta estetica, cioè la scoperta estetica della semplicità ieratica ferma fissa sacrale delle immagini. Accattone è fatto quasi tutto di primi piani frontali. Lo sa che non riuscivo a fare un primo piano in cui la faccia, l’immagine, il testone del fotografato non fosse esattamente al centro del fotogramma? Se, andando in proiezione a vedere il materiale, vedevo che l’operatore si era un pochino sbagliato, impazzivo dal dispiacere perché avevo bisogno di questa frontalità, di questa simmetria tecnica; e così anche le carrellate avevano sempre una corrispondenza simmetrica: ad una carrellata corrispondeva un’altra, c’era sempre un ritmo in cui predominava una semplicità quasi, appunto, semplice e ieratica. Per spiegarle meglio questo fatto che forse, detto così, può sembrare un po’ oscuro per uno che non conosce gli obbiettivi o la macchina da presa, le dirò che quando ho cominciato a girare Il Vangelo credevo di avere la formula in tasca per girarlo: pensavo, istintivamente, al mio modo di girare, a questa forma di sacralità tecnica. Perché mi piace per un fatto istintivo, per un mio antico amore, per Masaccio mettiamo, un dato tipo di immagine cinematografica; e quindi, dicevo, ho in tasca il modo per fare Il Vangelo. Ho cominciato a girare a quel modo lì e ho fatto delle cose orrende, orribili, insopportabili. Ero andato in proiezione dopo i primi due o tre giorni che giravo Il Vangelo e sono stato sul punto di piantarla, di arrendermi, perché facevo delle cose bruttissime. Ed è chiaro il perché, perché eseguire Il Vangelo attraverso una tecnica sacra, ieratica, religiosa era far piovere sul bagnato, mi venivano fuori delle immagini tradizionali: un Cristo ieratico non era un Cristo; una panoramica - che avesse qualcosa di solenne, di maestoso, di sacrale - su degli Apostoli che ascoltano Cristo perdeva significato, mentre poteva avere valore una panoramica sulle facce di giovinottastri romani che stavano lì, ad ascoltare neghittosamente Accattone che parla. E allora ho dovuto rivoluzionare la mia tecnica; in pochi giorni, in poche notti di insonnia ho dovuto rivoluzionare tutto il mio modo di vedere tecnicamente e stilisticamente il film, e sono quindi passato ad una tecnica completamente diversa, al così detto magma - non c'è altra parola che saprei dirvi. Cioè, anziché servirmi sempre degli stessi obbiettivi, anziché usare come obbiettivo dominante la simmetria nelle inquadrature, anziché usare delle piccole carrellate precise, dei movimenti panoramici, ecc. ecc., come avevo fatto in Accattone, ho rovesciato tutto, ho usato gli obbiettivi più strani, ho messo insieme dei primi piani uno ripreso col 25 e uno ripreso col 100, ho usato lo zoom sull’intero obbiettivo come si fa per le corse ciclistiche, me ne sono servito per rappresentare gli Apostoli che vanno dietro a Cristo. Cioè ho usato tecnicamente una tecnica assolutamente caotica in un momento di ira, tanto è vero che sono giunto a fare i due processi di Cristo, quello di Pilato e quello di Caifa, addirittura con la tecnica del cinéma-vérité; con la macchina da presa in mano ho visto delle teste che stavano guardando lontano il processo, come se non potessero andare vicino al processo. C’è una mescolanza di tecniche, un magma di tecniche, che ha contraddetto completamente il tecnicismo sacrale di Accattone e spero, con questa mia drammatica confessione, di avere chiarito quale era la mia posizione tecnica in Accattone.


 Partecipante -  Tornando ai discorsi di prima, mi sembra che lei abbia paura di scoprirsi troppo, nel senso di non voler affrontare e approfondire certi aspetti mistici che vanno al di là delle possibilità di razionalizzazione insite nel marxismo.


