"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
3. LO SFONDO, IL CARNAIO.
UN RADUNO DI ALTRI
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
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DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA
Dottorato di Ricerca in Italianistica
XIX Ciclo
Settore scientifico disciplinare L-FIL-LET/11
ALTRI CORPI:
Temi e figure della corporalità
nella poesia degli anni Sessanta.
Il Coordinatore:
Chiar.mo Prof.
VITTORIO RODA
Il Relatore:
Chiar.mo Prof.
NIVA LORENZINI
Il Dottorando:
Dott.GIAN MARIA ANNOVI
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Esame finale anno 2007
«Colui non par corpo fittizio»
(Dante, Purgatorio XXVI )
Fino ad ora si è discusso del corpo dell’Altro, luogo del simbolico, o meglio, del «raduno di altri» che si stagliano come calchi vuoti, privi di soggettività, sullo sfondo magmatico di Poesia in forma di rosa. Ma questa raccolta, si è detto, è segnata anche da una «riemersione in primissimo piano»(102) del soggetto poetico e, occorre aggiungere, del suo corpo. Corpo che si costituisce alternativamente – attraverso i meccanismi di identificazione a cui si è accennato in precedenza – come omologo e separato da quello dell’Altro seppur interno allo stesso campo, descritto da Lacan attraverso una citazione pittorica particolarmente cruenta ma non priva di interesse:
il prossimo, viene a profilarvisi, separato da noi, erigendosi, se posso dir così evocando l’immagine del Carpaccio di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia, in mezzo a un’immagine di carnaio(103).
Il dipinto in questione è Duello di San Giorgio e il drago, opera narrativa che ripropone la nota vicenda agiografica tratta dalla Legenda aurea; non potendo certo fare di meglio lascio a Roberto Longhi l’illustrazione di quello che Lacan definisce, all’ingrosso ma con efficacia, un carnaio:
«il terreno stregato dove la morte espone lucida, tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari “memento”: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato, i resti della donzella dove la camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare»(104)
Si tratta di un campionario di orrori, dove arti, pezzi di corpi e ossa si accampano su un terreno arido, bruciato se non dal sole dalla vampa del drago, una figura che ritroveremo anche in Amelia Rosselli. La morte si inscrive sullo sfondo attraverso brani di corpi insepolti, resti di scheletri.
Anche Pasolini delinea la fisionomia del mondo, e dunque della realtà, attraverso l’anatomia di un cadavere, il proprio:
«Tutto il mondo è il mio corpo insepolto»
(Le belle bandiere).
Ho già ribadito che alla base del simbolismo c’è l’identificazione tra il corpo dell’infans e il mondo, identificazione da intendersi come equivalenza – per utilizzare la terminologia introdotta da Melanie Klein – identità tra due elementi. Non è ancora chiaro se l’identificazione si basi sul principio di piacere – come vuole Joens – o sull’angoscia, ma appare evidente che nel caso di Pasolini sia determinata dalla pulsione di morte del soggetto, già presente sin dagli esordi friulani (cfr. Il nini muàrt). In quelle poesie, però, come ha ricordato Zanzotto, la morte è nominabile e collocabile «a due passi dal paese, in un cimitero campestre, in cui tutto è accarezzato e quasi richiama la resurrezione, è cellula tra le cellule viventi»(105) chiamata a rappresentare solo la condanna «a vivere in modo infernale dentro un ambito che è idilliaco»(106). Negli anni Sessanta, con l’avanzare della omologazione consumistica e della contaminazione massmediatica del linguaggio, l’idillio non è ormai più possibile, e la morte, con il suo inferno non è più solamente cellula ma organismo, corpo, sottoposto allo stesso «squartamento fisico in atto»(107) dell’autore. Lo si vede con chiarezza in più di un luogo:
Per gli sventrati, i radi
orizzonti pervasi d’un funebre stallatico;
la quantità, l’immensità che pesa
inutilmente nel mondo, i cui prati bruciati
o marci d’acqua, sono una distesa
priva di possibile poesia, rozza cosa
restata lì, ai primordi
[La Guinea]
impalcature di fanghi screpolati
e induriti su altri fanghi – sterco bianco
come zucchero, graffito di chine e villaggi,
sopra chine e villaggi lievi come ossa –
la Geenna col suo fiumicello secco
(sull’orizzonte, uno strapiombo di garza,
maculato di sangue teneramente ingiallito)
[L’alba meridionale]
come, il mondo, non fosse che un cumulo
