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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 19 febbraio 2014

Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Angela Molteni giugno 1997

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


 


Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Angela Molteni

Un commento a questo film richiede una premessa sia pure breve, poiché un elemento drammatico, dal quale non è possibile prescindere, ne segna il cammino: la tragica morte di Pasolini avvenuta prima che il montaggio fosse compiuto. È chiaro che tutte le critiche che si rovesciarono sul film non trovarono più il principale interlocutore. Sul film, però, nel corso della sua lavorazione, Pasolini ebbe modo di esprimersi in svariate circostanze. Saranno quindi in primo luogo i suoi scritti, le sue interviste o alcuni commenti di critici particolarmente acuti che ci permetteranno di comprendere più chiaramente i contenuti, i significati e i messaggi dell'ultimo film del regista. Occorre però tracciare, almeno per sommi capi, alcuni punti fondanti che presiedono alla realizzazione del film. Dopo Il fiore delle Mille e una notte, Pasolini aveva in mente la realizzazione di alcuni altri progetti cinematografici, tra cui un film su San Paolo, che avrebbe dovuto intitolarsi Bestemmia: "Ho sempre fatto film col sole […] adesso farò un film tutto di pioggia […] Evidentemente, questa mia violenza contro la Chiesa è profondamente religiosa, in quanto accuso san Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione. Io non rivivo il mito di san Paolo, lo distruggo". Un altro progetto aveva come tema l'Ideologia: "Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio [Pasolini prevedeva per questo ruolo l'interpretazione di Eduardo De Filippo], il quale, seguendola, viaggia a lungo, facendo dunque esperienza dell'intera realtà". Si veda a questo proposito la lettera sottoriportata del 24 settembre 1975 con la quale Pasolini - dopo aver girato Salò - propone a Eduardo di fare il film, che si sarebbe chiamato Porno-Teo-Kolossal. Roma, 24 settembre 1975 Caro Eduardo, eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e schiacciato dalla sua mole organizzativa. Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa. Ti abbraccio con affetto, tuo Pier Paolo Nel 1974, dopo la vittoria (12 maggio) dei "no" al referendum sull'abrogazione del divorzio (un "no" che aveva ricevuto una tiepida adesione da parte dei comunisti, preoccupati soprattutto che questa contesa sul divorzio potesse turbare i sentimenti religiosi degli italiani), Pasolini pubblica sul "Corriere della Sera" l'articolo "Gli italiani non sono più quelli" (ora in Scritti corsari [edito da Garzanti] con il titolo "10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia", ampliato poi da un altro articolo dell'11 luglio 1974). "L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi "diverso". Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo." Rispetto a questi scritti pasoliniani vi fu una vivace reazione dei comunisti e si accese una dura polemica prima con Maurizio Ferrara, poi con Italo Calvino e Franco Ferrarotti; Pasolini inviò una lettera aperta a Calvino, pubblicata sul "Corriere della Sera", alla quale replicarono, oltre allo stesso Calvino, Alberto Moravia, Franco Fortini, Umberto Eco, Giorgio Bocca e Natalia Ginzburg. Questi sono gli stati d'animo, questo il clima generale, questo il quadro che fanno da sfondo alla decisione di Pasolini di appropriarsi di un progetto che Sergio Citti stava esaminando. Citti pensava, infatti, di produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fa proprio il progetto (Sergio Citti, con Pupi Avati, saranno poi collaboratori alla sceneggiatura), sviluppa l'idea che sorregge il romanzo di De Sade del "piacere" della violenza, delle sevizie, della perversione sessuale, e traspone l'originaria ambientazione settecentesca nella repubblica di Salò del 1944: "L'idea mi è venuta da Le centoventi giornate di Sodoma, questa specie di sacra rappresentazione mostruosa, al limite della legalità. Mi sono accorto tra l'altro che Sade, scrivendo pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il libro in tre bolge dantesche [in effetti il film sarà strutturato in un antinferno e tre gironi, ndr]. Ma l'idea di sacra rappresentazione peccava di estetismo, occorreva riempirla di immagini e contenuti. Quattro nazifascisti fanno dei rastrellamenti; il castello di Sade dove portano i prigionieri, è un piccolo campione di lager. Mi interessava vedere come agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola in oggetto." Occorre infine tener conto, nel formulare o nel proporre conclusioni sull'ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, di quella che è una filosofia di fondo, riferita al cinema, del pensiero pasoliniano: "A mio parere, il cinema è sostanzialmente e naturalmente poetico [...] perché ha il carattere del sogno, perché è vicino ai sogni, perché una sequenza cinematografica è la sequenza cinematografica di un ricordo o di un sogno e non solo questo, ma le cose in se stesse sono profondamente poetiche: un albero fotografato è poetico, un volto umano fotografato è poetico, perché la fisicità è poetica in sé, perché è un'apparizione, piena di mistero, piena di ambiguità [...] Il cinema di poesia è il cinema che adotta una particolare tecnica, proprio come un poeta adotta una particolare tecnica per scrivere versi. Se si apre un libro di poesie, si riconosce immediatamente lo stile, il modo di rimare e tutto il resto: si vede la lingua come strumento, si contano le sillabe di un verso. L'equivalente di quello che si vede in un testo poetico lo si ritrova in un testo cinematografico, attraverso gli stilemi, ossia attraverso i movimenti di macchina e il montaggio. Per cui fare un film è essere poeti." A metà febbraio 1975 iniziano le riprese di Salò nelle campagne intorno a Mantova. Il 25 marzo, in una autointervista sul "Corriere della Sera" Pasolini tra l'altro scrive: "Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. […] Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c'è in Salò (e ce n'è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. […] [Le mie Centoventi giornate di Sodoma si svolgono a Salò nel 1944], e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti […] il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. […] In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme. […] Nel potere - in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo - c'è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. […] I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli". Pasolini ha concepito questo film, dunque, in un momento storico in cui percepiva lucidamente, attraverso tutto ciò che stava accadendo attorno a lui (la violenza, la corruzione, la caduta verticale dei valori, l'imposizione di miti consumistici, l'omologazione sociale e culturale) il grado di sfacelo di un intero paese e il crimine di un potere "tritacoscienze" che agiva - e agisce - in nome di una democrazia solo nominalmente, formalmente tale, una situazione di cui gran parte di noi italiani avrebbe cominciato a prendere coscienza solamente sul finire degli anni Ottanta. È interessante osservare come alcuni intellettuali abbiano percepito e commentato i contenuti dell'ultima opera cinematografica pasoliniana. Nell'esame di Enzo Siciliano, per esempio, vi sono due riflessioni che considero particolarmente interessanti: quella sull'"estraneazione teatrale" di scuola brechtiana e quella di una serie di brutalità orrende - radicali e totali - che i nazifascisti della repubblica di Salò avrebbero potuto credibilmente compiere. Torturare e uccidere, anche attraverso rivoltanti perversioni sessuali, era per i carnefici nazifascisti una possibilità concreta e non un frutto della "invenzione", o delle "fantasie distorte" di Pasolini (si veda il commento contenuto in queste Pagine corsare, e per molti versi ignobile ["Nulla ci può difendere dall'inganno"], del critico cinematografico Giovanni Grazzini. Mi verrebbe da dire: "Nulla ci può difendere dall'inganno del critico…"). Ma vediamo ciò che dice tra l'altro Enzo Siciliano: "Salò o le 120 giornate di Sodoma è una sorta di saggio critico per immagini. Tema del saggio, nel quale il romanzo postumo di Sade viene assunto come provocazione intellettuale, è la mentalità concentrazionaria nazifascista, istigatrice di violenza. Ma i suoi temi sono anche la trasgressione e la morte. […] Sade mette in bocca ai propri personaggi discorsi di incontinente verbosità e narrazioni di una programmatica astrattezza. Ebbene, tanto spreco di parole e discorsi ha un fine preciso: ridurre l'azione romanzesca a rito e a emblema. In Salò, ritualismo e emblematicità sadiani filtrano interi. I personaggi di Les 120 journées de Sodome interpretano, sulla pagina scritta, le proprie azioni al modo degli attori, non coincidendo mai con esse. Si verifica così un calcolato scollamento fra ciò che dicono e ciò che fanno. Pasolini punta deliberatamente a questo scollamento, a questa "estraneazione teatrale", di cui Brecht è stato il teorico. Salò, film "brechtiano", film "critico", film ritualistico, si apre con immagini di campagna padana: i nazifascisti vi compiono razzia di giovani. […] la cerimonia avrà inizio una volta che la razzia è accuratamente ultimata. […] Il potere è anarchia, dice Pasolini: il potere vuole abolire la storia e sopraffare la natura. Storia e natura possono essere abolite e sopraffatte attraverso il sesso. La cronaca dei fatti umani suggerisce che durante la repubblica di Salò, col dominio dei nazisti, una tale