"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
"UN ARTICOLO SU «L’ESPRESSO»"
7 febbraio 1965
Si era fatto nel n. 3 di quest’anno dell’«Espresso» un buon riassunto della mia conferenza sulle «Nuove questioni linguistiche» (pubblicata in «Rinascita» del 26 dicembre 1964): ora, nel n. 4 introducendo i due interventi di Moravia e di Eco, l’articolista pare avere dimenticato tutto quello che aveva diligentemente riassunto. Mi basta citare la terza riga in cui egli mettendo tra virgolette una frase sua, e facendola così passare per mia, mi fa annunciare con solennità che «è nata la nuova lingua italiana, quella della borghesia tecnologica».
Io avevo detto invece: «Nel corso dell’italianizzazione dell’Italia, che si stava delineando come “livellamento” linguistico dovuto a grossi fenomeni sociologici (urbanesimo, emigrazioni interne, imborghesimento della classe operaia, potenziamento delle “infrastrutture di base”, strumenti linguistici di diffusione eccezionali, radio, cinema, televisione, rotocalchi), è accaduto qualcosa di ben più profondo e violento che un normale assestamento della società: è accaduto cioè che nella vecchia borghesia umanistica dominante (ma non egemonica), si è andata sostituendo una nuova borghesia tecnocratica (con tendenza fortemente egemonica): tale borghesia è insieme irradiatrice di potere economico, di cultura e quindi di lingua. E poiché essa, dato il suo reale potere (la sua tendenza egemonica) s’identifica potenzialmente con tutta la nazione (com’era accaduto in Francia prima con la monarchia, poi con la borghesia rivoluzionaria e liberale), rende potenzialmente per la prima volta l’italiano una lingua nazionale».
La nuova lingua tecnologica della borghesia, di per sé, non m’interessa, personalmente la detesto, e il mio assunto di scrittore è quello di oppormi ad essa: ma non ignorandola. Essa è un fenomeno reale: ma non si pone come nuova «stratificazione» dell’italiano (una delle tante «stratificazioni» che giustapponendosi e non superandosi, hanno formato la ricchezza espressiva dell’italiano, con tutto quanto di aleatorio ciò comporta), ma una stratificazione che: a) è dovuta a uno «spirito nuovo» (che non ha equivalenti nel passato), lo spirito tecnico; b) coincide con la nascita in Italia della prima borghesia realmente egemonica (in potenza, ancora). Perciò tale stratificazione non si giustappone alle altre, ma si presenta come principio omologatore e unificatore sia delle stratificazioni precedenti, sia dei vari linguaggi che compongono l’italiano attuale.
Ora io non sono aideologico, né liberale (cioè affezionato alle antiche forme della borghesia, tanto da voler ignorare le nuove, proprio mentre Malagodi sta preparando il nuovo partito conservatore ai servizi dell’egemonia industriale del Nord): il mio discorso quindi non è linguistico, è politico.
È chiaro che il mio scritto a una persona intelligente (e che conosca l’italiano, quello letterario e grammaticale!) si presenta come una diagnosi: ha quindi i caratteri dell’oggettività e dell’analiticità. Le ultime due pagine, però, benché affrettate per ragioni di economia testuale, sono testimonianza di una forte volontà interpretativa, sia pure ancora incerta. E si inquadrano comunque in quella fase di «rinnovamento del marxismo» che è probabilmente il fatto culturale, esso sì, più rilevante e determinante degli anni sessanta.
Qui vorrei fare alcune annotazioni che servono realmente a liberare il dibattito dalla fase regressiva cui si sta come sempre riducendo.
