"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
PERCHÉ PASOLINI DISTURBA ANCORA?
Gianni D’Elia
L'Unità, martedì 5 giugno 2001
Riapriamola, se volete, questa polemica: culturale, non personale.
Mi chiedo quale sia davvero il motivo di tanta insofferenza di una parte consistente della critica letteraria verso la poesia di Pasolini. E anche verso quelli che, questa poesia, la sentono e la difendono.
Recentemente, un importante critico italiano (Pier Vincenzo Mengaldo, il cui silenzio sulla nostra generazione è tombale) ha voluto chiudere i rapporti con me, perché ho risposto a mio modo (da autore, facendo un discorso di poetica, più che di critica) alla demolizione in corso del Pasolini poeta: e non ingannino le lodi, di volta in volta, al teatro-cinema-critica... Sull’ultimo numero della rivista «Clan-Destino», ho dato dei «professori» a questi critici, che da anni parlano male della poesia pasoliniana. Non capisco perché non si riservi lo stesso trattamento di severità verso altri poeti, tuttora viventi e scriventi.
Chiedo scusa a Mengaldo, non volevo offendere, ma discutere. Una volta si diceva che il privato era politico, e anche una lettera ricevuta è un segno della cultura della città. In tanti anni di lavoro letterario, non ho mai ricevuto un rigo, da questo importante critico. L’unico biglietto che posseggo è questo che mi scomunica, perché ci sarebbe un’offesa: quel «professori», che ho impiegato, certo non visceralmente, per definire l’atteggiamento scolastico nei confronti delmai promosso Pasolini in versi. Sì, continuano a dare i voti, a fare i professori.
Eio preciso lamia critica: insisto a dire che si tratta di liquidazione «estetica», «idolatrico-linguistica », dell’arte poetica di Pasolini.
Ho capito la critica che, da Mengaldo a Sanguineti a Raboni ad altri, si rivolge a Pasolini: una critica che si vorrebbe etico-politica, ma che in realtà si dimostra soltanto estetica, addirittura estetistica, di gusto.
Dunque, mi rispondo che il vero motivo di questa insofferenza, è politica, con le stesse parole che Pasolini usa per definire (in Descrizioni di descrizioni, parlando del poeta Attilio Lolini) l’isolamento di Leopardi e del modello ginestresco:
«La scarsità del sentimento civile e
rivoluzionario dei letterati italiani,
la loro inettitudine all’entusiasmo
e all’amarezza, all’illusione e alla
rabbia».
Una volta, si diceva che nella letteratura, nella poesia perfino, si rispecchiavano modi diversi di leggere il mondo, la storia, le idee. Che c’erano le idee rivoluzionarie, e quelle reazionarie, anche nell’arte. Se riporto il discorso su Pasolini poeta, è perché non sarà indifferente il modo in cui lo leggeranno i più giovani. Già, perché se aprono un vecchio «Corriere» (1998) e leggono che «qualcuno continua perfino a credere che sia un grande poeta, Pasolini», aggiungendo che si tratta di una poesia «manierista » fin dai versi friulani (e che, dunque, non resta niente, neppure il poeta fino alla Religione del mio tempo, come in passato almeno si sanzionava), ecco che potrebbero stare a sentire solo la campana di Mengaldo, che è professore e critico emerito, ma su Pasolini poeta non ci prende proprio. E sono offese anche queste.
Certo, Pasolini (in versi) ha molti nemici anche nella neoavanguardia e postavanguardia da Facoltà, oltre che nelle tradizioni del Grande Stile novecentesco. E, in fondo, sono opzioni coincidenti, perché privilegiano il linguaggio su tutto il resto, il feticcio metrico o il metonimico informale, negando addirittura la piena artistica e la spinta sperimentale-esistenziale, nella pratica della contraddizione tra corpo e storia, istinti e ragione politica. Dico cioè che questa demolizione «estetica» di Pasolini è una demolizione politica, che tende a ignorare la novità del messaggio (non solo letterario) di Pasolini. Il rapporto rivoluzione-tradizione, in poesia come nell’ambito sociale, è stato uno dei nessi forti, che ci possono aiutare nella confusione di oggi.
Comunità e diversità sono stati i temi di Pasolini, anche nelle poesie. È grazie al suo canto, al suo messaggio così paradossale (tutto senso, ma, anche, tutto suono) che fa ingresso la storia della sinistra nella poesia italiana. Tra Gramsci e il sentire singolare, tra la ragione storica della liberazione e l’amore diverso, si instaura un dialogo, che è anche un dialogo e un appello al lettore e al cittadino: parlare in prima persona, dire che quello che si sente è centrale. Come è lontana la massima di Pasolini:
«Adulto, mai».