sopraffazione, radicale e totale, avrebbe potuto compiersi. Ecco, quindi, nel film sotto il suggerimento di Sade, rendersi esplicita la metafora di quella apocalisse". Il drammaturgo e critico Serafino Murri, nel suo importante intervento pubblicato qualche anno fa, pone l'accento su diversi aspetti del film e su alcune traversie che ne hanno caratterizzato la lavorazione. Ma è una sua considerazione che, in particolare, ha richiamato la mia attenzione: "Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi". È noto, infatti, che Pasolini era già stato oggetto di aggressioni, di minacce, e che era letteralmente "accerchiato" da una sorda ostilità: è possibile che in più d'una occasione abbia anche temuto per la sua vita. Ma a fronte di una persona che dice di se stessa, come egli fece, dopo Salò: "Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno", è priva di fondamento un'ipotesi che insinui che "sia andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo suicidasse" (si veda ancora il commento di Giovanni Grazzini). Ed ecco uno stralcio delle riflessioni di Murri: "Salò è di certo un film estremo, che risponde alla sfida della Tolleranza rappresentando tutto ciò che viene rimosso dall'immagine che la società dà di sé: la violenza e la perversione, reintegrate al finto candore televisivo di cui la nuova classe politica si fa scudo per imporre i suoi dettami, non possono che provocare indignazione e scandalo. Il film fu girato con difficoltà, tra le frequenti ribellioni degli attori, che cercavano di rifiutarsi di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li aveva immaginati il regista. Ma Pasolini, durante la lavorazione, non ha mai smussato alcuna di queste punte, e ha cercato di rappresentare consapevolmente "il cuore della violenza" con una freddezza e una lucidità espressive quasi maniacali: "Se uno deve cadere a terra morto, glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un corpo che cade morto. Insomma, un punto di perfezione formale che mi serve per chiudere in una specie di involucro le cose terribili di De Sade, del fascismo". Pasolini non fece in tempo a vedere, completo di montaggio, il suo film sul Potere. Quando Salò o le centoventi giornate di Sodoma fu proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista era già morto da tre settimane. Molti hanno interpretato la sua morte per assassinio come una sorta di "suicidio per procura", un gesto volutamente provocato da un uomo stanco di vivere, che cercava il pericolo e l'autoannullamento. Altri, rifacendosi alla violenta escalation della sua polemica politica degli ultimi mesi (era giunto a sostenere che occorreva una nuova Norimberga per la Dc), hanno adombrato il sospetto di una morte "non casuale", senza credere all'autonomia della colpevolezza di Giuseppe Pelosi, il ladruncolo minorenne che lo aveva ucciso. Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Che Salò potesse essere soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall'imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978, era prevedibile; e che le reazioni nell'opinione pubblica non avrebbero potuto essere di tacitante indifferenza, era l'aperta ambizione del regista: "Questo film va talmente al di là dei limiti, che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. È un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno", aveva detto Pasolini in una delle sue ultime interviste. […] si preparava dunque, Pasolini, a dare battaglia all'indifferenza, a turbare l'inquietante "sdrammatizzazione" operata dal Potere, in quel mondo oltre la fine del mondo dipinto con Salò?." Pasolini, infine, in una intervista, dichiarò: "Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di Salò è la denuncia dell'anarchia del potere e dell'inesistenza della storia? Eppure così enunciato tale messaggio è sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, cioè logico della stessa logica che non trova affatto anarchico il potere, e che trova esistente la storia, anzi, pone ciò come un dovere. La parte del messaggio che pertiene al senso del film è immensamente più reale, perché include anche tutto ciò che l'autore non sa, cioè l'illimitatezza della sua stessa restrizione sociale storica. Ma tale parte del messaggio è imparlabile, non può che essere lasciata al silenzio e al testo"

Angela Molteni giugno 1997

Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989
Ibidem
Pier Paolo Pasolini, Lettere 1955-1975 (a cura di Nico Naldini), Einaudi, Torino 1988
Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro Editore, Milano
Nico Naldini, cit.
Ibidem
Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 1995

Fonte:
http://pppasolini.altervista.org/articoli.htm


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Curatore, Bruno Esposito

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