Pasolini -   Ho capito, ho capito, lei pensa, con animo di cattolica intelligente, avanzata, di proporre i suoi temi; evidentemente lei ha colpito un po’ nel segno, ma io prima, però, avevo abbastanza onestamente, per quanto così un po’ velocemente, accennato a questo fatto, quando ho risposto alla domanda di un giovane che mi chiedeva se Il Vangelo fosse un’opera completamente marxista e gli ho detto: sì, sì ma fino ad un certo punto, poi no. Ho sentito questo alone di sacralità, di mistero, di divinità, che aleggia in tutto il testo di Matteo. Con questo mi pare di aver risposto alla sua domanda, io non posso dirle che questo: tutta la mia educazione, la mia vita pratica, la mia ideologia mi impedisce di andare al di là di questo o per lo meno ci andrò piano piano... Comunque esiste un fatto mistico, di misticismo, anche al di là della borghesia: c’è indubbiamente, anche presso i popoli primitivi e presso i popoli preistorici, questo elemento di misticismo, questo affacciarsi terrorizzato verso la speranza nell’aldilà, c’è in tutti i livelli, in tutte le fasi storiche, evidentemente è un fatto oggettivo dell’umanità. E non è che io me lo nasconda o abbia paura di ammetterlo, soltanto mi interessa fin che rimane inespresso, fin che rimane allo stato alonale e embrionale. Non ho la forza, non ho l’interesse reale di approfondirlo.


 Partecipante -  In tema di tecnica del film, vorrei farle un’altra domanda: ho letto che lei si è ispirato a Piero della Francesca per quanto riguarda un certo stile, però mi era parso che per la figura di Cristo si fosse invece ispirato a una certa cultura spagnola, che ha dei caratteri non rinascimentali, ma quasi medievali. Vorrei sapere come queste scelte pittoriche e certi richiami letterari si sono intrecciati e quali sono state le componenti e le ragioni anche che l’hanno indotta a compierle.


Pasolini -   Fin quando ho fatto La ricotta, uno degli elementi, che poi mi sono costati un processo per vilipendio alla religione, è la ricostruzione di alcuni quadri fatti da Orson Welles, dal regista di La ricotta, alcuni quadri del Rosso Fiorentino e del Pontormo. Erano ricostruzioni esatte di quei quadri coi loro colori, con le loro posizioni, ecc. ecc. Ora, generalmente si è detto, per difendermi in maniera un po’ approssimativa nel processo, che io ho voluto in questo film rappresentare in maniera indignata il cinismo, l’indifferenza con cui si sfruttava commercialmente, attraverso i film biblici, il tema religioso. Invece questo mi interessava, effettivamente, fino ad un certo punto: va bene, lo possiamo dire perché questo serviva alla difesa, e in parte c’era anche questo, ma in realtà quelle ricostruzioni di quadri del Pontormo e di Rosso Fiorentino non erano in polemica contro le rozze, banali ricostruzioni che si fanno generalmente nei film biblici. Non era questo l’oggetto della mia polemica, ma era quello che io non avrei mai dovuto fare nel Vangelo che mi era venuto in mente prima di La ricotta. Cioè, Orson Welles, da regista cinico, inaridito sentimentalmente, andato al di là delle sue antiche convinzioni, diventato un cinico, era anche un estetizzante - cinismo ed estetismo per un intellettuale sono due parole quasi sinonime - e quindi ha pensato al suo film religioso in chiave appunto estetizzante, formalistica, attraverso la ricostruzione squisita di alcuni quadri. E questo, secondo me, è un fatto assolutamente arido, improduttivo, falso, fondamentalmente insincero, nel voler rappresentare il Vangelo. Quindi Orson Welles faceva esattamente quello che non avrei dovuto fare. Infatti, quando io giravo Il Vangelo e vedevo intorno a me degli elmi, delle spade, dei pezzi di mantelli, sentivo quasi un senso di rivolta, di nausea, tanto mi dava fastidio il dover fare in questo modo una ricostruzione storica, estetizzante, e allora, naturalmente, sapendo che questo era il pericolo principale per me, ho sempre cercato di evitarlo, ho cercato di evitare l’estetismo e il formalismo nel girare Il Vangelo, e cercavo sempre quel momento di sincerità di cui parlavo prima. Uno di questi momenti di sincerità era di evitare la ricostruzione di quadri, in tutto Il Vangelo non c’è mai un quadro ricostruito. C’è evidentemente molta cultura pittorica, perché io studiavo a Bologna col professor Longhi, dovevo laurearmi con lui, quindi l’elemento pittorico per me - anche se non l’ho approfondito perché non mi sono specializzato - è un elemento molto importante della mia cultura: non potevo dimenticarmi di conoscere e quindi amare, addirittura di venerare, i pittori dell’Umanesimo, del Rinascimento o del Trecento italiano, non lo potevo dimenticare. Quindi evidentemente, come ci sono nel film molti elementi culturali in tutti i sensi, anche cinematografico o musicale, ci sono anche dei riferimenti culturali di tipo pittorico, ma non c'è mai la ricostruzione di un quadro, c’è sempre una cultura pittorica che concorre a quel magma stilistico cui alludevo: quindi non c’è mai Piero della Francesca né Duccio né Masaccio, c’è un po’ di tutto, perché facevano parte del mio modo di vedere la realtà. Ma non sono mai rappresentati e in questo rientra anche la spiegazione dei costumi: ho preso i costumi, non il gusto, da Piero della Francesca per rappresentare la classe dirigente e per rappresentare i soldati; e il Cristo ha caratteri soprattutto o arcaico-bizantini o spagnoli barocchi, il Greco soprattutto. Questo è stato un fatto un po’ casuale, cioè la scoperta del Cristo è avvenuta in modo un po’ drammatico, l’ho scoperto quando ormai temevo che non avrei mai trovato la faccia che fosse stata, così, all’altezza di rappresentare Cristo; avevo rinunciato già a molti attori, avevo visto migliaia di persone, ormai mi ero arreso, quando improvvisamente entro in casa mia e lo vedo seduto su una poltrona e ho detto: eccolo lì il Cristo, l’ho trovato. Il fatto che la sua faccia fosse visivamente bizantina o greca non mi ha costituito preoccupazione alcuna perché sapevo che dal punto di vista pittorico il mio film sarebbe stato un pastiche culturale e quindi non ho avuto timore nel mettere insieme Piero con i Bizantini e con altri pittori.


