"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Nico Naldini e la scelta del cinema di Pasolini.
Secondo una tesi affascinante (ma discutibile) di Nico Naldini la scelta del cinema, all’inizio degli anni Sessanta, da parte di Pasolini fu la naturale conseguenza di una crisi personale e soprattutto ideologica; in particolare, riferendosi ai tre progetti di romanzo che erano sul tavolo dello scrittore all’inizio del 1960 (Il Rio della grana, a completare la trilogia costituita dai due romanzi romani; La Mortaccia e Storia burina) Naldini dice: "Nessuno di questi tre abbozzi si svilupperà compiutamente in un romanzo e poche pagine di ciascuno compariranno in Alì dagli occhi azzurri. L’impedimento alla loro realizzazione è un intreccio di cause pratiche – tra cui l’impegno per la realizzazione del film [Accattone] – e di crisi personale e ideologica. La crisi del marxismo alla fine degli anni Cinquanta e l’avanzata della società neocapitalistica tolgono ogni vitalità a queste storie; le hanno fatte rapidamente invecchiare retrodatandole in un mondo non più riconoscibile. Le borgate, da luogo di vitale speranza politica, si sono trasformate in luoghi di violenza e disumanità. Di questo mondo rimangono le sopravvivenze fisionomiche e il cinema è appunto il nuovo mezzo espressivo per testimoniare le vecchie passioni. L’«istintivo passaggio» al cinema in questo modo si presenta anche come recupero del passato là dove è ancora possibile trovarlo."
Secondo Naldini, dunque, sin dall’inizio dell’attività registica il "disperato" e "sacrale amore per la realtà" del poeta di Tal còur di un frut per il mondo arcaico e contadino di Casarsa o dell’autore di Ragazzi di vita per le borgate preistorico-moderne della "città di Dio" era già stato profanato, e quindi sconsacrato, dal dilagare apparentemente inarrestabile dell’assolutismo neocapitalista. Il Friuli "di cà de l’aga" con i suoi paesaggi era ormai lontano, e così la "pura luce" della Resistenza e la "scoperta" prima del comunismo e poi di Marx avvenuta durante i giorni delle lotte contadine per l’attuazione del lodo De Gasperi. Giorni che saranno poi ricordati, fra l’altro, nel romanzo Il sogno di una cosa e in Poesia in forma di rosa:
"…Dio!, belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull’altra, in una folla di tela
Povera, rosseggiante, di un rosso vero,
che traspariva con la fulgida miseria
delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie
- e col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto
per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d’un immortale stagione"
Lontana era Casarsa fuggita assieme alla madre, "come in un romanzo", nel gennaio del 1950, a seguito dello scandalo di Ramuscello, ma lontana sarebbe stata anche, sempre secondo Naldini, la città scoperta all’alba di quel decennio fondamentale nella carriera dell’artista, che "povero come un gatto del Colosseo", un disperato "di quelli che finiscono suicidi" si aggirava per Roma, le sue borgate:
" …dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti"
Quella Roma millenaria e modernissima, imperiale e barocca, che divenne ben presto il centro assoluto dell’universo esistenziale e poetico di Pasolini, proiettando sempre più sullo sfondo della memoria il Friuli contadino:
"Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,
le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre,…"
"Ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali."
Passati e come appartenenti ad un'altra epoca sarebbero stati anche i "viventi", i protagonisti dei racconti e dei romanzi romani: gli "aristocratici" abitanti di Trastevere, i borgatari dei quartieri creati nella periferia in seguito agli sventramenti fascisti degli anni Trenta, ma soprattutto i sottoproletari delle baracche all’estrema periferia romana, immigrati da poco dal Sud e mescolati, con la loro cultura mitico-ancestrale di contadini, al mondo drammatico e spietato della Grande Città. Per Pasolini gli abitanti della capitale del cattolicesimo erano in realtà pagani, toccati dal Cristianesimo solo superficialmente (nelle pratiche rituali e superstiziose) avevano piuttosto una filosofia cinico-stoica, sopravvissuta a diciassette secoli d'evangelizzazione, e una morale basata sull’onore invece che sulla Pietas cristiana - tipica invece degli alti-italiani come il poeta di Casarsa - vivevano in un mondo parallelo e toccato solo marginalmente dal mondo borghese. Anzi, forti della loro cultura antica e sempre viva – ne è testimone la vivacità del dialetto-gergo che continuamente mutava e si rinnovava – disprezzavano come inetti i "signorini", i "farlocchi", i "figli di papà".