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A proposito del nuovo referto di Barbato, mi viene in mente un episodietto significativo. Alla prima di un mio film, un fascista, un giovanotto piuttosto emaciato, per la verità, mi ha gridato pubblicamente un insulto in nome di tutta la sua bella gioventù: io ho perso la pazienza (me ne pento), l’ho schiaffeggiato e sbattuto per terra. La mia amica Laura Betti era presente, e ha visto quindi «coi suoi occhi» tutta la scena. Non so per quali calcoli, i giornali che hanno riportato l’episodio, l’hanno rovesciato (corredandolo di fotografie false), in modo che il picchiato risultassi io. La cosa è stata ripetuta, ed è diventata di dominio pubblico: talmente di dominio pubblico che la Betti, nella sua aggressiva ingenuità, parlandone a me, benché avesse visto «coi suoi occhi» la scena, diceva: «Il fascista che ti ha picchiato». Non so se per Barbato posso parlare, come per la Betti, di ingenuità: fatto sta che il suo comportamento è identico. Egli ha letto «coi suoi occhi e capito col suo cervello» la mia conferenza: nel frattempo però nel dominio pubblico è accaduto che io dicessi «è nata la nuova lingua italiana, quella della borghesia tecnologica», anziché, com’è in realtà «è nato l’italiano come lingua nazionale» ed egli ha fatto sua l’interpretazione del dominio pubblico. Non capisco cosa abbia giocato in lui: se buona fede o cattiva volontà; oppure la «ragione superiore» del mestiere. La cosa non importa: è più importante vedere come mai nel contesto in cui opera un giornalista come Barbato si sia formata quella interpretazione tendenziosa.
Io credo che la vera, profonda ragione, per cui il «milieu» nel quale Barbato opera si mostra diffidente davanti al mio saggio, è l’avversione ad accettare un mutamento di prospettiva, un adattamento a nuovi problemi che si presentano come profondamente modificatori di ogni stato stabilito: sia nella società che nelle coscienze.
Il marxismo si pone, attraverso un profondo travaglio, che accomuna i partiti comunisti dell’Europa orientale, la Francia, l’Italia, davanti al problema di un rinnovamento profondo e difficile: la stessa Chiesa cattolica si muove. Non mi consta che ci sia invece movimento nei partiti borghesi: se si eccettua un certo movimento di adattamento alle nuove esigenze dei padroni del Nord. È la prima vera e grande sconfitta dei laici italiani: la loro pigrizia umanistica, la loro sostanziale (e irrazionale!) fiducia nella borghesia, li ha traditi. Si rifiutano di spingersi in zone nuove e pericolose, di accettare nuovi strati di realtà.
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Quanto a Moravia, devo dire che egli, intervenendo in questa occasione, non ha avuto orecchie per ascoltare la vera realtà del mio discorso: l’ha anch’egli strumentalizzato alla mia personale ricerca tecnica di autore, mentre esso non era che un passaggio per una comprensione più vasta della realtà italiana, in cui poi operare «anche» linguisticamente; e si è affannato a dimostrare una cosa assolutamente ovvia, cioè che l’italiano è sempre stata una lingua media. Mi dimostri che l’italiano è sempre stata una lingua nazionale: e non una «lingua» media di élite o di classe. Inoltre, per via della sua solita impazienza, egli mi attribuisce la «nozione» di un nuovo italiano già adulto, mentre io mi ero limitato a battesimare un infante. Lo credo bene, per esempio, che gli ingegneri e i tecnici parlino con le loro «signore» l’italiano aulico (per quanto la parola non sia esatta), ed è vero che l’italiano di Moro ha un fondo ancora avvocatesco e umanistico. Le cose stanno cominciando ad avvenire, non sono avvenute!
Dunque per un utile proseguimento del dibattito, sull’«Espresso» o altrove, direi che andrebbero tenuti presenti i seguenti punti:
1) Io non ho parlato, ripeto, di un italiano nuovo, ma della nascita di un possibile italiano nuovo (nazionale). Supporne sbrigativamente una figura adulta, significa: a) non riconoscerlo; b) riconoscerlo attraverso esperienze ritardate, già fatte, e quindi accantonarlo in quanto effettiva nuova realtà politica e sociale.
2) Io non ho impostato il problema come un problema di ricerche personali. (Non so ancora cosa scriverò, ed è futile venirmi ad attribuire un rinnovamento che in realtà non esiste, nei termini con cui me lo si attribuisce: ossia l’abbandono del dialetto per una lingua più complessa e ad alto livello: in che lingua ho scritto i miei saggi e le mie poesie? Non è detto poi, che io abbandoni le ricerche dialettali. Niente affatto. Il dialetto resta una realtà: sia pure ritardata.) Comunque anche il ridurre questa mia ricerca a un fatto personale, significa rimuoverne e tacitarne i caratteri pubblici.
3) Io non ho voluto risuscitare la querelle dialetto-lingua: e leggere in tal senso il mio saggio significa retrodatarlo, con l’inconscio odio razzista che ha sempre il borghese per la lingua del popolo e con il corredo di banalità razionalistiche che ogni odio irrazionale di tale genere comporta.
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