"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Nota su "Per un romanzo del mare" di Pier Paolo Pasolini
Alessandro Barbato
“Meglio così una storia diretta dalla fine al principio
che dal principio alla fine,
non partire ma giungere alla pupilla del padre”.
P. P. Pasolini, Coleo di Samo, 1951
Una parte di questi materiali, quella che con chiarissimi accenti proustiani utilizza percorsi autobiografici relativi alle memorie di infanzia, ricordi in cui il mare è presente nei numerosi rimandi interni, con il titolo di Operetta Marina, è stata pubblicata a cura di Nico Naldini nel 1994, ma era già stata staccata dall’insieme dall’autore stesso che nel 1951 aveva partecipato al premio Taranto, assegnato nella città pugliese tra il ’50 e il ’53 ai racconti inediti che avessero avuto come sfondo o come protagonista il mare, ottenendo una segnalazione della giuria. [1] Del progetto non ci restano dunque che questi due frammenti, con il Coleo di Samo che rappresenta la sezione cosmogonica di quello che, sebbene sia rimasto “un sentiero interrotto”, sorprende per la possibilità che offre al lettore di ritrovarvi molto del Pasolini futuro, soprattutto del suo singolare modo di unire biografismo e mitologia, fino a giungere alla creazione di una personale cosmogonia in cui il dato biografico è parte integrante di un ampio disegno che riguarda il senso stesso dell’essere uomo, la lacerazione che comporta ogni iniziazione culturale, il dramma innaturale che lascia dietro di sé l’avvertimento della propria irriducibile diversità, il distacco dall’idilliaca condizione di una perduta unità, in un certo senso pre-umana e pre-cosmica.
Mare dunque come mistico ritorno fin dentro la meccanica inorganica da cui, oltre alla vita, scaturisce il trauma originario da essa quasi inseparabile; mare come fine e origine, simbolo di una storia e della Storia che, come avrebbe sostenuto più tardi il poeta, «finisce dove comincia». Ed è singolare pensare che nella narrazione Pasolini si racconta ad Ostia, probabilmente non troppo lontano da dove sarebbe stato ritrovato cadavere la mattina del 2 novembre di ventiquattro anni dopo, mentre disegna il tentativo di ripercorrere all’indietro lo «sforzo ripugnante che costa l’apprendere, il cessare di abbandonarci anche a un inconscio contatto carnale con noi stessi» fino a «immaginare, con un violento brivido, o con una minuta, cigliale ricerca ciò che non è noi o nostro alone, umanizzato o personificato; ciò in cui la nostra esistenza personale come un olio si è allargata, l’oggetto insomma di cui si è per esultante istinto di conservazione perso il senso della diversità. Scendere a Ostia e guardare il Mare». [2]
Lì dove avrebbe incontrato la fine, eccolo offrire al lettore un ripiegamento verso l’inizio, verso un mare non ancora pensato, non ancora veduto, unico e silenzioso testimone di ere geologiche sepolte. Lettore che in un magmatico ribollire di immagini sapientemente chiaroscurate, vede lentamente emergere dalla propria naturalità un fantastico Uomo-Appennino che «Veniva dall’interno dei monti appena formati […] immerso come in un tanfo nel vizio umano più squallidamente caldo, […] dalla nascita la sua pupilla non rifletteva altro che quella terra […] senza mai perdere la violenza della sua verginità. […] Egli aveva dunque sparso se stesso in quell’angolo di terra […] e il paesaggio si era sparso in lui; la fusione era cieca e dura, rocce e corpo che si scambiavano il gonfiore.» [3]
Ma ecco che - con la stessa rapidità con cui la storia del mare, di questo mare «appena creato non dalla volontà di Dio e non poetizzato dalla violenta paratassi dei versetti biblici, ma da una meccanica che supera ogni espressione» [4], è sommariamente riassunta nei testi di Geologia [5] - nella calda fusione dell’origine, nella pupilla del «primo di noi» [6], «nella fusione umana di terra e carne» che era quella favolosa creatura appenninica tratteggiata dalla penna di Pasolini, con uno strappo che l’autore suggerisce violentissimo, «penetra il mare. Con la sua debole marea, il suo orizzonte di laguna; intenso di luce, deserto. Si stanzia nella pupilla, visione immaginata, che scuotendo il mondo scuote il cuore. Lo respinge indietro forse la paura di essere diverso, estraneo, su questi siti dove egli, perché estraneo, ha dato inizio alla presenza del mare» [7].
