"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Ecco Pasolini, il ricco "maledetto"
Gli scrittori italiani da centomila copie: ecco Pasolini. Un intervista del 1962
Tempo, numero 35
1 settembre 1962
pag. 24-26
Roma, agosto.
braccati dai fotografi. Corriamo perché la sabbia scotta, non proprio per sfuggire ai fotografi, ma il maudit è molto seccato che lo vogliamo ritrarre seminudo per venderlo, "formato 18 x 24", ai giornali d'estrema destra.
«Signor Pasolini - dice uno dei paparazzi - se faccia fa' 'na foto. Dovemo campà pure noi».
«E fatela», sospira lui.
Saltiamo su un pattino e andiamo al largo a fare il bagno. I fotografi continuano a puntarci col
teleobiettivo, poi ripiegano sul ministro La Malfa. Pasolini rema con vigore e finalmente siamo soli.
L'ultimo rampollo della famiglia dei poètes maudits è toccato a noi. È toccato alla nostra generazione
cinica e ingenua, annoiata e curiosa, affarista e confusa. Ogni tempo ha il maudit che si merita: lo spreme dai propri vizi, lo concentra, lo isola e se ne serve come pietra di paragone, come droga, o come catarsi. Il nostro, com'è giusto, assomma almeno tutti i difetti di cui segretamente ci vantiamo, e anche quella virtù che fingiamo di spregiare: sa far denaro. La maledizione, che ai tempi di Villon e più tardi di Verlaine e di Rimbaud non rendeva che poesia e miseria, a Pasolini concede altre tirature, il cinema e milioni. E' un fatto nuovo nella storia. Significa che il pubblico ne ha bisogno? Che la gente, per detestarlo meglio, ritiene giusto documentarsi? In ambedue i casi lui è, come dicono i critici di professione, un'autentica "presenza nella nostra letteratura", e per questo ora siamo qui, in alto al mare, con una intervista per aria, che lui non vorrebbe e che io dovrò cavargli di bocca con la forza.
«Non voglio parlare», mi ha già detto. Chiacchierare del più e del meno sì, ma parlare veramente no.
«Perché non vuole parlare?»
«Perché poi prendono tutte le cose che dico e me le ritorcono contro. Lo so già come va a finire. Lei non inventa, scrive quello che dico, ma poi arrivano loro e arzigogolano come gli pare. Hanno fatto di me il personaggio che vogliono, sono diventato il simbolo della dissolutezza. È come per Moravia: la gente ha bisogno di credere che i personaggi descritti nei suoi libri siano lui. Così io sono diventato un "ragazzo di vita". Mi attaccano continuamente. Ho finito per non leggere più nulla di quello che scrivono. Appena vedo un giornale volto la faccia dall'altra parte. Quando passo vicino a un'edicola mi sento male. Credo d'essere stato, una volta, pieno d'amore per tutti. Ora sto diventando amaro e preferisco stare zitto».
Nel suo libro di poesie, "La religione del mio tempo", Pasolini si è dedicato due versi:
«In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza - il più colpevole sono io, inaridito dell'amarezza».
«Però - dico - il mondo compra. Lei si è arricchito».
«Così e così. Solo ora potrò permettermi un appartamento con i muri miei. Ma lo devo soprattutto al cinema».
Ha un viso quieto, magro, triste. Sembra un ragazzo la cui pelle soltanto sia invecchiata, mentre il corpo è rimasto adolescente, angoloso. Gli occhi e la bocca sono induriti dalle rughe, basterebbero un po' di vitamine e di vacanza per distenderle, e allora bocca e occhi ridiventerebbero quelli d'un ragazzo.
«Credo che non scriverò più romanzi. Solo poesie. E farò i film. Fare un film è come scrivere un romanzo a strati: prima il soggetto, poi la sceneggiatura e dopo le riprese. E alla fine il montaggio e il "missaggio". C'è solo un fatto, che angoscia: quando le riprese sono finite, non c'è più modo di cambiarle. Dà il terrore. M'è capitato in questi giorni con Mamma Roma. Ieri, forse, le avrei detto che non volevo più saperne neppure del cinema. Oggi mi sono un po' calmato».
Si tuffa, nuota, torna a sdraiarsi sul pattino e parla della sua infanzia. È stata una infanzia normale, con una madre dolcissima e un padre difficile che apparteneva a una vecchia famiglia romagnola e aveva sperperato il suo patrimonio. «Era un passionale, un sensuale e un violento di carattere - ha scritto di lui Pasolini - e finì in Libia senza un soldo. Così cominciò la carriera militare dalla quale sarebbe stato definitivamente represso fino al conformismo più totale».
