"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
Biografia breve - 1974
seconda parte
Io so perché sono un intellettuale
La polemica continua:
L’articolo di Pier Paolo Pasolini pubblicato su Il Mondo l’11 luglio 1974, intitolato “Ampliamento del ‘bozzetto’ sulla rivoluzione antropologica in Italia”, è uno dei suoi interventi più lucidi e provocatori sul cambiamento profondo della società italiana nel dopoguerra. In questo testo, Pasolini risponde direttamente alle critiche di Alberto Moravia e Franco Fortini, affrontando il tema della trasformazione culturale e morale del popolo italiano.
Pasolini sostiene che la società italiana ha subito una rivoluzione antropologica: non semplicemente un cambiamento politico o economico, ma una mutazione profonda dell’identità, dei comportamenti e dei valori. Secondo lui:
• La cultura popolare tradizionale è stata spazzata via da un nuovo potere, più subdolo e totalitario: la società dei consumi.
• Questo potere agisce attraverso la televisione, la pubblicità e i modelli imposti, che plasmano desideri e comportamenti.
• Il risultato è una omologazione culturale: tutti aspirano agli stessi modelli, perdendo la propria autenticità.
Pasolini accusa la televisione di essere lo strumento principale di questa mutazione. Persino programmi apparentemente innocui come Carosello contribuiscono a diffondere un modello edonistico e consumista. Scrive:
“Giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici” — immagini che non rappresentano semplicemente mode, ma nuovi archetipi cui il popolo è costretto ad uniformarsi."
Pasolini contesta Moravia quando parla di “gente che vive a un livello pre-morale e pre-ideologico”. Per Pasolini, non esiste una condizione “pre...”: esistono culture diverse, con proprie morali e ideologie. L’errore degli intellettuali, dice, è quello di considerare la propria cultura come l’unica legittima.
A Fortini e Moravia, Pasolini risponde con una riflessione amara: anche le scelte politiche giuste (come il marxismo ortodosso) possono portare a risultati sbagliati se innestate su una cultura precedente non compresa o rispettata. Cita Stalin come esempio emblematico di questa contraddizione.
Pasolini identifica un “nuovo potere” che non è né fascista né comunista, ma più violento e totalitario: quello del consumismo. Questo potere non reprime, ma seduce, e trasforma le coscienze dall’interno.
“Esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze”.
«Paese sera», 15 luglio 1974 - F. Ferrarotti:
"Il potere bisogna stanarlo."
Ferrarotti, sociologo e pensatore tra i più influenti del Novecento italiano, ha spesso sostenuto la necessità di smascherare le forme nascoste del potere, quelle che si celano dietro le apparenze democratiche o burocratiche.
Un articolo in linea con il clima culturale di quegli anni, in cui figure come Pier Paolo Pasolini, Norberto Bobbio e lo stesso Ferrarotti cercavano di interpretare e denunciare le trasformazioni profonde della società italiana.
«Corriere della sera»,
18 luglio 1974 - M. Ferrara:
"I comunisti rispondono a Pasolini su Pannella."
L’articolo firmato da Maurizio Ferrara, intitolato "I comunisti rispondono a Pasolini su Pannella", è parte di una vivace polemica tra Pier Paolo Pasolini e il Partito Comunista Italiano (PCI), in particolare in risposta a un intervento di Pasolini che aveva criticato il PCI in merito alle posizioni assunte da Marco Pannella, figura centrale del Partito Radicale.
Ferrara, portavoce del PCI, reagisce con fermezza alle affermazioni di Pasolini, accusandolo di semplificazioni e di aver definito “volgare” la politica comunista. Pasolini, in un successivo intervento, accusa Ferrara di aver frainteso e distorto le sue parole, riducendo concetti complessi a caricature polemiche. In particolare, Pasolini chiarisce che la sua critica non era rivolta ai milioni di elettori comunisti, ma alle “oligarchie dirigenti” del partito.
Questo scambio è emblematico del clima politico e culturale degli anni ’70 in Italia, dove intellettuali come Pasolini sfidavano le ortodossie dei partiti tradizionali, e dove il PCI si trovava spesso a difendere la propria posizione contro voci critiche anche provenienti dalla sinistra.