Sempre in Squarci di notti romane Pasolini scriveva:
"Questa Roma non del 1950 ma dell’ultimo istante, dell’ultimo vaffanculo gridato dal ragazzo che passa per il lungotevere infebbrato con la camicia bianca già sbottonata – questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla… tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda, al modo di dire nato la sera stessa, al mutamento di tono, leggerissimo ma bruciante già d’una nostalgia ossessiva, nel gridare una frase che il dialetto presenta da qualche secolo come impossibilitata a qualsiasi mutamento…"
Questa città e i suoi abitanti già all’inizio degli anni Sessanta, dunque, avrebbero incominciato a corrompersi profondamente dal di dentro, rimanendo se stessi solo nell’immagine, nelle fisionomie dei vicoli e dei visi, perdendo man mano l’originalità del loro linguaggio verbale per mantenere solamente il linguaggio del corpo. Per effetto di questa corruzione, rappresentabile emblematicamente dall’inurbamento delle famiglie delle baraccopoli nei palazzi-lager dell’ina-case, nei sottoproletari romani scompaiono, come in un precipitato chimico, gli elementi "non assimilabili" che costituivano la loro diversità – e, secondo Pasolini, la loro salvezza – e rimangono solamente i corpi muti, uniche testimonianze veritiere di un passato non recuperabile. Quindi la scelta del medium cinematografico da parte di Pasolini sarebbe stata indotta quasi forzatamente da questo mutamento, anche se recepito inconsciamente, dell’oggetto poetico, che avrebbe avuto nell’immagine l’unica possibilità di essere espresso e mantenuto in vita; Franco Citti, Ettore Garofalo avrebbero dunque offerto in Accattone e in Mamma Roma non il loro essere sottoproletario e vivente nella sua interezza, ma unicamente il loro apparire, il puro segno visivo, magari riscattato esteticamente dalla citazione o ispirazione dotta - il Ragazzo con canestro di frutta di Caravaggio, Masaccio, ecc. - perché il loro vissuto era ormai diventato altro rispetto a quello della generazione precedente, o anche di solo quattro o cinque anni prima, che era scomparso o stava morendo di fronte alla violenza dell’offensiva del mondo nuovo.
Qui sta il fascino della tesi di Naldini, ma, secondo me, anche il suo limite.
Il fascino maggiore di quest'opinione sta nel rispondere ad una domanda comune sull’opera pasoliniana - cioè per quale ragione Pasolini abbia incominciato a fare cinema - in maniera originale e suggestiva, annettendo alle motivazioni artistiche e poetiche anche una componente ideologica: la constatazione della metamorfosi sociale in atto. Ma l’errore di questa affermazione sta nel considerare sincronici i vari momenti della maturazione del pensiero pasoliniano; si potrebbe dire che Naldini guardi al Pasolini dei primi anni Sessanta attraverso gli occhi del Pasolini degli anni del Caos, o addirittura al Pasolini "corsaro" e "luterano" degli anni Settanta; in altre parole dà come compresenti quegli elementi di critica sociale e politica che caratterizzeranno invece affermazioni posteriori come quelle dell’Articolo delle lucciole o «Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio». Basta prendere in mano un brano qualsiasi del dialogo con i lettori che Pasolini intrattenne sul settimanale "Vie Nuove" dal 1960 al 1965 per rendersi conto che, nonostante il distacco progressivo degli ultimi anni, credeva ancora nella "purezza" e nella "santità" del proletariato, nella fattispecie proletariato comunista, e dunque poteva ancora amarlo:
"Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui…"
Questo non vuol dire che Pasolini ignorasse i mutamenti che stava subendo il mondo che amava; il boom economico cominciava, in Italia, la sua fase di assestamento e l’emigrazione nel Meridione stava spopolando interi paesi, e alla desertificazione demografica si affiancava quella culturale. Anche i paesi del Terzo Mondo liberandosi in quegli anni dal colonialismo diventavano "paesi in via di sviluppo" scegliendo l’opzione industriale. Coevi ai precedenti, dunque, sono questi versi:
"Ché io,
del Nuovo Corso della Storia
- di cui non so nulla – come
un non addetto ai lavori, un
ritardatario lasciato fuori per sempre -
un sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea di uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro, …"
oppure:
"… Non sapete?Proprio
insieme al Barocco del Neo-Capitalismo
incomincia la Nuova Preistoria"
Ma è proprio nell’ambiguità del concetto di "Nuova Preistoria" che il Pasolini dei primi anni Sessanta si differenzia da quello posteriore, questa "Nuova Preistoria" non è ancora, o non lo è del tutto, il mondo senza storia dell’entropia borghese ma è il mondo nuovo successivo alla deflagrazione terzomondiale. Nella Ricotta Orson Wells citando Pasolini recita:
"…O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta…"
ma soprattutto nella Profezia di Alì dagli occhi azzurri Pasolini diceva:
"…deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri
usciranno da sotto la terra per uccidere
usciranno dal fondo del mare per aggredire
scenderanno dall’alto del cielo per derubare
e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…"
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…"
In un’intervista del 1967 Pasolini ormai affermava:
"Ebbene la realtà che prima mi interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiando rapidamente, non lo riconosco più. Il sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva una realtà storica, oggi sta diventando una frazione del Terzo Mondo."
Ma questo è solo l’inizio di un processo e, d’altra parte, l’intervista appartiene ad un periodo conseguente nell’itinerario pasoliniano di "presa di coscienza".
Riassumendo si potrebbe dire che nei primi anni Sessanta era ancora viva in Pasolini l’illusione, perché poi si rivelerà tale, di una possibile salvezza palingenetica, per quanto contraddetta e lontana da essere postulata dogmaticamente, proveniente dai "Regni della Fame" verso l’occidente civilizzato; l’amore per il corpo è ancora amore "per il mondo che c’è" [e non "c’era"] in esso. Questo sogno palingenetico e questo amore degno di "una forza del passato" era chiaramente eterodosso rispetto al pensiero marxista tradizionale, di fronte alla cui istituzionalità Pasolini aveva da sempre avuto un atteggiamento critico e complesso, come nei famosissimi versi delle Ceneri di Gramsci:
"Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;"
Ma, d’altro canto, pur avendo acuito all’inizio del decennio la propri eterodossia arrivando a rinnegare parte della sua precedente attività culturale – è di quegli anni il grido: "ABIURO DAL RIDICOLO DECENNIO!"(riferendosi agli anni Cinquanta) di Poesia in forma di rosa – Pasolini rifiutò sin dai primi momenti la parola d’ordine del "disimpegno" che caratterizzava, in ambito culturale, gli anni del boom economico e della crisi delle ideologie. In particolare Pasolini si schierò decisamente contro la cosiddetta "neoavanguardia", raccolta in Italia principalmente attorno al Gruppo ’63, la quale rifiutava l’ideologia come chiave interpretativa della realtà e si proponeva di superare la letteratura degli anni Cinquanta negandone le strutture classiche e, rifacendosi alle avanguardie storiche, demistificando, attraverso la sperimentazione, il linguaggio tradizionale che, in un periodo di mercificazione letteraria e di riproducibilità tecnica, era divenuto irrimediabilmente logoro ed incapace di farsi portatore di significati. In qualità di esponente di punta della cultura del decennio precedente e in quanto erede della tradizione "umanista", Pasolini era direttamente coinvolto in questa "iconoclastia desacralizzante", ma oltre a questo coinvolgimento personale l’autore di Una vita violenta accusava i neoavanguardisti della svalutazione, in campo letterario, della cultura precedente, classica e più recente, e dell’accettazione-integrazione, attuata con "cinismo ed eleganza", dei nuovi valori, pur se ancora indefiniti, della tecnica e dell’industria culturale, in altre parole quelli del neocapitalismo.
Dunque già nei primi anni Sessanta Pasolini avvertiva la mutazione che stava subendo il capitalismo classico e ne rifiutava, da intellettuale marxista ancora "impegnato" le nuove idee e le nuove sirene.
di
Fabio
Frangini
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