 Partecipante -   Lei prima ha detto di aver avuto una polemica, o una discussione, con i preti ad Assisi: vorrei sapere qual era il fondo polemico di questa discussione.


Pasolini -   Un po’ prima che facessi Il Vangelo o mi ignoravano, perché naturalmente l’ignorare è una «tecnica» classica, oppure molti giovani cattolici mi aggredivano molto da destra, cioè facevano loro le tesi della estrema destra praticamente. Però dopo Il Vangelo, parlandone con me, hanno evidentemente riguardato l’insieme della mia opera e sono in un atteggiamento di attesa che è un po l’atteggiamento, devo dire, della signorina che si è alzata a parlare. Ecco, quello è l’atteggiamento dei preti o degli uomini di religione con cui ho avuto a che fare, ed è un atteggiamento, io trovo, democratico, intelligente, intendiamoci; la signorina nei miei riguardi non era né prevenuta né usava su di me una coazione assurda. È il portato di una certa oggettività. Questo è il tono, anche, con cui mi è stato attribuito, per esempio, il premio dell’Ocic, un premio dato cioè da religiosi in genere non italiani: un missionario in India, un professore nel Perù, ecc. ecc.


 Partecipante -   A chi ha affidato il commento musicale dell’ultimo film?


Pasolini -   Il commento musicale l’ho curato completamente io, cioè il mio rapporto con la musica nei film è un po’ particolare, tra dilettantesco arbitrario originale, lo chiami come vuole. Intanto non uso mai un musicista, un tecnico musicale per i commenti dei miei film, prendo sempre delle musiche già esistenti e queste fanno parte di quel mio gusto della contaminazione, del pastiche, dell’insieme di tecniche ecc. In quanto alle musiche del Vangelo, le ho scelte quasi tutte prima di girarlo, cioè molte musiche erano quelle su cui ho pensato e costruito delle scene che poi ho girato: c’è la Messa, per esempio, massonica di Mozart che è il motivo teofanico, sacrale, diciamo così, del film su cui ho veramente pensato l’apparizione di Cristo al Giordano; altre le ho ricercate dopo, però con un’idea abbastanza precisa in testa ed è una specie di ecumenicità musicale del film. Come sempre, ci sono, si mescolano nelle mie opere - direbbe un critico stilistico - lo stile sublimis e lo stile piscatorius, e cioè ho messo insieme Bach a rappresentare lo stile sublimis e dei canti di mendicanti negri oppure dei canti popolari russi oppure la messa cantata dei congolesi per rappresentare lo stile piscatorius, lo stile umile.


