"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Banalità del potere
Se Pasolini non sfrutta il romanzesco del potere è anche perché gli interessa la sua banalità, la sua quotidianità, il suo rapporto con il costume, il suo essere intrecciato con la vita degli individui. Così infatti, dopo i “Lampi sull’Eni”, l’attenzione converge tutta sulla scena del ricevimento, nel salotto intellettuale della signora F.
Che cosa avviene dunque di tanto importante in questo salotto?
Avviene la collusione col potere.
La collusione di Carlo, che in questo salotto intellettuale va col “naturale desiderio di potere”, a cercare protettori (p. 88). E la collusione di tanti altri come lui, di molti intellettuali, alcuni dei quali sono descritti da Pasolini in modo che li si possa riconoscere. Moravia, per esempio: “un intellettuale da molti anni all’opera e quindi celebre”, dalle “foltissime barbariche sopracciglia”. Benché perfettamente estraneo, egli si trovava a suo agio nel salotto: “era lontano da lì, ma visto che era lì, accettava il gioco” (p. 122).
In questo salotto si può riconoscere Pasolini stesso(p. 123).
C’è poi un ministro. E un comunista del Comitato centrale del PCI…
Di un compagno di Carlo, quello che lo conduce al ricevimento, si dice:
Non avendo avuto i problemi di Carlo, egli era molto più avanti di lui in quella realizzazione di sé che si chiama carriera. Né il-lusioni né de-lusioni, lo avevano distolto da quella ‘lusione’, da quel costruire ‘ludico’ che non delude le attese: ed è in sostanza, se così posso continuare a esprimermi, col-lusione con chi gioca meglio e da più tempo: il potere (89).
Quindi senza il-lusione, né de-lusione, solo col-lusione con la lusione del potere.
Gioco e stare al gioco.
La collusione col potere è partecipazione al potere. Pasolini la chiama anche scienza italianistica (“si specializzava in quella particolare scienza italianistica che è la partecipazione al potere”, dice di Carlo, p. 33). Vuol dire una scienza tipicamente italiana, ma è evidente che allude anche alla ‘scienza’ dei letterati, dei suoi amici (Moravia), e di se stesso.
Incrocio tra potere e cultura. Cinismo inconsapevole nell’ambiente culturale di sinistra, che produce alleanza e patto al di sopra dei colori politici.
Certi uomini vengono stimati [...] al di là del loro colore politico: e poi, oltre un certo livello, le persone di valore e di successo sono unite fra loro da una certa equivalenza che si identifica – come in via allucinatoria, a causa dell’identità delle rispettive ‘strutture retoriche’ – con una specie di patto o di alleanza” (p. 111)
Parla anche dei legami tra intellettuali e pubblicità (“quasi considerato un genere letterario”, p. 111).
La banalità del potere è dunque questa collusione (innocente) col potere.
[Carlo] era perfettamente libero di desiderare il potere: sia pure un potere non detto, non nominato, definito solo empiricamente; sia pure senza vanità, e quasi quasi, verrebbe da dirlo, senza ambizione e con ascetismo. Si trattava certo di una libertà meravigliosa, che sterilizzava la colpa, rendeva inefficiente il male [...] e dotata di tale forza reale da consentire di rendere immune dalla curiosità della coscienza una parte dell’universo storico (p. 33)
Questa collusione innocente col potere permette il funzionamento del potere, anche di quello oscuro. Non si può tenere il segreto solo con l’omicidio o la minaccia di morte. E nemmeno bastano da soli gli intontimenti mediatici. Certo anche questi vengono usati. Ma anche la promessa di carriera. Ed è su questa naturalità del desiderio di potere che si innestano appunto quelle altre relazioni di potere, e anche le trame e il segreto.
Anche nell’articolo del “Corriere” (Il romanzo delle stragi) Pasolini convergeva verso questo nodo. Lì si parlava della collusione innocente del Partito Comunista Italiano che nei confronti di quel potere si comporta come uno stato nello stato, cioè con diplomazia.
Anche la banalità del potere è dunque un potere che non si vede. Non perché segreto, come quello delle trame, ma perché entra nelle formae mentis e nel comportamento quotidiano, producendo la sua stessa innocenza. Su questo Pasolini insiste molto in Petrolio.
La Signora F. aveva qualcosa di ‘superiore’ da perseguire. Le contraddizioni sia del fine che dei mezzi venivano lasciate in quello stato di particolare incoscienza che è la ragionevolezza (p. 111).
