"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Piovene o Delfini?
La polemica tra Pier Paolo Pasolini e Renato Guttuso
in occasione del Premio Viareggio 1963
Dalle pagine Dell'Unità agosto/settembre 1963
Il fatto:
Nel 1963, la candidatura al premio Viareggio, di Guido Piovene suscito forti critiche, legate ai suoi trascorsi fascisti negli anni Trenta. Olivetti, finanziatore del premio che aveva radici e sensibilità profondamente connesse alla memoria ebraica e all’impegno antifascista, manifestò la propria contrarietà all’assegnazione del riconoscimento.
Questa posizione non si tradusse in un comunicato ufficiale, ma si espresse come atteggiamento diffuso tra gli intellettuali vicini all’impresa culturale olivettiana (pressione). Per loro, il premio a Piovene rappresentava un gesto di rimozione della responsabilità storica, un tentativo di normalizzare figure compromesse con il regime fascista all’interno del panorama letterario italiano. Mentre altri intellettuali, videro nella presa di posizione olivettiana, un'interferenza inaccettabile nella libertà di giudizio.
De Benedetti
su un art. apparso su L'Unità del 25 agosto 1963
dice:
"Il mecenate Olivetti ha certamente ecceduto. Le sue ragioni sono tuttavia, apprezzabili. anche sc si e giunti all'eccesso opposto e cioè alia restrizione della libertà dei giudici. La giuria ha reagito in parte, perchè ha votato contro il veto per Piovene. Comunque gli altri, quelli che hanno votato per Delfini, potrebbero essere stati indotti ciò perchè spaventati"
"II mio giudizio sarà espresso nella relazione finale. Apprezzo i sentimenti di Olivetti fondati su una esperienza affettiva considerando pero inammissibile questa interferenza nella giuria. La politica, ha continualo, è stata certamente nociva al premio anche se la giuria ha deciso al di fuori di ogni pressione: in liberta. Su Delfini posso dire che era il migliore autore e che il suo libro sarebbe stato scelto anche senza la polemica con Olivetti. Comunque' se non fosse stato premiato lui sarebbe stato premiato Piovene: non ci sarebbe stato qualcun altro"
"I racconti di Delfini sono un'opera meravigliosa. Io l'ho portato nel Premio Viareggio e mi sono battuto per lui a spada tratta. Sulla questione Olivetti-Piovene posso dire che hanno torto tutti e due: io comunque sono contrario ad ogni forma di fascismo ed antisemitismo e nel caso specifico non potevo sostenere Piovene per le ragioni che tutti conoscono. Resta il fatto. in definitiva. che questi premi . procurano solo delle grosse arrabbiature e non so ancora se l'anno prossimo avrò intenzione di arrabbiarmi come quest'anno".
Renato Guttuso
((L'Unità, 31 agosto 1963)
Caro Direttore,
permettimi di intervenire, da lettore, a proposito del triste spettacolo di costume offerto dal premio Viareggio. Quali che fossero le opinioni dei giudici, ed è logico e giusto che fossero contrastanti sui vari libri in discussione, ritengo che essi dovevano dimettersi subito appena avuto notizia della interferenza del finanziatore del premio.
Mi dispiace dover dire che il primo a dimettersi doveva essere Bigiaretti, e naturalmente non sollevo ombra di dubbio sulla sua sincerità di giudizio, proprio per il fatto che egli lavora alla Olivetti. E tanto più se la sua opinione era contraria al libro di Piovene.
La coincidenza della opposizione a Piovene tra lo scrittore e l’opinione del suo datore di lavoro, opinione che era stata espressa prima che fossero conclusi i lavori della giuria, avrebbe dovuto consigliarsi di sacrificarsi, per primo.
Le dimissioni, a cose fatte, non servono a nulla. Ne soffre la memoria di Delfini, ne soffre la vita culturale italiana, ed il premio Viareggio, in ogni modo, agonizza. Vorrei aggiungere che il premio postumo a Delfini è di assai scarso significato. Non so che peso abbia, nell’attuale momento, carico di nuovi problemi, la indicazione del pur bel libro di Delfini, che caso mai il Viareggio ha il torto di non aver premiato in vita (se non sbaglio c’era già il premio Viareggio quando uscì il Fanalino). Delfini è uno scrittore che appartiene al clima fiorentino degli anni trenta, e cioè ad una vicenda culturale assai nobile, ma ormai estranea ai problemi letterari di oggi, e, francamente, ritengo estranea agli interessi artistici di scrittori come Moravia o come Pasolini (che è, caso mai, un anti-Delfini, ma è assai più di questo).