«Il Popolo»,
18 luglio 1974 - A. Vinciguerra:
"Pasolini e Pannella egocentrici."
Il giudizio di Vinciguerra deve essere letto come una reazione conservatrice a due voci che disturbano l’ordine costituito: Pasolini con la sua critica alla modernità e Pannella con il suo attivismo non convenzionale. Entrambi, pur molto diversi, incarnano un dissenso profondo e personale, che spesso veniva etichettato come narcisismo o egocentrismo da chi non ne condivideva le battaglie.
«Il Corriere della Sera»,
19 luglio 1974 - G. Prezzolini:
"Polemica di un conservatore sul caso Marco Pannella."
Prezzolini, noto pensatore conservatore, esprime in questa occasione una posizione non priva di ambivalenze: da un lato riconosce la forza morale e la coerenza dell’azione di Pannella, dall’altro ne critica l’efficacia e il senso politico, ritenendo che il radicalismo pannelliano rischi di scivolare nell’utopismo e nell’inutilità pratica.
Pasolini, con con i suoi articoli, continua a generare forti polemiche. Le sue pubblicazioni sembrano mirate ad ottenere le risposte che lui vuole, quasi come se tutto debba seguire un suo schema. Accusa la DC di complicità con il nuovo "Potere", la Chiesa cattolica di non avere la forza di reagire contro ed il PCI, di assistere indifferente al genocidio culturale della società italiana. Il Potere con la "P" maiuscola, come lo definisce Pasolini, non crea progresso sociale ma solo sviluppo economico e speculativo. Attraverso i sui mezzi di comunicazione di massa, trasforma le persone in consumatori, generando in essi ansia di consumo a tutti i costi e necessità di possedere beni superflui.
"...Non è affatto vero che io non credo nel progresso, io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo. E nella fattispecie in questo sviluppo. Ed è questo sviluppo che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica..."
Continua a cercare un dialogo con i giovani ed in particolare, con i giovani comunisti che sono, per lui, la base di un partito che potrebbe essere un "Paese separato in un paese orrendamente sporco".
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Pier Paolo Pasolini sul palco di Villa Borghese. |

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l'Unità - domenica 21 luglio 1974
 | Corriere della sera - Venerdi 26 luglio 1974, pag 2 |
Il 26 luglio 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò sul Corriere della Sera l'articolo provocatorio intitolato "Abrogare Pasolini?", che poi venne incluso nella raccolta Scritti corsari
In questo articolo, Pasolini reagisce duramente alle critiche ricevute da Maurizio Ferrara, esponente del PCI, in seguito a un suo precedente intervento sul referendum sul divorzio. Ferrara aveva accusato Pasolini di aver definito la vittoria del "no" una "sconfitta" anche per il PCI, interpretando le sue parole in modo letterale e semplificato. Pasolini, con il suo stile tagliente e lucido, denuncia quella che considera una vera e propria operazione di linciaggio intellettuale, volta a screditarlo come persona per annullare il valore delle sue idee. "Abrogare Pasolini?" non è solo una provocazione, ma una riflessione sul tentativo di cancellare la voce di chi dissente, di chi non si allinea alle narrazioni ufficiali. Pasolini si sente “abrogato” non solo dal PCI, ma da un clima culturale che non tollera la complessità e il paradosso.
“Chi avesse la necessità primaria di ‘abrogarmi’ […] era aprioristicamente negato a comprendere qualsiasi altra cosa io dicessi.” "Quindi del problema italiano non se ne è mai parlato.
O, se lo si è fatto, non lo si è saputo. Il felice nominalismo dei sociologi pare esaurirsi dentro la loro cerchia. Io vivo nelle cose, e invento come posso il modo di nominarle. Certo se io cerco di «descrivere» l'aspetto terribile di un'intera nuova generazione, che ha subito tutti gli squilibri dovuti a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di «descriverlo» in «questo» giovane, in «questo» operaio, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di «questo» giovane, di «questo» operaio. Invece a me personalmente è la sola cosa che importa."