di scintillanti frantumi, di casuali rifiuti,
spazzati da un cataclisma, e ora in pace riversi
[Poema per un verso di Shakespeare]
Si tratta di descrizioni carnali, fisiche, corporali, di un mondo in combustione, sventrato, che mostra il suo scheletro sotto la violenza di una «luce che disossa», e «schiumeggia» sui prati, quasi materiasse di vischiosità la luminosità di un sole «micidiale», «febbrile» in cui «appare e persiste la fisicità del deserto». Questa «periferia di macerie e di paludi»(108), che secondo Lacan è esattamente lo sfondo su cui si forma il soggetto, è anche la rappresentazione fisica di una morte che coinvolge anche l’io di Poesia in forma di rosa. A dispetto del titolo, preso a prestito proprio da uno scritto di Longhi sui manieristi, il poemetto Una disperata vitalità ruota intorno al sentimento della morte e della sua rappresentazione nel proprio corpo. Si leggano di nuovo questi versi, tra i più citati:
Sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato dai ragazzi a un fico,
[…]
come un serpente ridotto a poltiglia di sangue
un’anguilla mezza mangiata
- le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino
Le analogie con i rimandi paesistici appena riportati sono fin troppo evidenti, ma colpisce in questi versi non solo la rappresentazione di sé come soggetto a un’immane violenza (combustione, spappolamento, cannibalismo…), ma la forte erosione fisica del corpo, il suo sformarsi o deformarsi. C’è l’idea profonda e lancinante di un corpo in perdita, in declino, che perde materia, carne («magrezza che gli divora la carne»), fino a coincidere con la figura di uno scheletro. In un testo non confluito nella raccolta ma concepito negli stessi anni, Poesia su una poesia, Pasolini scrive che
«cresce, con l’età, la magrezza / del corpo. Mi ritrovo, ogni giorno, / più consunto, e già, la consunzione / è disincarnazione».
Disincarnazione che evidenzia, mentre le ossa diventano «ogni giorno / più cave», una rassomiglianza con la madre «che si fa sempre più fatale». E, aggiungerei, fetale. Si evidenziano infatti in questi, come nei versi precedenti, le due pulsioni cardine che muovono l’opera di Pasolini, già individuate da Agosti come strutturanti nel romanzo Petrolio(109): la pulsione di morte e quella di reifetazione.
Parallelamente alla rappresentazione di sé come scheletro
(«mostrare la mia faccia, la mia magrezza», «il mio, sarà uno scheletro / senza neanche nostalgia del mondo», «penso con pace al mio scheletro», «Diavolo tuttossa»),
il soggetto si rappresenta «solo come feto», come un «feto adulto». Nella pulsione di reifetazione, che rimanda a un prima dell’origine, rientrano anche le rappresentazioni zoomorfiche non infrequenti in Poesia in forma di rosa («come un cane senza padrone», «come un gattaccio in cerca d’amore», «passivo come un uccello», «solo come un animale senza nome», «come una bestia»), ma sempre in un ottica metaforica. Il «come» vanifica in partenza qualsiasi decentramento soggettivo che l’animalizzazione fisica comporterebbe: lo si può verificare con profitto in La mancanza di richiesta di poesia, dove Pasolini costruisce una propria fisionomia teriomorfa attraverso un’immagine di indistinzione di tratti animali, ma all’interno di una grande metafora dichiarata sin dall’incipit:
Come uno schiavo malato, o una bestia,
vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,
con la lentezza che hanno i mostri
del fango – o della polvere – o della selva –
strisciando sulla pancia – o su pinne
vane per la terraferma – o ali fatte di membrane…
Questo mostro – così simile al drago dipinto da Carpaccio – è un essere primordiale che reca insieme la polverosa lentezza della morte («trascino con me la morte nella vita»). Anche in questa figura la vita e la morte si confondono, così come accade, secondo Lacan, nella figura di Antigone che sperimenta «la morte vissuta anticipatamente, morte che sconfina nel campo della vita, vita che sconfina sulla morte»(110). Anche l’io di Pasolini si mostra «ritardatario sulla morte, in anticipo / sulla vita vera» proprio perché l’io, nel momento della sua formazione, si erge davanti a «sé, precedendosi sullo sfondo di un’irriducibile ritardo su se stesso.»