La Stampa risponde a Pasolini
Il processo: e poi?
Pasolini la Dc, il Pci e gli altri
Pasolini la Dc, il Pci e gli altri
La Stampa domenica 14 settembre 1975
Anno 109 - Numero 212
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
In un articolo di fondo il quotidiano La Stampa risponde al "Processo ai gerarchi DC", immaginato da Pier Paolo Pasolini e provocatoriamente invocato attraverso due articoli pubblicati rispettivamente su Corriere e Il Mondo, il 24 agosto e il 28 agosto 1975.
A quest'articolo Pasolini, sempre dalle pagine del Corriere, risponde il 28 settembre 1975 affermando che “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” in un articolo titolato Perchè il processo.
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A quest'articolo Pasolini, sempre dalle pagine del Corriere, risponde il 28 settembre 1975 affermando che “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere” in un articolo titolato Perchè il processo.
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Pier Paolo Pasolini, riflettendo deluso, da un suo ritiro, sull'Italia d'oggi che è diversa da quella della sua giovinezza, ma che non solo per questo non gli piace più, ha proposto come panacea per i nostri mali, o come provocatorio schema interpretativo della nostra condizione, un « processo alla DC ». Egli lo vorrebbe celebrato subito e con gran pompa, per innumerevoli colpe.
Quest'idea non è così originale come è sembrata a molti. Pasolini ha soltanto trasposto sul piano dell'immaginazione drammatica qualcosa che, nella realtà, è già in atto. Che altro sono le cronache politiche italiane correnti se non un incessante processo alla DC? Di che cosa si è discusso e scritto se non di questo, da un paio d'anni a questa parte, nei comizi, nei quotidiani, sulle copertine dei settimanali, nelle vignette degli umoristi o nei saggi degli economisti, nei libri dei politologi e in quelli degli ecologi? Tutti (compresi molti, DC) celebrano instancabilmente il processo al potere in Italia, e quindi alla democrazia cristiana che lo detiene da trent'anni.
Non stupisce tanto la proposta pasoliniana, quanto lo stupore per il fatto che un uomo d'immaginazione abbia tradotto in canovaccio teatrale qualcosa a cui assistiamo ogni giorno. Anzi, il « processo » che è in corso nella vita pubblica, e che rappresenta una fase capitale nell'evoluzione della Repubblica, identificandosi con lo stesso meccanismo democratico, è assai più educativo e profondo di quello che si potrebbe mai combattere, a colpi di procedura, nelle aule di un tribunale italiano: chissà quanti rinvìi.
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Anche nella realtà, beninteso, i rinvìi non furono pochi: con danno anche dell'accusata. Tenendoci a questa immagine, si potrebbe dire che, avviato il procedimento, la dc ha subito alcune delibere preliminari avverse dei giudici-elettori; non ne ha tenuto conto per arroganza del potere; è stata condannata in modo netto, in un tribunale di prima istanza, il 15 giugno di quest'anno; soltanto allora si è allarmata e in preda a gran confusione ha finito per decidere che doveva cambiare collegio di avvocati e linea di difesa; si è infine immersa in una sofferta opera di autocritica e (forse) di autocorrezione, per presentarsi a future sentenze in condizioni più favorevoli. Fin qui l'immagine del processo calza; ma quello straordinario congegno che è il sistema democratico di governo è assai più complesso di qualsiasi procedura giudiziaria. In una democrazia ciascuna delle parti è simultaneamente giudice e imputato; il processo è un prisma a molte facce; il suo fine non è di produrre giudizi ma di provocare comportamenti diversi; le battaglie di parole e l'aritmetica dei voti incidono sulle cose. Inoltre, il procedimento non ha mai fine; in una democrazia, nessuna condanna è senza appello, nessuna vittoria o sconfitta è definitiva.
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Il Processo pasoliniano, per essere riflesso sincero della realtà, dovrebbe celebrarsi simultaneamente su più palcoscenici. Su uno di essi, oggi il principale, gli imputati sono i capi DC; ma sugli altri gli imputati sono diversi, giacché questo autoprocesso, il più severo che la nostra democrazia abbia mai conosciuto (forse è un segno di maturità, forse di decadenza), non risparmia nessuno. Esso investe la psicologia e i comportamenti delle masse, con le loro impazienze; dell'individuo italiano, con la sua povera socialità; delle categorie, con i loro egoismi «corporativi», come oggi si dice; delle forze economiche organizzate, con le loro miopie; degl'intellettuali, con i loro settarismi e la loro volubile superficialità; e naturalmente dei partiti. Il riflettore, dunque, non è sempre puntato sulla DC.
Talvolta illumina vividamente gli sbandamenti opportunistici di alcuni fra i piccoli « partiti-clienti »; talaltra, l'insicurezza e le brusche deviazioni di rotta dei socialisti; più spesso, la sempre riaffiorante ambiguità, o incertezza, o togliattiana doppiezza della dirigenza comunista. Questa non ha ancora avuto la forza di riconoscere fino in fondo la fatale responsabilità storica di avere falsato e compromesso così a lungo ogni potenziale alternativa democratica di sinistra, per aver deviato tanta parte della sinistra italiana sulla cattiva pista del leninismo-stalinismo, scambiato per socialismo. Ancora oggi, se il «Processo» italiano continua a presentare oscuri sbocchi, è in buona parte perché la dirigenza comunista non ha chiarito agli altri, e forse neppure a se stessa, che sia l'Urss; che cosa sia il socialismo; che cosa sia l'ideologia attuale del comunismo italiano.
Non basta, ai comunisti, replicare in tono irritato: noi siamo quello che siamo. Ma che cosa sono i nostri comunisti, che a Livorno dichiarano la loro appartenenza irrevocabile all'Occidente pluralista ed annunciano che non può esserci socialismo che non sia democratico; mentre a Firenze invitano quale << ospite d'onore >> al Superfestival dell'<<Unità>> nientemeno che la Repubblica Democratica Tedesca tutta intera, uno Stato che si conserva i cittadini circondando il proprio territorio ( nell'<<era della distensione») con barriere elettroniche, fili spinati e pattuglie di guardie che sparano? Che ha, questa Rdt, di socialista e di democratico, per essere offerta agl'Italiani come società modello? Perché il PCI sbandiera così i suoi Franco, invece di condannarli? E perché, ogni volta che gli si tocca l'Urss, ricade, per tutta reazione, in infantili esaltazioni del « paradiso sovietico », come fossimo nel 1948?
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La pluralità dei « processi » in corso, e quindi, fuor di metafora, la mancanza di alternative politiche limpide e rassicuranti, riconduce tutta l'attenzione sul processo in corso dentro la DC. Il male del partito è stato diagnosticato: presunzione, abuso di potere, occupazione e sfruttamento dello Stato (e che cosa non è Stato nell'Italia d'oggi?), inefficienza e così di seguito. Ma la cura come va? Siamo ancora alle prime scene; le parole sono molte (anche buone: come nell'intervista di Rumor al nostro giornale; o nel discorso di Moro a Bari); ma i fatti sono pochi. E' così difficile produrne? Indichiamo un solo mocratico, neppure tanto difficile: perchè non si è ancora ridato all'Italia una Rai-Tv autonoma, come vorrebbe la legge, non più parcellizzata tra i partiti, e largamente dominata dalla DC? Perché i processi in Italia vanno così per le lunghe?
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