 Partecipante -   Lei diceva che il discorso di Papa Giovanni ha influito in gran parte sul suo ultimo film: oggi rifarebbe Il Vangelo nella attuale situazione del Vaticano col pontificato di Paolo VI?


Pasolini -   E una domanda strettamente politica, e un po’ antistorica direi. Veramente non è che io abbia detto prima, tanto per precisare, che ho fatto questo film perché influito in maniera decisiva da Papa Giovanni. No, ho dedicato a Papa Giovanni il film, ho detto che la sua presenza ha reso storicamente possibile il fatto che io potessi pensare questo film, ma non è che abbia influito direttamente in qualche modo. Quindi, probabilmente, l’avrei pensato anche prima e anche dopo. Quanto al fatto se lo farei adesso o no, credo ancora di sì perché non vedo che Paolo VI, almeno finora, si discosti politicamente in maniera clamorosa dalla linea delineata da Papa Giovanni, almeno finora. Non mi sembra di vedere dei segni di grande differenza, ecco: mi sembra che cerchi di conciliare l’intuizione assolutamente solitaria, angelica di quel Papa con la realtà del mondo moderno.


 Partecipante -   A conclusione di questo dibattito, le sarei grato se volesse accennare al suo rapporto con il neorealismo: perché mentre lei respinge, giustamente, molti residui e sopravvivenze sempre più smorte di quel «movimento», mi sembra che riesca poi a ritrovarne, nella sua opera, una certa carica, un certo empito iniziale di protesta che però, in lei, tende a diventare più violenta e più «pura» a un tempo, soprattutto stilisticamente. Io non mi sono affatto stupito né «scandalizzato» del suo Cristo, perché ci ho trovato dentro, molto forte, proprio questa radicalità e «purezza»: che è sempre una radicalità antiborghese, antifilistea, anti-uomo medio mostro, con una insopprimibile «vocazione» antagonistica, e sia pure con tutte le mediazioni ironiche e «impure» di cui parlava prima. Si dà dunque il caso che oggi - quando Visconti ripiega nell’elegia crepuscolare del Passato, quando De Sica e Zavattini sono compromessi in un cinema di mero intrattenimento mercantile e lo stesso Fellini (so che lei non è del tutto d’accordo) continua a propinarci l’autobiografia come spettacolo - i suoi film riescano a ritrovare, in qualche modo, la radice più profonda di quella che è stata definita la «civiltà», io direi la spinta sotterranea e spesso anche inespressa, del neorealismo migliore. Ecco, mi piacerebbe sentirla, e poter discutere, su questo.


Pasolini -   Senta Ferrero lei ha detto delle parole così belle per me, ha cominciato e ha finito con delle parole così belle, che io vorrei veramente finire senza rispondere, lasciando la risposta implicita nella domanda. In realtà, in modo forse un po’ troppo complimentoso per me, ha già risposto: sì, sono fedele alla lezione del neorealismo e questa lezione compare stilisticamente nel mio film, sempre nel modo magmatico di cui dicevo, attraverso addirittura delle citazioni neorealistiche, quando compaiono, nel battesimo di Giovanni, quel bambino con le orecchie a sventola oppure quella donna col gozzo. Certi elementi neorealistici compaiono, si intrecciano continuamente nel connettivo stilistico del film. Questa fedeltà al neorealismo sta a rappresentare simbolicamente la mia fedeltà di fondo, che mi seguirà per tutta la vita, ai valori della Resistenza.


 

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

Grazie per aver visitato il mio blog

Nessun commento:

Posta un commento