(111) È allora importante ricordare che proprio Pasolini ha elaborato la figura di Antigone al momento di girare l’Edipo Re, scegliendo di rappresentarla attraverso Ninetto, che accompagna Edipo-Citti nel suo viaggio dopo l’accecamento: «il mio corpo – dirà Davoli in una intervista – era un proseguimento di quello di Pier Paolo»(112). Per essere più precisi, come è stato più volte ricordato, Ninetto rappresenta per Pasolini «l’immagine archetipica di bellezza adolescenziale»(113), un giovanetto ricciuto con i capelli sulla fronte e «gli occhi dolci e ridarelli»114al centro di numerosissime riprese cinematografiche o immagini pittoriche, spesso con il volto parzialmente coperto. Ciò mostra nuovamente che anche il desiderio è mosso dalla pulsione di morte, in quanto percorso dentro il sapere che implica il sapere della morte, palesato con crudezza in un testo del 1968 intitolato Coccodrillo, in cui lo scrittore immagina di scrivere il proprio necrologio: «mai oggetto di narcisismo fu più fecondo di un cadavere». La morte si configura come ultimo tentativo di appropriazione della realtà, di congiungimento – quasi erotico – con essa, mediato però da una forte istanza estetica, che è «la vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione»(115).
Pasolini, che si rappresenta come un cadavere di partigiano che inizia a decomporsi («come un partigiano / morto prima del maggio del ’45 /comincerò piano piano a decompormi», Una disperata vitalità), resta dunque al di qua del desiderio radicale, attraverso l’estetizzazione della propria esperienza. In Poesia in forma di rosa, infatti, sono numerosissimi i riferimenti al mondo dell’arte (Giotto, Correggio, Masaccio, Piero della Francesca, Caravaggio, Pontormo, Watteau, Renoir, Garutti, Collezza, i pittori del Cinquecento Nero), tanto che è possibile sostenere che le descrizioni paesistiche di Pasolini siano vere e proprie èkphrasis, nel senso originario del termine: una descrizione digressiva che ha come tema un’opera d’arte figurativa. È lo stesso Pasolini a ricordarlo a proposito del cinema, quando afferma di non riuscire
«a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica […] quindi le mie immagini, quando sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro: concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro.»(116 )
Anche nell’opera poetica, lo ha notato Stefano Agosti, il discorso segue e riproduce «il movimento di un ipotetico occhio sovrastante il reale»(117), un occhio-obiettivo, o cine-occhio che si muove come sopra un dipinto: ciò è riscontrabile nel poemetto La guinea, dove il paesaggio di Casarola pare riprendere «il motivo di una pittura rustica / ma raffinata» e nei testi che compongono Poesie mondane, dove il Pontormo, agisce «con un operatore meticoloso» nel disporre gli elementi che fanno da sfondo alle riprese de La ricotta, o ancora, in Poema per un verso di Shakespeare, tutto giocato su inserti descrittivi di un’opera manierista probabilmente rappresentante il Ratto di Ganimede. Occorre però precisare che ciò che ho finora erroneamente indicato come descrizioni paesistiche sono piuttosto descrizioni di uno sfondo, realtà già mediata dalla visione estetica, simbolizzata. Anche il Pasolini cineasta si pone davanti alla realtà come se fosse già stata dipinta, soprascritta: «amo lo sfondo, non il paesaggio. Non si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento. Perciò nessuna inquadratura può cominciare col ‘campo’, ossia col paesaggio vuoto. Ci sarà sempre, anche se piccolissimo, il personaggio.
[…] E dietro, lo sfondo, lo sfondo, non il paesaggio.»(118) È l’opera d’arte a filtrare la percezione della realtà, che ha sempre come centro il personaggio. Motivando la scelta di dedicarsi prevalentemente al cinema, Pasolini rivendicava l’esigenza di essere dentro la realtà, possibile perché quando si fa un film «non c’è fra me e la realtà il filtro del simbolico o la convenzione, come nella letteratura.»(119) In Poesia in forma di rosa il simbolico che si frappone alla realtà è il proprio corpo di personaggio che dice “io”, corpo cadavere che si identifica da sempre con quella che potremmo chiamare una Vorbild, un’immagine prima. A questo mimetismo deve per forza corrispondere anche un mimetismo spaziale: personaggio e sfondo coincidono. Ecco allora che «i resti del vecchi Pasolini / sui profili dell’Agro…» si mostrano in continuità ellittica con «tuguri / e ammassi di grattacieli» e lo sgretolarsi dello sfondo è pari a quello dell’io: «sono pieno di sabbia / accecante, di limo sbriciolato» (Poesia in forma di rosa). E ancora:
Il protagonista è macellato:
una bolla d’aria gonfia la sua pelle,
potrebbe volare per il terrore.