A sette anni Pier Paolo scrisse la prima poesia. Ricorda soltanto che parlava di rosignoli e di verzura. A quel tempo voleva crescere in fretta per diventare poeta e capitano di lungo corso. Poi a scuola scoprì Omero e Carducci, ma il solo libro che lo colpì veramente fu l'Idiota di Dostoevskij. Più tardi, quando era già all'università, si innamorò degli ermetici italiani da Ungaretti in giù e cominciò a scrivere. Cercava il suo stile ma non sapeva ancora che lo stile è, come diceva Jules Renard, "l'oblìo di tutti gli stili". Per gli scritti di allora prova pietà, ma lo commuovono:
«Ero migliore di adesso».
«Lei ha fatto anche il critico - dico -, quindi può spiegarmi come giudica i suoi libri e le sue poesie di oggi».
«La mia poesia è di opposizione, sostituisce il logico all'analogico e il problema alla grazia. Per quanto riguarda la prosa, sto cercando un accordo fra il realismo mimetico e il realismo oggettivo».
Quando Pasolini incomincia con gli altri ismi bisogna fermarlo subito, altrimenti non si riprende più. Si paluda da iniziato, da specializzato. Ridiventa uno della chiusa cerchia di "Officina", la rivista bolognese che dirigeva con Leonetti e Roversi, altri "facitori d'opinione" che studiavano le "diete terminologiche" con Fortini e Scaglia. Tempo fa, a Moravia, ha detto "sottovoce" in una lettera aperta, una tale sfilata di ismi che io ho deciso di imparali a memoria come scioglilingua, benché non mi si sia ancora raccapezzata. Diceva che «la caratteristica principe del neo-sperimentalismo è l'irrazionalismo, mentre la caratteristica principale del realismo è il razionalismo. L'irrazionalismo si identifica col Novecento, ossia con il mondo culturale borghese e capitalistico, mentre il razionalismo si identifica con l'anti-novecento, ossia con il momento culturale e prospettivistico del marxismo».
«Per favore», dico.
«D'accordo - fa e si mette a ridere -, diciamo allora che Calvino, per esempio, ha un mondo realistico come base anche quando inventa favole, mentre Cassola non ce l'ha anche quando scrive di cose reali. Il realismo di Calvino è oggettivo e quello di Cassola è mimetico. Io voglio trovare la via che mi porti ad ambedue i tipi di realismo».
L'assegnazione del Premio Strega 1961 a Carlo Cassola dev'essergli rimasta ancora di traverso. Aveva scritto un lungo "amaro scherzo shakespeariano" per presentare Calvino, il realista autentico, contro Cassola, il realista traditore, "perché Cassola, lo sapete, è socialista: ha agito dentro il cuore dell'idea realista; e il suo è il colpo più brutale". Ma vinse Cassola. Oggi Pasolini ammette che "verso di lui era un po' offuscato dalle sue polemiche pubbliche e private", ma nemmeno ora è rassegnato a riconoscere il realismo di Cassola. Del Premio Strega di allora, è rimasta, nella "Religione del mio tempo", la spiritosa poesia alla maniera di Shakespeare, e una punto di acredine nella gola del poète maudit, per il quale Cassola è troppo delicato, svagato da sogni senza storia.
«Ma lei - dice Pasolini- mi sta facendo l'intervista».
«Certo».
«Oh».
Si tuffa e quando torna si mette a parlare del tempo, della luce, del colore che c'è nell'aria. Il cielo è scolorito, quasi argentato dal gran sole e lui trova che è stupendo. Ama il giorno, la notte gli dà angoscia. «Di giorno si lavora e si è tutti insieme, ma di sera si resta soli all'improvviso e bisognerebbe essere capaci di riempire quelle ore di cose belle e importanti. Invece se ne vanno via così».
Nell'autobiografia che ha scritto per Elio Filippo Accrocca, autore di Ritratti su misura di scrittori italiani, Pasolini diceva:
«Amo la vita così ferocemente, così disperatamente che non me può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l'erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo della cocaina. Non mi costa nulla e ce n'è un'abbondanza sconfinata, senza limiti: io divoro, divoro... come andrà a finire non lo so».
A sentire i magistrati che gli fanno i processi, non può finire che male.
«Oh, i magistrati. Non sa le cose che hanno detto. Il mese scorso, quando c'è stato il processo per quella storia del benzinaro, ho creduto che mia madre morisse dal dolore. Per fortuna era rimasta a casa altrimenti non reggeva. Ma i giornali li guardava, e io soffrivo per lei. Siamo molto legati. Mi è morto il fratello a vent'anni, faceva il partigiano sulle montagne del Friuli. Ora siamo rimasti soli».
«Se non fosse per mia madre - ha scritto un giorno Pasolini - credo che vivrei contento perfino a Regina Coeli». A sua madre ha dedicato una delle poesie migliori, "Una luce":
«La casa è piena delle sue magre - membra di bambina, della sua fatica. - Anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime - coprono ogni cosa: e una pietà così antica, - così tremenda mi stringe il cuore, - rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita».