Eccoci dunque innanzi a «una rozza Venere» intenta a sorgere dal «rozzo lucore delle schiume», chiara allusione all’incerta alba del processo di plasmazione di una realtà non ancora fondata miticamente da alcuna tradizione. Anzi è un vero e proprio “scortecciamento” della tradizione a essere intrapreso dallo scrittore. Tradizione che occorrerebbe appunto ridiscendere mediante il riavvolgersi di un nastro fatto, prima di tutto, delle estetiche visioni e delle poetiche appropriazioni di artisti, scrittori e navigatori ed esploratori che rappresentano quel patrimonio storico, simbolico e tecnico che l’autore ripercorre; e che come un filtro da un lato, consente all’uomo di emergere dalla propria naturalità, dall’altro impedisce quel completo abbandono, vagheggiato dall’autore, al richiamo dell’oscura purezza rappresentata da un tempo prima del tempo, incontro e pacificazione di ogni contraddizione, riassorbimento del trauma esistenziale e al contempo punto di svolta che contiene, in nuce, inedite prospettive di risalita e rimodellamento dei confini fra sé e mondo, io e altro.
E’ d’obbligo annotare come sia stato il termine Thetys, che Pasolini su indicazione di Contini, e sbagliando, traduce con sesso, a dare l’impulso al disegno iniziale di organizzazione di materiali narrativi che avevano a che fare con il mare, o che ad esso erano legati in qualche misura: [8] «Qualche anno fa Contini mi ha fatto osservare come, in greco, Thetis voglia dire sesso (sia maschile che femminile) e come Teta-veleta sia un reminder del tipo che si usa nei linguaggi arcaici. Questo stesso sentimento di Teta-veleta lo provavo per il seno di mia madre.» [9] ma con l’espressione teta veleta Pasolini nomina anche i suoi primi turbamenti sessuali, quando a tre anni si scopre attratto dalle gambe, «precisamente dall’incavo dei loro ginocchi» [10], di alcuni ragazzetti più grandi che giocavano nella piazza davanti casa; un’emozione che l’autore assimila a quella provata, sempre da bambino, alle prime fantasticherie marine, a quelle sensazioni, ancora oscure e magmatiche, suscitate nel suo animo di fanciullo dai sapori e dagli odori marini che facevano da sfondo alla prime avventure, come suggerisce lui stesso nelle pagine di Operetta marina.
Come se non bastasse scopre poi che lo stesso termine era usato dai geologi per indicare il mare triassico da cui sarebbe sorto il Mediterraneo: la tentazione di legare autobiografia e una personale cosmogonia, di nutrirle l’una dell’altra in una maniera che forse rappresenta la vera cifra stilistica, direi anche esistenziale, dell’autore, non potevano non stimolare l’allora giovane e semisconosciuto Pasolini, in una fase della sua carriera in cui, alle prese con una condizione anche materialmente difficile, lavora accanitamente a opere che sarebbero poi finite, con una definizione che probabilmente avrebbe disturbato lo stesso autore, tra i classici della letteratura europea del novecento.
L’autore lavora al progetto per qualche tempo, è solo uno dei tanti percorsi che in quegli anni di grande fecondità lo impegnano e presto l’idea di un Romanzo del Mare tornerà a giacere tra i non finiti. Tra quei materiali, organizzati pazientemente in cartelline e quaderni dall’autore stesso, che qualche volta sarebbero stati abbandonati; in altri casi invece avrebbero iniziato un percorso autonomo o sarebbero rivissuti, in veri e propri tronconi, in altri disegni, talvolta anch’essi non finiti, per volontà dello scrittore o per le circostanze del caso. Tra le carte dello scrittore, Walter Siti fa affiorare, dandone notizia, anche alcuni indici o scalette dell’opera che lo scrittore stava immaginando. [11] In una si legge l’intenzione di strutturare il discorso in tre grandi aree: la prima doveva riguardare la “creazione del mare” e avrebbe dovuto attingere a materiali provenienti dal mito cristiano, da quello pagano e da quello scientifico, ed è davvero interessante, soprattutto alla luce di quello che sarebbe stato il Pasolini più tardo, il fatto che cristiano, pagano e scientifico siano tutti aggettivi dell’unico sostantivo, ovvero mito.
