"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pasolini I° L’aigle
Uccellacci e uccellini
Vie nuove numero 17
del 29 aprile 1965
pag.26
MAGAR COME EPIGRAFE potremmo usare una frase di Mao che in una intervista dice pressappoco:
«La Francia? Cosa vuole da noi la Francia? Appartiene forse al Terzo Mondo, ai popoli affamati? Ebbene, se è così accettiamo molto volentieri la sua amicizia…».
Il fondo della favola è la critica della crisi del liberalismo occidentale, e, nella fattispecie, del razionalismo parigino.
M. Cournot è il domatore di un famoso circo francese, sceso a Roma. Sta dando una intervista a dei giornalisti italiani, che naturalmente disprezza (magari non a torto…): che cosa annuncia? L’inizio di una impresa sensazionale: l’addomesticamento di un’aquila.
Eccola là, l’aquila, ancora muta e selvaggia, in un angolo del circo che pare un pantheon: tutt’intorno ci sono le effigi dei «grandi» francesi, messe in ordine, secondo l’importanza: Sartre come Mauriac, Claudel come Camus. In una grande parete, di fronte all’aquila, l’immagine di De Gaulle.
M. Cournot ha una moglie, una specie di Monica Vitti parigina, laica, intellettuale ecc., e ha un piccolo aiutante, Ninetto, di Giando e di sora Maria, abitante al borghetto Prenestino.
Cominciano così giorni memorabili al Grand Cirque de France. M. Cournot ha una tattica tutta speciale nell’affrontare l’educazione delle bestie. Prima, fa, pedagogicamente, finta di niente. Si limita a dare esempi di buona educazione in loro presenza (l’aquila è là): pranza, fuma, legge il giornale. La cavia è Ninetto, l’assistente la moglie. Poi comincia piano piano, come se niente fosse, a rivolgersi alla bestia, con molta cortesia e molto tatto, ignorando educatamente il suo stato di bestialità. Insomma egli propone direttamente alla bestia come modello l’uomo parigino (non ha sospetto della possibilità di altri modelli, nota dell’A.).
Egli comincia così a impartire all’aquila, nel pantheon delle gerarchie isocefale dei Grandi, lezioni dirette di comportamento civile.
A tu per tu con l’aquila. Due grandi concezioni antitetiche della vita che si affrontano.
L’aquila tace, M. Cournot parla una lingua perfetta.
L’aquila continua a tacere, e M. Cournot comincia a impazientirsi.
L’aquila pare votata a un definitivo silenzio, e M. Cournot comincia ad asciugarsi il sudore e a sentire vacillare la propria dignità (da una parte la moglie, dall’altra l’animaletto italiano, Nino del Prenestino).
L’aquila non lo fila proprio per niente (espressione di Ninetto), e M. Cournot è all’esasperazione.
L’aquila pare perduta in sogni inattingibili, e M. Cournot scoppia: «Rispondi almeno! Di’ una parola! Cosa pensi, cosa fai!» e giù improperi furenti, rimproveri degni di un accademico di Francia, pronunciati con rabbia elegante degna di un xxxxxxxx: egli non è in grado di concepire quel silenzio, quello sciopero di ogni sentimento e di ogni idea, quella lontananza, quella sordità morale, quell’indifferenza al reale, quell’introversione pazzesca, quella irrazionalità (il corsivo è nostro).
Ma l’aquila tace.
Tace travolta da interessi interni intatti.
Tace.
M. Cournot ha allora una trovata pedagogica estrema. Fa portare nel pantheon tutte le gabbie dove abitano gli animali addomesticati. Un leone del Mali, un serpente della Guinea, una tigre del Vietnam (la gabbia dell’Algeria è vuota; M. Cournot si raschia la gola, ehm, ehm) ecc. ecc. Ecco, lo vede, l’aquila?
Tutti gli animali del Terzo Mondo (compreso Ninetto del Prenestino), parlano, e parlano educatamente, civilmente: la tigre, per esempio, non dice «Ho fame», ma «Ho un po’ di appetito».
Ma l’aquila tace.