Oggi, invece, domina la retorica del padre, del figlio di famiglia, dell’anticonformismo del conformismo (ciò che mi allontana dal film di Moretti, che non ho ancora visto); una generazione filiale, la cui paternità non può essere che retorica, fa il paio con quei padri che non hanno voluto esserlo, negando l’eredità. Penso che noi (anni 50 e 60) non abbiamo avuto padri, ma patrigni; siamo stati figliastri, rifiutati e ignorati, non figli. Questo vale in politica, come in letteratura: italiana. Hanno fatto fuori due generazioni, tra il ’68 e ’77, e hanno dovuto dimostrare che, anche in poesia, non ne poteva venire nulla di buono. Credo sia un atteggiamento inconscio, da parte dei padri-patrigni, ma non meno carico di conseguenze. L’isolamento della poesia dalla cultura è totale. Domina, infatti, una critica stilistica molto bassa, che sui giornali diventa estetistica, ignorando i nodi storici e politici dei testi, la loro forza d’urto antiaccademica Guardate chi scrive di poesia: sono i poeti stessi, segno dell’isolamento critico della poesia italiana contemporanea, abbandonata a se stessa dalla critica specialistica (che è ancora petrarchistica, montaliana e tardosimbolistica, o vecchissimo-avanguardistica). Eper questo odia Pasolini, che è già oltre il Novecento; anche lui, come Leopardi, e prima ancora Dante, esule e figliastro non accetto dalla Città, non cittadino, giovane per sempre, maestro fraterno. E per questo il nostro maggior poeta del secondo Novecento, già nel 1963, aveva potuto dirne molto peggio: «Professori del ca.», in Progetto di opere future, che indica, appunto, un’antica rottura della poesia con la critica letteraria italiana.
Oppure, uno deve tradire, mettersi nella logica dei padri, diventare il massimo del conformismo (e allora verrà premiato, magari non in poesia, ma nel cinema: vedi il trionfo di Nanni Moretti, che, anche su Bertinotti, ha detto la cosa più banale, quella che tutti noi ci siamo tenuti dentro, perché troppo semplice). Siamo in piena restaurazione (di sinistra, con Moretti) che continua a dire cose di destra spacciandole per sinistra. Per cui abbiamo molto più bisogno di un sentire diverso che normale. E Pasolini vedeva e sentiva l’arrivo di un nuovo potere totale, che oggi è sotto gli occhi di tutti e ha la faccia del capo di Arcore. È da questo sentire, storico e singolare, che nasce il nuovo pensiero critico degli Scritti corsari, l’ideologia della mutazione antropologica, e cioè la visione dell’Italia consumistica ed edonistica dello sviluppo e dei delitti globali. In questo senso, Pasolini ha saputo ascoltare e parlare: è stato un grande ideologo (stranamente ignorato da Bobbio, nel suo Profilo del ’900) e poeta, anche in prosa. Esarebbe ora di finirla di fargli gli esami estetici, accettandone la carica artistica fenomenale.
Non c’è nessun poeta a lui coetaneo, in Italia, che sia stato poeta più di Pasolini, cioè più generoso, e anche geniale. Basterebbe, per negare a nostra volta la negazione accademica, prendere La poesia della tradizione (1971), che è uno dei testi più importanti per capire lo scacco culturale della generazione del ’68, la sua inettitudine alla poesia, al rapporto tra sentire e ideologia... A un ragazzo (1957) parla della memoria esistenziale dentro la storia, ed è uno dei più bei testi sulla delusione della Resistenza. Una disperata vitalità (1964) è un film-documento metrico sulla crisi della sinistra e di un poeta rivoluzionario, dentro il boom italiano. Le ceneri di Gramsci, La religione del mio tempo, tutte le poesie friulane, di gioia e di guerra, ci offrono la vera svolta (come fu per Leopardi) della poesia italiana antisimbolistica, che già aveva dato Saba e Penna. Il mio amico Bernard Simeone, poeta e traduttore eccellente di cose italiane, mi dice che in Francia è possibile amare Pasolini e Fortini allo stesso tempo, senza problemi. Sono due poeti diversi, ma dentro lo stesso rovello della contraddizione epocale. Poesia incivile, più che civile, allora. Poesia della non cittadinanza, che chiama alla cittadinanza per tutti gli esseri umani, nell’epoca dell’immane raccolta di merci.
Poesia non fine a se stessa. Quando saranno finiti gli esami, allora comincerà il tempo della poesia di Pasolini, così chiara, così necessaria, se confrontata con la crisi e l’incertezza di non pochi poeti del presente, critici e professori.
Gianni D’Elia
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