Quanto al caso di Guido Piovene non sta a me dare un giudizio critico sul suo libro. Personalmente, da comune lettore, trovo Le Furie uno dei migliori libri usciti in questi anni; inoltre, e contrariamente ad alcune opinioni espresse in questa triste occasione, non credo sia giusto dire che il Piovene è più saggista che scrittore; Piovene è scrittore anche quando si occupa di saggistica (e il recente suo scritto su Saba ne è prova evidente).
Ma questa è una dichiarazione il cui valore è del tutto personale e privato. Desidero soprattutto dichiarare che ritengo che la campagna contro Piovene una delle più assurde e meschine cui ci sia stato dato di assistere. Campagna qualunquistica che proprio per il suo carattere ha potuto coinvolgere anche gente di buona fede. Piovene ha fatto degli errori, ma non certo più gravi di quelli di altri scrittori. Uno dei grandi poeti italiani, Cardarelli, ha scritto una poesia intitolata "Camicia nera" e molti filosofi e scrittori e critici si sono impegnati in saggi (“saggi” e non articoli di giornali, recensioni di terza pagina, corrispondenze) sul razzismo, sul fascismo, sulla persona di Mussolini, gli hanno dedicato poemi e quadri e sinfonie.
Non dico questo per accusare nessuno. Sono d'opinione che un libro sugli intellettuali italiani sotto il fascismo sia ancora da scrivere, non sulla base di una "caccia alle streghe" al rovescio, ma dell'analisi di una società, delle sue radici culturali e storiche e dei suoi sviluppi.
Inoltre anzichè dare la caccia al fascista di ieri, penso che sarebbe assai più utile e giusto e necessario alla vita della nostra democrazia individuare e combattere i fascisti di oggi, quale che sia la loro tintura politica.
C'è bisogno di ricordare agli italiani il caso Bontempelli? Vissuto in condizione di confino, gli ultimi cinque o sei anni del fascismo, considerato pericoloso da avvicinare per il suo aperto antifascismo, fu estromesso dal Senato della Repubblica, per essere stato accademico d'Italia. E non importò che in quello stesso Parlamento potessero sedere dei veri e propri esponenti del fascismo di Salò.
Dei suoi errori Piovene ha fatta una analisi autocritica fin troppo feroce, con una lealtà che rasenta il masochismo ma che merita il rispetto anche di coloro che non fossero rimasti convinti dai suoi argomenti.
E' da aggiungere che da parecchi anni Piovene è schierato nel campo democratico più avanzato, ed agisce di conseguenza. Ma è forse proprio in questo fatto che va individuata la ragione più profonda dell'accanimento contro di lui.
In questa occasione, mi rincresce doverlo dire, il gesto di tipo fascista è stato fatto dal finanziatore, che fascista non è, ma che obbedendo ad una moralità del rancore, si è fatto strumento di una campagna forse artificialmente alimentata da interessati (molti dei quali sono altrettanto nemici di Olivetti che di Piovene), e ci ha fatto così sapere che, dopo tutto, chi mette i soldi ha la sua parola da dire, anche se professa la religione della libertà.
E i fatti, quali che siano i problemi di coscienza e di giudizio dei giudici, lo hanno confermato.