Una spaccatura gli scende dal palato
allo sterno, e irradia dei tremiti
per tutto il corpo: l’intossicazione
gli buca lo stomaco, gli dà la diarrea.
[…]
terra incendiata il cui incendio
spento stasera o da millenni,
è una cerchia infinita di ruderi rosa,
carboni e ossa biancheggianti, impalcature
dilavate dall’acqua e poi bruciate
da nuovo sole
[Poesie mondane]
Alla possibilità di esporre il soggetto ai bordi della morte, di radicalizzarne la messa in discussione e la tenuta lirica, Pasolini sceglie l’artificio teatrale del personaggio, che ingloba in sé la realtà. Infatti, come scrive un Bataille chiosatore di Lacan: «affinché l’uomo si riveli infine a se stesso, egli dovrebbe morire, ma dovrebbe farlo continuando a vivere – per guardarsi mentre cessa d’essere […] si tratta di identificarci a qualche personaggio che muore, e credere così di morire mentre restiamo in vita.»(120)
L’artificio del personaggio, ennesima immagine dell’io estraniato, come da sempre rappresentato ed ex-posto davanti a sé, mostra dunque l’ossessione più forte di Pasolini, «essere dentro e fuori la propria opera»(121) e insieme essere dentro e fuori dalla realtà. Si spiega forse così il suo interesse – già segnalato da Siti – per il famoso dipinto di Velàzquez, Las Meninas, che nel 1966 costituirà il nucleo irradiante della riflessione su Le parole e le cose di Michel Foucault e che Lacan, nel Seminario XIII, tuttora inedito, vede come rappresentazione del rapporto del soggetto diviso con il reale. Nell’ottica pasoliniana ciò che colpisce però è che al centro del quadro vi sia una bambina, anzi, un’infanta – come la madre fruta oggetto dell’identificazione narcisistica – e che alle sue spalle sia intravedibile il vero soggetto dell’opera che l’autore è intento a dipingere. Nel fondo della stanza si trova infatti uno specchio che permette di scorgere le sagome di quella che costituisce una coppia parentale e insieme la rappresentazione del Potere: Filippo IV e sua moglie Marianna. Pare dunque che questo quadro possa fungere nel nostro caso come tavola sinottica di ricapitolazione di quella fase dello specchio alla base delle identificazioni stratificate nell’io, tanto che se si osserva la tela con attenzione si noterà anche un altro particolare di notevole rilevanza nell’economia della nostra lettura: la tenda rialzata che incombe sulla testa delle due figure genitoriali. Tenda che dischiude l’immagine della coppia parentale su cui si apre lo sguardo cieco dell’infanta e che già abbiamo individuato anche nella prima immagine di un Pasolini infans, come struttura portante della Forma-viso. L’altro elemento che merita attenzione è proprio l’opera in corso, l’alto rettangolo monotono che occupa di scorcio la parte sinistra del quadro. La visione di scorcio è qualcosa di ben presente nell’immaginario di Pasolini, che nel 1974, recensendo il volume di Longhi, Da Cimabue a Moranti puntualizza che «tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esaminati (e sono naturalmente i punti più alti della sua “prosa”) sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, “tradotto” nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.»(122) Lette queste parole, risulta difficile non associare il rettangoloide marrone che obbliga a concepire l’opera obliquamente nella tela di Velasquez a quell’oggetto «strano, sospeso, obliquo, in primo piano davanti ai due personaggi»(123) del dipinto di Holbein, citato da Lacan a proposito dell’amor cortese per introdurre l’oggetto del desiderio, visibile solo di sbieco, di scorcio. Visto frontalmente – prospetticamente – esso rivelerebbe solo la morte. L’oggetto anamorfico, che nel caso di Velazquez pare coincidere perfettamente con l’opera, rende visibile qualcosa che «non è altro che il soggetto come annientato – annientato in una forma che, propriamente parlando, è l’incarnazione fatta immagine della