Soprattutto vi insiste riguardo a Carlo. Innocente vuol dire per Pasolini incosciente, nascosto in parte alla coscienza, ma non inconscio (egli esclude la psicoanalisi, come ogni altra psicologia del profondo: rifiuta anche questi occhiali per analizzare il potere). L’innocenza è piuttosto una specie di intontimento che rende invisibile la relazione di potere in cui si è presi. Così il potere può mettere a frutto le parti buone dell’individuo, ad esempio, nel caso di Carlo, una certa onestà cattolica – naturalmente intricata con l’ipocrisia, la quale favorisce quell’incoscienza, senza tuttavia rompere l’unità dell’individuo. Il potere infatti non provoca dissociazione, al contrario impone “l’ossessione dell’identità e la sua frantumazione”.
Carlo però a un certo punto si divide in due. Non ce la fa a salvare l’unità. Egli infatti non è “abbastanza intellettuale da poter vivere le contraddizioni sociali e politiche del nostro tempo attraverso quella coscienza che assicura l’unità dell’individuo, facendo dello stato schizoide uno stato naturale e dell’ambiguità un modo di essere”.
1.3 Sotto il segno del misto
Il potere agisce in un “terreno misto, suturale”.
Anche su questo Pasolini insiste molto. Il salotto della signora F., per esempio, sta sotto il “segno del Misto” (pp. 97-98). Esso si trova infatti
al punto di incrocio tra un universo e l‘altro, metà di qua e metà di là, metà in un dominio metà in un altro. E la sua ambiguità fonderà il senso della storia di Carlo e delle sue scelte (p. 106).
Sia Troya (leggi Cefis) sia Ernesto Bonocore (leggi Mattei) hanno fatto la Resistenza. Erano nella stessa brigata, che era una “formazione mista degasperiana e repubblicana”. Il commento di Pasolini è che “il misto cominciò subito, come si vede” (p. 96). Con ciò intende dire che più tardi, nella fase storica in cui si svolge la vicenda – nel momento in cui Carlo sta andando nel salotto della Signora F – la trasversalità del potere si sarebbe realizzata in forme più sinistre (stragi ecc.). Ma il meccanismo è lo stesso.
“Misto” indica dunque la trasversalità di quelle relazioni di potere, il fatto che esse attraversino diagonalmente le opposizioni, come destra e sinistra, fascisti e antifascisti.
‘Misto’ sta poi a indicare anche la sutura tra poteri (o mondi) che, in teoria, secondo i presupposti della democrazia, dovrebbero restare separati: per esempio tra il mondo della politica e il mondo dell’informazione:
C’era stato in quegli anni (in cui queste manovre non venivano ancora alla luce; erano considerate innocente comune amministrazione) un oscuro spostarsi di pedine in un settore importante per un organismo di potere, statale e insieme non statale: la stampa (p. 90).
‘Misto’ indica infine la trasversalità tra potere istituzionale e aziende private, la sutura tra interesse pubblico e interesso privato, di cui Troya-Cefis è appunto il campione.
Troya ha da sempre coerentemente istintivamente agito sotto il segno del misto. Non c’è mai reale soluzione di continuità tra ciò che è suo e ciò che è pubblico (p. 98)
Anche questo operare nel misto rende invisibile il potere, o per lo meno difficile da cogliersi attraverso le sole categorie oppositive come destra/sinistra, di cui fa uso abitualmente il discorso politico.
1.4 Capillarità del potere
Di solito, quando si pensa al potere in Pasolini, la prima parola che viene in mente è omologazione. La sua enunciazione più nota dice infatti che il Nuovo potere ha provocato una mutazione antropologica, distruggendo le culture preborghesi, contadine, uniformandole a uno standard piccolo-borghese e consumistico ecc. Da qui muovono sia i suoi apologeti (Pasolini profeta, che avrebbe predetto le mutazioni del tardo capitalismo), sia i suoi detrattori (Pasolini nostalgico del passato, nutrito del mito dell’innocenza delle culture popolari, affetto da “populismo estetico” – come ha ripetuto di recente anche Toni Negri).
Ma questa è la vulgata del pensiero di Pasolini. Perciò non ho voluto cominciare da qui. Ho preferito mettere prima altre cose sul tavolo, in modo da guadagnare lo spessore necessario ad affrontare l’argomento del “Nuovo potere”, senza cadere nelle solite semplificazioni.
In Petrolio anche questo potere entra in modo cospicuo, attraverso una lunga visione. Sono gli appunti intitolati “Visione del Merda”. Qui le stradine che si trovano all’incrocio tra via Torpignattara e la via Casilina si trasformano in una serie di gironi danteschi, in ognuno dei quali si rivela, alla vista di Carlo – come in una carrellata, come a un regista che riprenda la scena da sopra un carrello (da qui si potrebbe partire per parlare del rapporto tra Visione e cinema) – le modificazioni operate dal Nuovo potere.
In ognuno di questi gironi, dentro a una sorta di tabernacolo, sta il Modello, cioè uno stile di vita che viene imitato.