Fraterni saluti,
RENATO GUTTUSO
Pier Paolo Pasolini
(L'Unità, 4 settembre 1963)
“Caro Renato,
ecco cosa succede a non essere abbastanza rigorosi, rigorosi fino alla sgradevolezza, come bisogna essere: hai scritto all’‘Unità’ una lettera di sapore quasi staliniano. Te lo dico con lo sgradevole rigore di un compagno di lotta e di un fraterno amico. Il fondo del tuo discorso è, come poteva essere negli anni quaranta o cinquanta, “tattico”, tale da presentarsi poi, quasi ingenuamente come atto di salvaguardia di un simpatizzante del Partito, qual è Piovene: e questo ti porta: 1) a perdonare troppo sbrigativamente a Piovene il suo passato (Piovene non è stato fascista, lo so: la sua è stata una adesione nevrotica, con gli eccessi e le ossessioni che ciò implica; e ciò lo comprendo e lo giustifico come te; e gli sono amico; ma in sede pubblica ci penserei un momento prima di perdonare; perché in sede pubblica tutto si fa elementare, meccanico e senza sottigliezze); 2) a perdonare altrettanto sbrigativamente tutti coloro che come Piovene hanno sbagliato; e molti non lo meritano, né pubblicamente né privatamente; e ha ragione Arbasino, allora, a imperversare contro di loro, con bile non meno nevrotica di quella loro antica debolezza giovanile, ma comunque da preferirsi al generale “abbracciamoci” molto qualunquista – scusami – che tu sembri implicare; 3) a contraddirti stranamente sul giudizio sopra Delfini e Bontempelli: ma come! tu circoscrivi Delfini alla culturetta degli anni Trenta, con ciò dannandolo per sempre, e ne togli invece Bontempelli, che c'è immerso fino agli occhi, pur di prevaricare sull'ingiustizia atroce che gli è stata fatta: in realtà Bontempelli - malgrado quell'ingiustizia subita - è uno scrittore soltanto letterato, e quindi legato senza speranza a un'epoca; Delfini invece - come Penna, mettiamo - è un poeta vero, e come tale assolutamente libero dalla sua epoca, malgrado le tante tracce che essa lascia su di lui esplicitamente. Anzi, ti dirò di più: se tu vuoi far precipitare nel nulla un testo medio ermetico o novecentesco, come in una reazione chimica, otterrai l'effetto molto più facilmente confrontandogli una pagina di Delfini (o di Penna, mettiamo), che confrontandogli una pagina del dopoguerra neorealistico, o del revival sperimentalistico attuale (del neocapitalismo). Perché finalmente, entriamo nel merito: e tu fai malissimo, a non crederci, come non vogliono crederci i giornalisti, per cui mostrarsi furbi fa parte del mestiere: entriamo nel merito, perché rientriamo nell'ambito letterario, da cui Moravia e io, non ci siamo mai mossi, fin dal principio della discussione.
Il libro di Delfini è splendido (rileggilo!): e io, lo sai bene, non sono di quelli che si sono assunti l'incarico di fare le Vestali della Poesia: perciò quando dico poesia, non sono crociano, ma marxista. Tu non fermarti alle apparenze di Delfini, leggi bene nella sua amarezza, nella sua smania infeconda, nella sua fatica a raggiungere quella grazia che in realtà era sempre in lui... È stato detto che Delfini è stato un ripiego: idioti! Io ho scelto Delfini ben prima di tutte le polemiche, solo, girando come un matto per la tua Sicilia così lontana dalla letteratura continentale. Un mese fa Delfini era sconosciuto, ora si sa chi è. E spero che anche tu, uomo così onesto, lo rilegga. Quanto al libro di Piovene è un libro fallito: e Piovene lo sa, ma, nella tortuosità - che io ben conosco, per affinità elettive - del suo narcisismo, rovescia la situazione, e fa passare il fallimento per un fatto vitale: ma è proprio questa operazione che non gli riesce: i frammenti del romanzo fallito e recuperato dentro la flebile cornice della passeggiata vicentina, sono tirati a lucido, rifiniti, chiusi: non legano col quadro magmatico in cui Piovene vuol ripresentarsi la propria vita; per conto loro i pezzi visionari da raptus nel grande sogno profetico del mondo non legano con le pagine di supervisione moralistica (ma da giornale o da rivista letteraria) con cui l'autore interviene come protagonista.