A volte, davanti agli estranei, ha pudore di questa tenerezza. Non vuole farla vedere, non vuole che sia contaminata: non vuole che gli si perdoni qualcosa per lei. Soprattutto non vuole che la gente sospetti che lui se ne serva per farsi perdonare i suoi eccessi d'uomo che vuole divorare la vita.
«Il processo l'ha seguito? Si può immaginare una cosa più folle, più kafkiana? Il benzinaro che sostiene di avermi visto arrivare, tutto vestito di nero, con il cappello nero e i guanti neri, con una rivoltella in mano. E caricavo la rivoltella con pallottole d'oro? Se lo immagina uno che carica la rivoltella con pallottole d'oro?Sembrava un film di Zorro modernizzato, ma senza una virgola di retorica in meno. Alla fine ho scritto una poesia. Quando mi capitano cose che fanno proprio male, mi sfogo scrivendo una poesia».
«Ciao Pasolini», urla qualcuno da un pattino che s'è avvicinato, carico di gente.
«Li conosce?».
«No».
«È piacevole la fama?». «Macché piacevole. Se uno la conoscesse prima non cercherebbe mai di diventare qualcuno».
Dice che è stanco, che non prende vacanze da cinque anni. Tra qualche giorno andrà a raggiungere Moravia nelle isole Eolie. Un posto solitario, dove nessuno lo conosce. Ne ha bisogno, altrimenti esplode. Sta finendo una sceneggiatura e montando "Mamma Roma". Appena sistemate queste cose se ne andrà.
«Ha qualche libro in mente?».
«Le ho detto che non vorrei più scrivere romanzi. Voglio solo arrivare fino in fondo all'Inferno, non sono ancora a metà».
«L'hanno già scritto».
«E lo riscrivo. È lo stesso di Dante, ma aggiornato, adattato ai nostri tempi. Ci metto dentro anche quelli che conosco. Stalin l'ho messo al posto di Farinata degli Uberti. È tra quei signor dell'altissimo canto ho sistemato, per ora, Gadda e Moravia».
«E lei?».
«Io mi sono piazzato fra i lussuriosi».
Parliamo dell'amore e lui dice che è importante, ma viene al secondo posto. Prima il lavoro e poi l'amore, o meglio, la questione del sesso. «No - dico - non parlavo solo della questione del sesso. Parlavo dell'amore autentico, totale».
«Ah. Può venire per primo allora». Ci pensa un po', guarda due ragazze in bikini su un pattino che ci passa accanto e commenta che quella del bikini è proprio una bella moda, poi conclude che no, l'amore è al secondo posto. Per un uomo, almeno.
«Io vorrei sapere - dice all'improvviso - perché i giornali scrivono sempre di me "il controverso scrittore". In genere i critici hanno sempre apprezzato le cose che ho fatto. Che significa questo "controverso"? "Ragazzi di vita", "Una vita violenta" e poi anche le antologie e le poesie e i saggi sono stati accolti piuttosto favorevolmente. Anche "Il sogno di una cosa", il mio libro più giovane, diciamo, perché l'ho scritto prima di "ragazzi di vita" e l'ho stampato ora, è stato ben accolto. Niente, loro continuano con quel "controverso" e non c'è nulla da fare».
0«Ha ragione - dico- non c'è senso». Poi gli chiedo se ha altri libri inediti e lui dice che ne ha due.
«Uno intitolato "Atti impuri", l'altro "Amado mio". Ricorda quella canzone, Amado mio? L'ho scritto in quel tempo. Ma non li pubblicherò mai. Usciranno dopo la mia morte caso mai».
Sulla riva ci viene incontro il bagnino. «Vada un po' più in là ad approdare, signor Pasolini. C'è una fila di fotografi».
Ci spostiamo, si spostano anche i fotografi. Pasolini dice che è meglio andare via, mangeremo in qualche altro posto, così non si può vivere. Ma oramai siamo chiusi in un cerchio e i clic sono fitti come colpi di mitragliatrice. Tanto vale rimanere, oramai non c'è altro da fotografare e i paparazzi sudati, appesantiti dalle macchine, corrono verso un punto imprecisato doce, pare hanno intravisto Jacqueline Sassard e una che si chiama Marisa Valente.
«Lo scrittore - dice Pasolini - sta diventando un po' come un prete».
«Eh?», dico, e penso ai fotografi, a Jacqueline Sassard, ai milioni.
«Sì, ne parlavamo l'altro giorno con Moravia. Lo scrittore sostituisce quello che una volta era il consigliere spirituale. Riceviamo un'infinità di lettere tutti i giorni da gente che vuole aiuti finanziari e morali. Mi scrivono molti giovani, vogliono che legga i loro scritti, che li avvii verso la letteratura, che spieghi qual è il senso della vita».