castrazione»(124). L’opera è ciò che ha il potere di annientare il soggetto, ma per farlo deve essere informe: di qui l’ossimorica esigenza di Pasolini di abiurare alle opere passate e tornare al magma («Sono tornato tout court al magma!», Una disperata vitalità; «col fervore che opera mescolanze di materie / inconciliabili, magmi senza amalgama», Progetto di opere future), ma insieme il riferimento continuo a progetti di scrittura in corso che aprono l’opera sul non finito, o l’inserzione di lacune nei testi, gli abbondanti punti sospensivi, gli omissis, fino allo scacco che incontra il lettore giunto alla fine del poemetto intitolato La realtà, che si rivela discorso non ancora cominciato, da farsi («solo detto questo, o urlato, la mia sorte / si potrà liberare: e cominciare / il mio discorso sopra la realtà»). Anche il corpo del personaggio-autore, identificandosi con la realtà, la mortifica, la disincarna, ne fa una non-vita coinvolta nel campo simbolico del linguaggio. Esso è come il diaframma «che traspone le cose dipinte dal Caravaggio in un universo separato, in un certo senso morto, almeno rispetto alla vita e al realismo.»(125) Scrivendo l’articolo intitolato La luce di Caravaggio, Pasolini
accoglie in pieno l’idea longhina che l’artista bergamasco dipingesse guardando le sue figure riflesse entro uno specchio. Oggetto che abbiamo visto costituire anche per la poesia di Pasolini il primitivo contatto con l’io, con l’altro e con il mondo, in cui «tutto pare sospeso come per un eccesso di verità, e un eccesso di evidenza, che lo fa sembrare morto»(126) e che fa delle sue figure, dei corpi, dei personaggi, «delle figure separate, artificiali»(127), proprio come i corpi dei giovani adolescenti e del vecchio poeta-io al centro di Poesia in forma di rosa.
102 G. SANTATO, cit., p. 201
103 J. LACAN, Il godimento della trasgressione, in cit., p. 257
104 R. LONGHI, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Da Cimabue a Moranti, cit., p. 639.
105 A. ZANZOTTO, Pasolini poeta, in cit., p. 155.
106 ID., Pasolini, l’«Academiuta di lenga furlana», Nico Naldini, in cit., p. 287.
107 ID., Pasolini poeta, cit., p. 155.
108 J. LACAN, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, Volume I, Torino, Einaudi, 1974, p. 91.
109 S. AGOSTI, L’inconscio e la forma, in La parola fuori di sé, cit., pp. 66-82.
110 J. LACAN, Il seminario. Libro VII, cit., p. 315.
111 M. BORCH-JACOBSEN, Lacan, il maestro assoluto, Torino, Einaudi, 1999, p. 38.
112 Riportato da W. Siti nel suo intervento dal titolo L’opera rimasta sola, posto in chiusura al secondo volume di P.P.PASOLINI, Tutte le poesie, cit., p. 1925.
113 G. ZIGAINA, Pasolini e la morte: mito alchimia e semantica del “nulla lucente”, Venezia, Marsilio, 1987, p. 47.
114 P.P.PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano, 1965.
115 J. LACAN, La pulsione di morte, in cit., p. 275.
116 L. BETTI – M. GULINUCCI (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Le regole dell’illusione: i film, il cinema, Associazione «Fondo Pasolini», Milano, Garzanti, 1991, p. 60
117 S. AGOSTI, cit., p. 21
118 P.P.PASOLINI, Le pause di Mamma Roma, in «Il Giorno», Milano 20 maggio 1962.
119 ID., Pasolini su pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1303.
120 G. BATAILLE, Hegel, la mort et le sacrifice, in OEuvres complètes, vol. XII, Paris, Gallimard, 1988, pp. 336-337.
121 W. SITI, L’opera rimasta sola, cit. p. 1933.
122 P.P.PASOLINI, Roberto Longhi, Da cimabue a Moranti, in cit., p. 333.
123 J. LACAN, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, 1964, Einaudi, Torino, 1979,p. 87.
124 Ibidem.
125 P.P.PASOLINI, La luce di Caravaggio, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 2673.
126 Ivi, p. 2673.
127 Ivi, p. 2674.
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Curatore, Bruno Esposito
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