Tutto ciò viene di solito riassunto, sbrigativamente, nel concetto di “omologazione”. Ma secondo me questo fa capire ben poco. L’omologazione fotografa solamente, e comunque in maniera molto rozza, il risultato dell’ azione di questo potere, ma non ci dice nulla su come esso agisca. Quindi, in un certo senso, mentre lo nomina, ce lo rende anche invisibile. Lo fa sembrare un’azione di superficie, come una verniciatura, o una nevicata che imbianca e uniforma tutto ciò su cui si posa.
Invece la “novità” di questo Nuovo potere sta proprio nel tipo di azione che esso esercita sugli individui e nel livello che riesce a raggiungere. Esso raggiunge zone della vita che non erano mai state raggiunte prima, e con tanta efficacia e rapidità, da nessun’altra forma di potere. Penetra nelle zone più intime degli individui, nel loro modo di essere, nella loro ‘antropologia’, plasmandone i corpi, la gestualità, l’espressione.
Usando una parola che non è di Pasolini ma di Foucault (ma vale la pena ricordare che Foucault recensì Comizi d’amore, facendolo interagire con le proprie tematiche), potremmo dire che si tratta di relazioni di potere che agiscono microfisicamente sugli individui, investendo i loro corpi. Le notazioni di Pasolini sui mutamenti nel modo di vestire, di portare i capelli, di esprimersi, di sorridere colgono appunto un potere che disciplina i corpi.
Il fatto che questi modi accomunino grandi strati di persone, rendendole uniformi, è solo una spia di questo potere, e nemmeno la più importante. L’omologazione non è terribile in sé, ma per ciò che la rende possibile. Per omologare i corpi bisogna prima farli diventare corpi docili. Cioè sottrarre loro il peso. Amputarli di tutto ciò che in essi sta radicato altrove, fuori dal raggio di azione di questo potere, e che non è solo la tradizione o l’antica cultura contadina, ma anche la propria storia, la propria individualità (Peso è un parola che compare in Petrolio, lo vedremo tra poco).
Questo potere quindi non è repressivo ma, come direbbe Foucault, costruttivo. Esso forgia la vita, stilizzandola. Propone stili di vita da imitare. E con ciò costruisce individui, così come si coniano le monete. Entra, o cerca di entrare, negli strati più reconditi. Sottrae peso, semplifica, schematizza. Cioè toglie realtà.
Quindi, rendere visibile il potere in tutte le sue forme, dalle trame alla collusione, dalla sottrazione di peso alla stilizzazione dei corpi. Mostrare come esso penetri (e coinvolga) molte più cose di quelle che di solito vengono messe sul suo conto. Che la fenomenologia del potere è più ampia di quella che rivelano sia le sue descrizioni complottistiche, sia quelle economiciste, sia quelle mediatico-spettacolari. A rendere visibile il potere in tutti i suoi aspetti mirano appunto le Visioni.
Ma prima di aprire questa seconda porta, ci resta da dire qualcosa sui “vincoli puerili”.
1.5
Proviamo a fare qualche ipotesi. Una prima interpretazione di cosa volesse dire Pasolini con “vincoli puerili” potrebbe essere questa: la ribellione è illusoria. La prendo in considerazione, ma solo per escluderla.
Il verdetto, esplicito o implicito, di quasi tutto il pensiero critico novecentesco, dal pensiero negativo di Adorno a Debord, dai movimenti rivoluzionari all’esperienza delle avanguardie, è che l’opposizione al potere viene sempre in qualche modo rimangiata dal potere stesso. Se disubbidisci, ubbidisci. La trasgressione rafforza la legge. Lo scandalo viene normalizzato ecc. Questo è anche lo stigma della tarda modernità, che in Italia ha poi nutrito anche il cinismo della sinistra, l’arte di arrangiarsi nelle pieghe del potere ecc.
Pasolini conosce bene quel verdetto. In molti testi, anche saggistici, descrive con acutezza sia l’impasse dell’avanguardia, sia quella della prassi rivoluzionaria, e poi della contestazione giovanile. Ribellarsi al potere è stare al gioco del potere. E infatti, come il figlio che in Orgia non vuole uccidere il padre, o come il protagonista di Porcile che non va a Berlino a manifestare, così neanche Carlo II (cioè Carlo buono, o Karl) si ribella al potere repressivo dello stato (p. 43).
Ma questo non è il punto di arrivo di Pasolini. E’ semmai il punto di partenza, il nodo da cui riparte la sua attività artistica e saggistica nell’ultimo periodo della sua vita, che è forse il più fertile e più interessante per noi oggi, e che comprende anche Petrolio. La sua mossa consiste appunto nel rimettere in discussione quel verdetto pseudo-epocale, semplificante, apocalittico, e in definitiva inibente (la possibilità della ribellione, o della resistenza al potere, è qui addirittura liquidata come illusoria), cercando un’altra visione del potere, altri occhiali.