«No, no, no, tu devi metterti in rapporto con me, e questo rapporto deve essere un rapporto dialettico!» urla M. Cournot, fuori di sé, ai limiti dell’infarto; e infatti brancola, vacilla e cade, fra le braccia della moglie che vomita ingiurie contro l’aquila (ingiurie francesi, molto istituzionalizzate: Merde, enfin!), e di Ninetto, che invece si rivolge pietoso all’aquila, nel suo dialetto che stabilisce subito un’omertà «tra poveracci», cercando di convincerla a parlare («E daje! e fa’ sto sforzo!»).
Su M. Cournot mezzo morto, si sente allora alzarsi una voce stridente e potente: «Volete proprio sapere cosa faccio?». Tutti guardano l’aquila, che si è decisa a parlare. «PREGO!».
M. Cournot rimane profondamente scosso da quella rivelazione.
Ed è così che comincia una seconda fase d’avvicinamento «dialettico» all’aquila. Comincia a leggerle dei testi religiosi. Pascal: no, pare che Pascal non vada bene… Forse dei poeti più moderni… a loro modo religiosi… Rimbaud… La Pacem in terris, infine…
Durante queste letture, che M. Cournot cerca di fare con calma, con amorevolezza pedagogica verso la bestia, benché ogni tanto esploda il suo furente stato di indignazione per lo «scandaloso rapporto dialettico» della bestia con la ragione, succede però qualcosa di strano, che non sfugge all’occhio attento di Ninetto.
Vogliamo dire che ogni tanto, M. Cournot si fissa a guardare la bestia, e rimane lì fissato, come una specie di trance: muto anche lui.
Ma c’è di più: quasi meccanicamente, a metà di una frase di Pascal o dell’Enciclica, M. Cournot non solo si incanta e si fissa, ma prende inavvertitamente per qualche istante lo stesso atteggiamento, e oseremmo dire, la stessa espressione dell’aquila.
Questi, che sono momenti rapidi e fugaci, quasi inavvertibili a un occhio che non sia quello sottoproletario di Ninetto, si fanno sempre più frequenti e insistenti. Non è raro infine che succeda di vedere l’aquila e M. Cournot appollaiati una davanti all’altro, in silenzio, con la stessa espressione, con gli stessi gesti…
Che cosa medita M. Cournot in quei lunghi silenzi regressivi?
Un bel giorno di scatto egli esce dal pantheon, invano trattenuto dalla signora che ora ha verso di lui l’indignazione che si ha verso le bestie e i matti e i poveri: ma M. Cournot non la sente nemmeno, se ne va muto. Solo Ninetto, poverello, impressionato e pietoso (benché ogni tanto gli scappi di ridere) gli va appresso.
M. Cournot prende un treno, e Ninetto dietro. Il treno parte. M. Cournot non resiste a un violento impulso, e sale sul tetto del treno, appollaiandovisi, con l’espressione remota dell’aquila. Il treno arriva in vista del Gran Sasso. M. Cournot scende, con Ninetto svociato e afflitto alle tacche, che non smette di dire battute romanesche sulla pazzia del suo principale. In mezzo a una valle sotto le cime nevose, M. Cournot si raccoglie un momento, e poi ecco che spicca un gran volo su, verso l’azzurrità dei cieli.
Egli si libra, si libra, fatto aquila, su verso le alte vette, mentre inutilmente dalla valle, facendosi sempre più piccolo, Ninetto strilla: «A messié Cournot ’nd ’annate? A messié Cournot, ma che state a ffa! che state a ffa!».
P. S.
- Ci siamo dimenticati di un particolare (a causa della fretta con cui abbiamo buttato giù questa storia, ad uso dei noleggiatori e degli esercenti, e quindi redatta in uno stile facile, convenzionale e un po’ volgare: che non si ottiene se ci si mette più di mezz’ora ogni tre cartelle). Il particolare è questo:
M. Cournot è pieno di tic: sociali (quelli cioè tipici dei francesi, la pernacchietta espressiva che fanno a metà di un discorso ecc. ecc.) e personali (che sono una mezza dozzina tra i più buffi e inquietanti): ebbene, tali tic scompaiono man mano che M. Cournot regredisce allo stato irrazionale di aquila.
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