Che il romanzo in quanto «romanzo fallito» sia un pretesto, per usufruire di lavori incompiuti, è spiato chiaramente dalla «facilitazione» che Piovene ottiene sempre nella materia prima dell'elaborazione stilistica. Per cui ci sono molti pezzi abili, da autentico scrittore, ma non c'è mai il vero stilismo, ossia il rischio totale sull'orlo del ridicolo, o del tremendo, o del troppo nuovo. Piovene è sempre prudente: se si abbandona, si abbandona soltanto là dov'è dominatore, i pezzi «moralistici» un po' correnti, da giornale, ripeto: non si abbandona mai là dove la sua visione può comprometterlo e richiede una pazienza talvolta insopportabile. Un romanzo come le Furie doveva essere di puro stile: e per arrivare a questo Piovene doveva lavorarci almeno tre o quattro anni di più. Allora le sei o sette pagine sulla guerra di Spagna non sarebbero state un'eccezione. Oppure, in un'altra direzione stilistica, quella dell'altissima mistificazione, sotto il cui segno era nato il romanzo (e, ahimè, non ha saputo restarci) una figura splendida come quella di Angela (una ricreazione narcissica dell'autore, nell'ebetudine della religione; in una visionaria polemica contro il cattolicesimo dal fondo più profondo del cattolicesimo), essa pure non sarebbe stata un'eccezione.
Se il romanzo di Piovene fosse stato quello che avrebbe dovuto essere, io avrei votato per lui, con vera gioia (che cosa vuoi che me ne importi a me dei desiderata di Olivetti! non l'ho mai conosciuto e neanche visto; - ciò che non esclude il mio massimo rispetto per i suoi traumi di ebreo - su cui tu troppo sbrigativamente sorvoli, pretendendo da lui un atteggiamento razionale che chi ha sofferto quello che ha sofferto lui non può rigorosamente avere; e che cosa vuoi che me ne importi di Mondadori, la cui passione peraltro, oltre che commerciale, a dirti la verità, mi par anche sincera, come di chi crede realmente e quasi ingenuamente nel suo prodotto; e infine che cosa vuoi che mi importi delle illazioni della gente e dei giornali; il mio giudizio è stato assolutamente libero: «da lungo tempo appresi ad esser forte»...).
Un abbraccio dal tuo
Pier Paolo Pasolini
Renato Guttuso
((L'Unità, 4 settembre 1963)
Caro Bigiaretti e caro Pasolini,
vorrei ribadire prima di tutto che la mia lettera sul “premio Viareggio” era solo l’espressione della mia opinione di lettore e niente di più. Ringrazio perciò Bigiaretti di non aver visto nella mia lettera alcuna animosità. Non mettevo in dubbio, in quella mia lettera, la libertà di giudizio di Bigiaretti, facevo solo presente come non basti, in una situazione come quella creatasi al premio Viareggio dire “io giudico secondo coscienza e vado per la mia strada, anche se essa può sembrare ambigua”.
Perché mai, in tal caso, le dimissioni “dopo”?
Quanto alla lettera che mi indirizza Pasolini tramite “l’Unità” avrei molte cose da dire, sia per le inesattezze di interpretazione del mio pensiero, sia per le accuse di tatticismo e di stalinismo che mi muove.
Tattica
L’accusa di stalinismo, che Pasolini assimila al tatticismo (benché stalinismo significhi tante altre cose, in male, ma anche in bene, e tra queste anche “comunismo”) ha poco fondamento.
Piovene è un intellettuale non comunista che vota per noi, così come votano per noi Pasolini e tanti altri non iscritti al Partito, anche non marxisti. Perché scegliere Piovene e non tacere “tatticamente” su una vicenda su cui anche gran parte della “sinistra” italiana si è accanita con furore? “Tattico” (Pasolini direbbe: stalinista) sarebbe stato tacere. È noto che contro Piovene sono in molti e a difenderlo, in pochi. Che razza di “tattica” sarebbe mai questa? Pasolini parla di abbracci qualunquistici, di sbrigativi perdoni, possibili in “sede privata” e non in “sede pubblica”. Me ne dispiace: egli sa che non di questo si tratta, ma di valutazioni che possano essere fatte solo in seguito ad una seria analisi del comportamento degli intellettuali italiani sotto il fascismo, delle ragioni storiche e sociali di tale comportamento, della situazione della cultura italiana anche prima del fascismo, dell’influenza di una determinata formazione, dell’azione di alcuni gruppi, delle riviste letterarie, e così via.
Da questa analisi si potrebbero trarre anche valutazioni comparate, e non limitarsi a scegliere una o più teste di turco su cui riversare gli effetti dei propri umori, o anche della propria “buona ragione”.