La visione del potere che c’è in Petrolio certamente non è rosea. E’ anzi cupa, mortale, violenta. Ma non è apocalittica, e nemmeno chiudente. Essa riporta in primo piano il conflitto, la lacerazione, nei corpi come nelle menti, e con essa anche la possibilità di resistenza. E’ quindi una visione aperta, spalancata sulla realtà totale e sull’alterità (mentre le descrizioni tardomoderne del potere si sono come mangiate l’alterità).
Una seconda interpretazione possibile è che con “vincoli puerili” Pasolini intendesse “passivi”, “privi di difesa” – come il corpo di Carlo che giace supino, privo di coscienza, mentre è Carlo stesso a vederlo, come dall’esterno:
Così Carlo osservava, ai suoi piedi, il proprio corpo supino [...] La totale passività di quella specie di giustiziato – fucilato o fatto morire di fame – che con l’immobilità obbediente del suo corpo, quasi con l’offerta di esso, con la sua disponibilità ciecamente passiva, quasi infantile – pareva approvare l’opera dei suoi carnefici – come i poveri corpicini degli ebrei a Dachau o a Mauthausen. L’ultimo atto logico era quell’offerta di sé, del corpo di piccolo borghese intellettuale, incapace di offendere e destinato a essere imbelle, a venir punito (p. 12).
C’è in Carlo, come ho detto, una volontà di non opporsi alla propria dissociazione. Egli non ce la fa ad accettare il compromesso, quel compromesso “a cui solo la specializzazione politica o letteraria presta gli alibi, le abilità, gli strumenti” (p. 30). Non è in grado, come invece altri intellettuali, di fare del proprio “stato schizoide uno stato naturale e dell’ambiguità un modo di essere”. Il che è già una resistenza al potere, anche se da vittima.
Una terza possibilità è che “puerili” significhi “immediati”. Questa interpretazione non è in contrasto con la precedente, ma solo una sua variante, attiva anziché passiva.
Prendiamo un esempio che non ha alcun rapporto con Petrolio: la pubblicità, sempre più invasiva, gigantografie, schermi televisivi nelle stazioni della metropolitana… I critici accademici della pubblicità ne hanno quasi sempre messo a fuoco il messaggio ideologico, i ‘comandi’ da essa veicolati ecc. Una sera, mentre aspettavo il metro, stanca e col mal di testa, non riuscivo a tollerare di essere obbligata a sentire degli spot. Non potevo nemmeno vedere il cosiddetto messaggio. Sentivo solo l’intrusione nelle orecchie. I critici della cultura, da Adorno a Zizek, non hanno parlato di questa invasione, non l’hanno messa a fuoco nelle loro sottilissime analisi, e in un certo senso l’hanno nascosta. Forse qualcuno prima o poi prenderà un sasso e romperà quel televisore nella stazione Cadorna di Milano. Come quello scettico che, davanti a un filosofo che stava sostenendo che il movimento non esiste, si alzò e si mise a camminare. Ecco, questo sarebbe un rapporto infantile col potere. Cioè senza mediazione, né di occhiali, né di schemi strategici, e quindi, stando alla logica della mediazione che ha guidato i movimenti rivoluzionari e le avanguardie del Novecento, un rapporto impotente, perdente.
Critiche di questo genere sono state spesso rivolte ai nuovi movimenti, ai no-global, alle azioni contro la guerra, e al carattere immediato delle loro lotte. “Non hanno una strategia!“– è stato detto. In realtà questi movimenti hanno un’altra visione del potere. Senza illusioni né delusioni, che poi finiscono in collusioni: senza le mediazioni degli schemi strategici che finiscono per nascondere l’azione reale del potere: quella che brucia direttamente sulla pelle, nel corpo, nella mente.
I movimenti rivoluzionari del secolo scorso hanno quasi sempre fatto ricorso alla mediazione di schemi strategici poggiati su ideologie. Quelli ispirati, ortodossamente o ereticamente, al marxismo, individuavano la contraddizione principale, o l’anello debole, formulando su di essi una strategia per il cambiamento futuro. Le avanguardie avevano la mediazione concettuale della poetica, del manifesto programmatico. Ma gli schemi strategici e le grandi narrazioni novecentesche oggi impallidiscono di fronte all’immediata percepibilità delle diseguaglianze mostruose, delle piaghe intollerabili aperte in ogni parte del mondo, dei treni che trasportano carri armati, delle devastazioni ambientali, dell’incipiente collasso del pianeta terra.
http://www.nazioneindiana.com/2003/10/07/quattro-porte-su-petrolio-2/
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Curatore, Bruno Esposito
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