«Le risponde?».
«Non ho tempo. E poi la roba che mandano è orribile. Ci sono dei buoni poeti, fra i giovani. Ma non sono quelli che mandano le loro poesie. Sono sempre gli altri. Certi giovani stanno facendo cose buone. La poesia ricomincia a interessarli. Bernardo Bertolucci ad esempio, è molto bravo».
«Cos'è per lei un autentico scrittore?».
«È un uomo che ha trovato un suo sistema, una specie di mondo chiuso dal quale, spesso, il pubblico è escluso. Per questo a volte certi scrittori bravi non suscitano che irritazione. Un vero scrittore dev'essere fedele al suo mondo, avere cose precise da dire, ed essere in grado di dirle».
«Come ha fatto, lei, ad avere "dentro" il mondo delle borgate romane? Lei è friulano».
«Quando sono venuto qui nel '49 ho abitato lungo le borgate. Ero povero, cercavo lavoro. Facevo la stessa vita degli operai e dei disoccupati. E' un ambiente nel quale si vive tutti insieme in ogni momento del giorno. Cominciai a scrivere brani del libro che poi doveva diventare Ragazzi di vita guardando vivere quella gente».
«Che importa? Sono nato friulano, scrivo in romanesco, forse domani scriverò in napoletano e nell'italo-francese dei minatori del Belgio. Non ho campanile né culto dialettale. L'importante, di volta in volta, è cercare d'immedesimarsi in ciò che si ha intorno».
Alcuni critici dicono che per lui il dialetto è solo un mezzo di rottura, un bisogno di anticonformismo espressivo. Ma la sua rivolta, in certi casi, è negativa: stracciando gli abiti ai suoi personaggi, mettendo loro in bocca parole volgari, solo in apparenza li rende più vivi. In realtà li falsifica e quindi li diminuisce. Ciò che li salva è la sua forza di narratore. Forse un giorno scriverà libri in puro italiano, e allora vorrà dire che si sarà liberato di questi mezzi un po' facili che costituiscono il suo colore e nello stesso tempo il suo limite. Per oro ne ha bisogno: appagano la sua ansia di rivolta. Così il maudit che, ancora per sete di rotture, si professa comunista, è soddisfatto.
«Io sono comunista - dice - lo sono davvero. Forse in una società meglio organizzata diventerei socialista, ma per ora non c'è altro modo».
È giovane, nonostante i suoi quarant'anni, e non ha ancora smesso di cercare uno stile, sia in politica che in arte. Nei suoi film si sentono, a tratti, Rossellini, Bergman, Antonioni, De Sica, come nei suoi libri si ritrovano pagine che somigliano a certe altre, ottocentesche, della "Roma gialla" di Giustino Ferri, o delle Scene romanesche di Luigi Palumba. È immaturo, ma è di quelli che forse resteranno. Franco Fortini diceva di lui: «è imprevedibile il suo avvenire, inimitabile il suo modo di vincere e di sbagliare».
«Quale sarà il suo prossimo film?» Chiedo tirando finalmente fuori il taccuino che finora non ho osato prendere per non ricordargli che lo stavo intervistando. Lui guarda il taccuino con diffidenza, poi si lascia andare di nuovo sulla sabbia con un sospiro. Mi accorgo all'improvviso che è timido. È stato timido con i fotografi, lo è col mio taccuino.
Si arrende.
«Il padre selvaggio. Andremo a girarlo in Africa. Sono già stato laggiù, nel Congo, nel Ghana e nel Sudan, in cerca di un posto adatto. Mi serve una città africana, in un paese di questi che nascono ora».
«Ho scovato il primo attore. È un giovane negro che ho conosciuto a Kartoum. Gli altri li troverò sul posto, come faccio sempre. A me non importa che non sappiano recitare. Poi recitano lo stesso. È la storia di un negro evoluto che vive in città, ma ha fuori, nel deserto, un padre selvaggio che sta ancora con la tribù».
«Non le è mai venuto in mente di scrivere per il teatro?».
«Non capisco il teatro. La macchina da presa è molto più espressiva. Con la macchina da presa si è in grado di portare l'attenzione dello spettatore su ciò che interessa veramente. Il teatro è affidato solo alle parole».
Andiamo a tavola, lui ordina cose leggere e beve poco vino. Non fuma. Cosa direbbe Verlaine di un maudit che non bene e non fuma? Lo riconoscerebbe come erede spirituale?
Il fatto è che a dispetto della sua sete di vita e delle sue esperienze più o meno violente, quello che sta a cuore veramente a Pasolini è la rappresentazione artistica, attraverso le parole fino a ieri, e ora anche attraverso le immagini.
Il resto è tutta scena.
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