Debbo dire, poi, a Pasolini che egli deve aver letto in fretta la mia lettera se ha potuto travisare, come fa, la mia citazione di Bontempelli. Forse non sarò scrittore sufficientemente chiaro, ma questo punto si capiva.
Con evidente chiarezza io non paragonavo Bontempelli a Delfini, ma ne citavo “il caso”. Un caso di “caccia alle streghe”, di persecuzione, da avvicinare alla persecuzione contro Piovene. Nessun paragone letterario né con Delfini, né con Piovene. Perché Pasolini vuol considerarmi tanto duro d’orecchi da ritenere che Bontempelli è più “attuale” di Delfini?
Su Delfini io non ho espresso alcuna condanna.
Egli resta l’ottimo scrittore che sappiamo, ed io lo so forse da più tempo che Pasolini (Pier Paolo mi scuserà, solo perché sono più vecchio). Ho detto solo che un premio postumo a Delfini, a proposito di un libro nato, quasi interamente, da più lustri, mi sembra di scarso significato.
Un premio postumo si spiega solo quando ci si trovi di fronte ad un artista sconosciuto in vita, la cui voce è necessario riproporre all’attenzione del pubblico per particolari ragioni culturali; come fu per Gramsci.
Neppure è sufficiente affermare come fanno sia Bigiaretti che Pasolini, che Delfini è un “vero poeta”, un “artista autentico” e che perciò è “libero dalla sua epoca” ed il suo valore “non è contingente”. Pasolini si muove nell’ambito del marxismo e sa bene che il valore astorico e atemporale della poesia è vero “per una certa parte” e non vero (idealisticamente, crocianamente anzi) in assoluto.
D’altro canto, un premio letterario “annuale” non può mettere in gara tutti gli “artisti autentici” degli ultimi venti anni. Nelle sue scelte non può non esserci un punto di riferimento all’attualità, a pressanti ragioni di lotta culturale.
Io non sono, caro Pier Paolo, un critico letterario. I problemi letterari li vedo in connessione a quelli della pittura.
Credo che nell’attuale dibattito, che non è solo giornalistico o contingente, ma va assai più in fondo (molto in fondo), la lotta culturale contro lo sperimentalismo, o il Nouveau Roman, così come contro la pittura gestuale, l’informale, l’anti-informale, la pop art ecc., non si possa condurre sotto la bandiera di Delfini, così come non si può condurre credo sotto la bandiera di un de Pisis e neppure di un Licini. E spero che adesso non penserai che io disprezzi o condanni questi due artisti i quali sono anzi per me “veri poeti”, “artisti autentici”, così come, anche per me, è Delfini.
Riconfermo la mia opinione che proprio per quella distinzione che tu stesso fai tra “sede pubblica”, e scelte personali, in una situazione come quella creatasi al premio Viareggio, vi sareste dovuti dimettere subito. Io, personalmente, avrei fatto così. Quanto al risentimento di Olivetti, come ebreo, io non lo contesto. So però, che ebrei che hanno sofferto più di Olivetti, che non hanno potuto né produrre né guadagnare (né passeggiare per le strade liberamente), come Carlo Levi o come Terracini, o come Sereni, hanno valutato il caso Piovene con più serenità.
Per concludere, caro Pier Paolo, debbo ripetere che io non ho messo mai in dubbio la tua libertà di giudizio, e tanto meno potrei farlo dopo la tua brillante disamina critica delle Furie. Non ho mai pensato che tu ti fossi piegato a pressioni interne sia di Olivetti che di altri. Ho avanzato l’opinione secondo la quale non mi sembrava di riscontrare affinità intellettuali tra te e Delfini. Tu mi dici che mi sono sbagliato e va bene.
Persecuzione
Quanto alla questione generale resto della mia opinione: è stato un triste Premio Viareggio e non so quanto abbia giovato a Delfini, alla sua opera, uscire vincitore da una cosi bastarda situazione.
Tu sai, caro Pier Paolo, di persona, che cosa significhi una persecuzione, e come facili accuse possano correre di bocca in bocca e essere accettate, anche da gente in buona fede, senza il vaglio rigoroso della ragione, senza la valutazione serena dei fatti, per conformismo.