Il pensiero corre subito a Medea, e al Giasone, che non a caso compare anche in queste pagine, che nella sceneggiatura è istruito circa il lavoro da fare per costruire l’imbarcazione, che lo avrebbe condotto «al di là del mare», dal centauro che, in veste di mitico tecnocrate, partecipa alla rappresentazione drammatica di un’altra origine, di un altro trauma, o forse della stesso, quello generato dall’alienazione borghese. Oppure, con un parallelo forse anche più calzante, all’Edipo re, dove il tentativo di utilizzare il filtro del discorso mitico per fondere in un'unica densa matassa la propria condizione di uomo - lacerato dal dissidio tra «buie viscere» e ragione, da torbide pulsioni che qualche volta si vorrebbe estirpare o alle quali al contrario non si può che obbedire - e quella di intellettuale in crisi di fronte a una società che inizia a mostrare i segni della lenta ridiscesa nella barbarie, anch’essa pre-cosmica e pre-umana ma stavolta senza riscatto alcuno, che l’attende.
Il secondo nucleo tematico avrebbe dovuto riguardare delle non meglio precisate epigrafi riguardanti il mare, probabilmente un’estetizzante ricerca etimologica sui nomi che esso ha assunto nel corso dei secoli, mescolata a non meglio precisati miti marini e a una storia del mare come veicolo di civiltà, il tutto ancora una volta unito ai ricordi e alle fantasie dell’infanzia, soprattutto quelle relativi agli anni passati tra Sacile e Cremona, ovvero quelli che Pasolini definisce come gli anni della fine traumatica della sua infanzia, ma anche quelli della «vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza.» [12] L’opera sarebbe stata poi conclusa con il racconto della Fine del Mare, in un vorticoso itinerario che invita il lettore a perdersi nell’oscura luce di un’alba acquatica che appare sul punto di riassorbirsi misticamente in se stessa.
«Una visione che incarna in sé, succhia in un piacevole brivido la presenza ricettiva del corpo, ne sfonda gli organi e i connettivi per stanziarvi le sue sconfinate tinte azzurro cupo o verdi […]. Questa situazione che non può risolversi, avere una storia, era in me che mi abbandonavo ad essa, sempre uguale: una forza monotona che mi faceva girare intorno a me stesso. Se, da questo giro, mi fossi potuto mai sottrarre, sarebbe stato per tornare indietro, sempre più in fondo alla mia immota energia. Avrebbero dunque ragione, nel caso che si potesse, trasponendolo sulla sede umana da cui è così remoto, dare valore a quel vizio così infantile, i francesi a dire la Mare, e non il Mare… di chiamare con un nome materno la nostra origine; e noi, noi andremo verso il mare non verso il cielo: quando quest’ultimo ci chiede di arrivare alla fine di una storia, di causa in effetto, fino alla redenzione e alla condanna del nostro vizio, cioè di noi stessi: alla nostra soppressione, mentre il mare ci invita a ritornare al principio di una storia, cioè non solo a essere sempre, beatamente, indifferenziatamente, noi stessi, ma essere anche quello che siamo stati, di effetto in causa, dunque, nel pieno, continuo calore della vita…» [13]
Note:
1 Coleo di Samo e Operetta Marina sono stati pubblicati, uno dietro l’altro e riuniti con il titolo Frammenti per un romanzo del Mare, a cura di Walter Siti in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, Mondadori, Milano 1998, pp. 337-420. Importanti sono anche le note e le notizie riguardanti i testi da cui sono state tratte le informazioni relative al premio Taranto e che offrono un ottimo inquadramento dei materiali pubblicati (Ivi, pp. 1676-1681). Come accennato, Operetta marina è stato pubblicato in precedenza, a cura di Nico Naldini, in P. P. Pasolini, Romàns seguito da Un articolo per il «Progresso» e Operetta marina, Guanda, Parma 1994, pp. 110-161).
2 P. P. Pasolini, Coleo di Samo, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., p. 347.
3 idem, p. 345
4 idem, p. 343
5 ibidem
6 P. P. Pasolini, Coleo di Samo, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., p. 342
7 idem, p. 345 (il corsivo è dell’autore).
8 A tal proposito si vedano le notizie relative al testo in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, op. cit., p. 1676.
9 Si tratta di estratti di una intervista molto interessante in cui Pasolini ripercorre gran parte della sua infanzia, pubblicata in D. Maraini, E tu chi eri? 26 interviste sull’infanzia, Rizzoli, Milano 1998, pp. 316-328. [L'intervista della Maraini è leggibile QUI, ndc]
10 ibidem
11 Cfr. le notizie relative al testo in P. P. Pasolini, Romanzi e Racconti. Volume primo 1946-1961, op. cit., p. 1678.
12 ibidem
13 P. P. Pasolini, Operetta marina, in Id., Frammenti per un romanzo del Mare, op. cit., pp. 392-393.
Già pubblicato su: Pasolinipuntonet
Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:
Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi