"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Un manifesto per la cultura d'opposizione
Libertà dell'autore e liberazione degli spettatori
Pier Paolo Pasolini
L'Unità, domenica 15 gennaio 1984
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
Il testo di Pier Paolo Pasolini che qui presentiamo è a tuttora inedito e venne, infatti, letto, assente il suo autore (doveva trovarsi a Cannes per la proiezione di Medea appena uscito), al 15° convegno cineasti incentrato sul tema «Libertà dell'autore e liberazione degli spettatori», svoltosi ad Assisi per conto della Pro Civitate Cristiana dal 10 al 12 aprile 1970. Tra 1 partecipanti erano Marco Bellocchio, Orazio Costa, Nanni Loy, Damiano Damiani, Pio Baldelli. e 1'ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede.
La breve relazione introduttiva fu tenuta da Lucio S.Caruso, intellettuale di matrice giovannea, che fu con Pasolini in un viaggio in Palestina per i sopralluoghi che precedettero la realizzazione del Vangelo secondo Matteo, uno di quei cattolici avanzati, venuti attorno a «La Clttadella» che ricercarono la collaborazione dello scrittore-regista. Ad essa fecero seguito interventi di uno psicologo, Ancona, e di un filosofo, Enrico Chiavacci, il quale sostenne che allo sforzo di autoliberazione richiesto agli artisti dovesse rispondere il superamento degli impedimenti esterni. «La vera immoralità dell'arte è il fare della produzione artistica un commercio», così in un passaggio della sua relazione. Dopodiché fu diffusa la comunicazione di Pasolini.
Pur dichiarandosi marxista sui generis, l'autore di Accattone era lungi dall'ignorare la massa di condizionamenti, in primo luogo economici e strutturali, ma poi anche Ideologici, che gravavano sul lavoro espressivo. La cripticità della scrittura di Teorema, e di Porcile, è in fondo una risposta, passionale più che logica, agli impedimenti e alle manipolazioni di sistema (oggi si direbbe dell'apparato delle comunicazioni di massa) Il testo pasoliniano segue febbrilmente una precisa linea di pensiero, nella sua intonazione più puntuale si surroga una misura intuitiva e coscienziale, lampeggiante di illuminazioni. Si capisce insomma che è alle soglie la svolta dell'ultimo periodo, che farà di Pasolini uno dei grandi testimoni tragici e visionari della nostra epoca, insieme con pochi altri, Genet, Mishima, Fassbinder. Le sue argomentazioni attraverso un inesausto bilanciamento tra speranza e angoscia ci danno conto della produzione di quegli anni, equilibrate contraddittoriamente tra attesa di futuro {Appunti per un'Orestiade africana) e pulsioni di morte (Medea, Ostia, Decameron).
Oggi che il dibattito sulla scrittura si indugia a considerare il ruolo della produzione, del genere, degli schemi ritornanti, che senso rivestono le posizioni pasoliniane?
Sul piano dell'elementarietà immediata, non può non colpire la loro valenza di alterità. Infatti la loro modernità, paradossalmente, come il lettore vedrà, risiede nell'assoluta infungibilità alle idee dominanti. È uno del punti centrali della discussione che si è svolta intorno a Pasolini. Ma a nostro vedere nei suoi spunti non ci sono sintomi di arretratezza o di anacronismo.
Ringraziamo per la pubblicazione di questo testo la cugina di Pier Paolo, Graziella Chiorcossi.
Gualtiero De Santi
Libertà dell'autore e liberazione degli spettatori.
Mi trovo, come uno scolaro, a svolgere un tema: «Libertà dell'autore e liberazione degli spettatori»: tema dettato nello stile spiritualistico del cattolicesimo avanzato pre-giovanneo, e aggiornato poi, con autentica passione, in questi ultimi anni, caratterizzati dal pragmatismo. Tale stile è quindi 'ambiguo»: si colloca tra la genericità spiritualistica e la precisione pragmatica: e io, scolaro un po'confuso, mi trovo costretto prima di tutto (anzi forse esclusivamente) a esercitare un esame meta linguistico sul tema che mi è dato da svolgere.
Le parole del tema sono quattro: «libertà», «autore», «liberazione», «spettatore». Esaminiamole.
1) «LIBERTÀ»
Dopo averci ben pensato ho capito che questa parola misteriosa non significa altro, infine, nel fondo di ogni fondo, che «libertà di scegliere la morte». E ciò è scandaloso, perché ciò che conta è vivere: su questo i cattolici (la vita è sacra perché ce l'ha data Dio) e i comunisti (bisogna vivere per adempiere il nostro dovere verso la società) sono d'accordo. Anche la natura è d'accordo: e, per aiutarci ad essere amorosamente attaccati alla vita, ci fornisce del cosiddetto «istinto di conservazione». Senonché, a differenza dei cattolici e dei comunisti, la natura è ambigua: e infatti ci fornisce anche dell'istinto opposto, cioè quello del desiderio di morire. Questo conflitto, che non è contraddittorio — come vorrebbe la nostra mente razionale e dialettica — ma oppositorio e quindi non progressivo, non capace di sintesi o di mistiche, si svolge nel fondo della nostra anima. Nel fondo inconoscibile, com'è ben noto. Ma gli «autori» sono gli incaricati a rendere come possono manifesto ed esplicito tale conflitto. Essi
hanno infatti la mancanza di tatto e la completa inopportunità necessaria a rivelare in qualche modo di «desiderare di morire» e di venir meno quindi alle norme dell'istinto di conservazione: o, più semplicemente, alla CONSERVAZIONE. La libertà è dunque un attentato autolesionistico alla conservazione. La libertà non può essere manifestata altrimenti che attraverso un grande o un piccolo martirio. E ogni martire martirizza se stesso attraverso il carnefice conservatore.
Per restare al nostro campo — quello dello stile, poesia o cinema —si può allora dire che ogni infrazione del codice — operazione necessaria all'invenzione stilistica — è un'infrazione alla conservazione: e quindi è l'esibizione di un atto autolesionistico: per cui qualcosa di tragico e di ignoto è scelto al posto di qualcosa di quotidiano e di noto (la vita).
Vorrei accentuare la parola esibizione. La vocazione alle piaghe del martirio che l'autore fa a se stesso nel momento in cui trasgredisce l'istinto di conservarsi, sostituendolo con quello di perdersi, non ha senso se non è resa esplicita al massimo: se non è appunto esibita. In ogni autore, nell'atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell'atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone — e proprio alla lettera — agli altri: allo scandalo appunto, al ridicolo, alla riprovazione, al senso di diversità, e perché no?, all'ammirazione, sia pure un po'sospetta. C'è in fondo il piacere «che si ha in ogni attrazione del desiderio di vedere la morte.
2) «AUTORE»
Se un facitore di versi, di romanzi, di films, trova omertà, connivenza o comprensione nella società in cui opera, non e un autore. Un autore non può che essere un estraneo nella terra di xenofobi: ed infatti abita la morte anziché abitare la vita, e il sentimento che gli suscita è un sentimento, più o meno forte, di odio razziale. Poiché solo chi non crede in nulla (anche se si illude di credere in qualcosa) può avere amore per la vita (l'unico amore vero, dico, che non può che essere «del tutto disinteressato»), evidentemente un autore ama la vita. Ma il suo amore non ha che qualche tratto comune e riconoscibile: tratto comune e riconoscibile spiegato dal fatto che egli è, oggi, piccolo—borghese tra piccoli—borghesi, e spesso anche egli ha l'illusione piccolo—borghese della realtà del mondo e della storia, e quindi dei doveri a cui per lealtà obbedire. Ma, che egli lo sappia o non lo sappia, in realtà egli non crede in nulla, crede cioè nel contrario della vita: ed è questa sua fede che egli esprime lacerandosi con ferite di testimonianza. E l'amore disinteressato per la vita che gli deriva da questo suo totale pessimismo (pur mascherato talvolta da idealismi piccolo—borghesi) non può avere che dei tratti oscuri e irriconoscibili, che diffondono intorno a lui uno stato di disagio e di panico, superabile solo perchè in fondo tutti gli uomini sono autori in potenza, dotati cioè di un ignoto e inconfessato istinto di morte, per definizione anti-conservatore.
3) «SPETTATORE»
4) «LIBERAZIONE»
Stando così le cose non si può parlare di 'liberazione» dello spettatore né in senso sociologico (libertà dal consumo di massa), né in senso politico (libertà dalle idee sbagliate), né in senso pedagogico (libertà dall'ignoranza). Anzi, in realtà non si potrebbe neanche parlare di «liberazione», perché lo spettatore REALE è già LIBERO. Si dovrebbe piuttosto parlare di «libertà dello spettatore»: e, in tal caso, bisognerebbe definire questa sua libertà. Infatti la «libertà» dello spettatore, pur essendo quest'ultimo, come ho detto, pari all'autore, e quindi usufruendo della sua stessa libertà di morire — sia di immolarsi nel misto di piacere e dolore in cui consiste la trasgressione della normalità conservatrice — nel momento in cui egli è spettatore, dissociando pragmaticamente la propria figura da quell'autore, egli gode di un altro tipo di libertà, che non saprei dire se integra o rovescia la definizione di libertà che ho dato sopra.
La libertà specifica dello spettatore consiste nel GODERE DELLA LiBERTA' ALTRUI.
In un certo senso quindi lo spettatore codifica l'atto incodificabile compiuto dall'autore che inventa, producendo su se stesso ferite più o meno gravi, e con questo asserendo la sua libertà di scegliere il contrario della vita regolamentatrice, e di perdere ciò che la vita ordina di risparmiare e conservare. Lo spettatore, in quanto tale, gode l'esempio di tale libertà, e come tale la oggettiva: la reinserisce nel parlabile. Ma ciò avviene al di fuori di ogni «integrazione»: in un certo senso al di fuori della società (la quale infatti non integra solo lo scandalo dell'autore ma anche la comprensione scandalosa dello spettatore). E un rapporto tra singolo e singolo, che avviene sotto il segno ambiguo degli istinti e sotto il segno religioso (non confessionale) della carità. La libertà negativa e creatrice dell'autore è riportata al senso (che essa vorrebbe perdere), dalla libertà dello spettatore, in quanto, ripeto, essa consiste nel godere della altrui libertà.
Pier Paolo Pasolini
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