Contro la persecuzione irrazionale, contro le valutazioni affrettate e per sentito dire, contro i giudizi non comparati, non immersi in un giudizio generale derivante da una analisi, contro il qualunquismo, mi troverò sempre schierato.
Ciò non vuol dire «embrassons-nous», e neppure vuol dire «tatticismo stalinista». Vuol dire, secondo me, agire da uomini e da comunisti.
Renato Guttuso
La dissacrazione e la grazia
Pier Paolo Pasolini
(commemorazione organizzata dal Comune di Modena,
il 27 ottobre 1963, in onore di Antonio Delfini)
Nella goffaggine di Delfini c’era sempre qualcosa di virgineo: egli dissacrava un intero modo di vivere, ma appunto perché la sua dissacrazione era cosi totale egli sentiva il bisogno di vergognarsene.
Mi fanno ridere coloro che dicono che Delfini appartiene al Novecento letterario italiano, con tutto ciò che di politicamente impuro esso comporta.
Egli è lo scrittore aggraziato per definizione, ma mai grazia costò sacrifici così grandi. Egli ha dovuto difenderla con le unghie e contro tutti i suoi contrari, che in letteratura sono molti.
Delfini ha perseguito per tutta la vita un ideale che possiamo chiamare, malvolentieri, sacro. Questo ideale sacro però consisteva in una fondamentale dissacrazione di tutto. Perciò egli era condannato alla goffaggine del pudore: come succede spesse volte, coloro che sono investiti di uffici sacrali ne provano una specie di vergogna. Nella goffaggine di Delfini c’era sempre qualcosa di virgineo: egli dissacrava un intero modo di vivere, ma appunto perché la sua dissacrazione era cosi totale egli sentiva il bisogno di vergognarsene.
Non soltanto, ma sentiva il bisogno di un alibi, che consisteva per lui, oltre che in una serie di falsi miti – l’irregolarità, l’aristocraticità, la provincia ecc. –, nel mito fondamentale del culto del passato, che in lui era totalmente originale, poiché chi ha l’abitudine e la vocazione di dissacrare sa che è soprattutto sul passato, quale fonte delle istituzioni, che bisogna compiere una tale operazione. In questo passato, reso tuttavia perfettamente laico, non c’erano che gli dèi della poesia, gli inventori cioè dei cursus e delle clausole, dei tic dei personaggi, dell’humour, dell’epos. Ma guai a perdere l’equilibrio in un simile culto! Un occhio a tutti i classici, a tutti i grandi romantici: ma sempre, nella coda di quell’occhio, l’ironia, la sgomenta ironia. E il suo contrario, il virginale pudore.
Mi fanno ridere coloro che dicono che Delfini appartiene al Novecento letterario italiano, con tutto ciò che di politicamente impuro esso comporta. Il passato di Delfini non è il passato della tradizione. Se solo per un momento egli si fosse sentito tradizionale, si sarebbe imposto un silenzio, esso si definitivo. Egli doveva amare il passato senza essere tradizionale: è una specie di scommessa tremenda, per vincere la quale egli ha dovuto trascorrere una delle vite più assurde che si siano verificate nel nostro scorcio di secolo. Notti passate in contese pretestuali, in contraddizioni retoriche, in cui al limite doveva rischiare piuttosto di fare il mimo di se stesso che di tradirsi.
Egli è lo scrittore aggraziato per definizione, ma mai grazia costò sacrifici così grandi. Egli ha dovuto difenderla con le unghie e contro tutti i suoi contrari, che in letteratura sono molti. Perciò è stato uno scrittore cosi avaro, egli per natura, per vocazione, uomo tanto prodigo. Dovette scontare con l’avarizia una grazia che egli non osava considerare suo diritto, ma solo uno sgomentante ideale. Per arrivare alla sua pagina, che è pagina di classico, doveva trovarsi continuamente nello stato dell’apprendista, dello scolaro, del clandestino, del dilettante. Quanto forzato masochismo per pagare l’assolutezza dolcemente aggressiva con cui disegnava i suoi personaggi nel fondo assoluto del tempo! Quante anticamere per ottenere un sorriso, contagioso, radioso, di Stendhal o di Mozart!
Pier Paolo Pasolini









Nessun commento:
Posta un commento