Pasolini non arretra: difende il diritto alla critica, anche scomoda, e rivendica la sua posizione di intellettuale indipendente, fuori da ogni schieramento.
*( In "Scritti corsari", con il titolo
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L'ultimo film di Pasolini denunciato prima di uscire sugli schermi !
MILANO, L'Unità di sabato 20 luglio 1974
La vergognosa e spesso grottesca storia della censura cinematografica in Italia si è arricchita oggi dì un nuovo incredibile episodio: il più recente film dì Pasolini, Il fiore delle « Mille e una notte » è stato denunciato per oscenità da una zelante signora milnnese, la quale ha avuto la possibilità di vedere la pellicola in occasione di un'anteprima svoltasi con lo scopo di raccogliere fondi per la realizzazione di un documentarlo intitolato Una Milano in cui la vita sia più umana.
La denuncia della spettatrice milanese ha messo il magistrato in una posizione alquanto insolita, dato appunto, che Il fiore delle « Mille e tuia notte» non è ancora uscito sugli schermi italiani.
Il 20 giugno, al cinema Capitol di Milano, in occasione dell’anteprima italiana de Il Fiore delle Mille e una notte, viene proiettato il documentario Le mura di Sana’a (girato nel 1970 durante le riprese de Il Decameron). Pasolini ha ora inserito anche alcune scene su Orte tratte dall’intervista audiovisiva La forma della città, come analogia di luoghi ugualmente minacciati. Da tempo infatti sta conducendo una personale battaglia per salvare il viterbese dal degrado e dalla speculazione edilizia. Tra le varie iniziative progetta un concorso, «Case di Chia nel verde», rivolto ai privati che «copriranno di verde le pareti nude delle loro case, oppure circonderanno le loro case di piante come lecci, allori, noccioli, ulivi, querce ecc.»,458 e tenta di promuovere il passaggio dell’Università della Tuscia da privata a statale. È un modo di difendere, al tempo stesso, le ragioni della cultura e quelle di un sano sviluppo di questa regione. Diventando statale, l’Università della Tuscia potrebbe finalmente diventare un organismo funzionale allo sviluppo civile dell’Alto Lazio, contribuendo fra l’altro al risanamento delle tradizionali basi economiche di tutta la regione: agricoltura, piccola proprietà, turismo, piccolo commercio...
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L'Unità / sabato 7 settembre 1974
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Il 7 settembre 1974, Pier Paolo Pasolini partecipa a una tavola rotonda a Milano durante il Festival Provinciale dell’Unità. Accanto a lui c'erano figure di spicco come Roberto Guiducci, Renato Guttuso e Giorgio Napolitano.
Il tema del dibattito è “Ideologia e politica nell’Italia che cambia”, e Pasolini intervenne con una riflessione intensa e provocatoria. Esprime una visione fortemente critica della società italiana, parlando di un “genocidio culturale” operato dalla borghesia attraverso la sostituzione occulta dei valori tradizionali con quelli consumistici. Secondo lui, questo processo non avvine più con la violenza esplicita, ma con una persuasione sottile e pervasiva, come quella esercitata dai media, in particolare la televisione.
Il suo intervento, pubblicato successivamente sul numero 38 di Rinascita del 27 settembre 1974, è considerato uno dei momenti più emblematici del suo pensiero politico e sociale. Un vero esempio di come Pasolini riuscisse a portare la sua sensibilità letteraria dentro il dibattito pubblico.
In luglio, su «Tempo», escono le recensioni alla raccolta di poesie di Carlo Betocchi Prime e ultimissime:
L’articolo “Il vecchio poeta ha smesso di giocare”, pubblicato da Pier Paolo Pasolini su Tempo il 5 luglio 1974, è una recensione intensa e commossa della raccolta Prime e ultimissime di Carlo Betocchi, poeta che Pasolini ammirava profondamente.
Pasolini, nel suo articolo, non si limita a una valutazione tecnica. Il titolo stesso — Il vecchio poeta ha smesso di giocare — suggerisce un cambiamento radicale: Betocchi, che aveva sempre cantato la vita con una sorta di “gioco sacro”, ora si confronta con la fine, con il dolore, con l’assenza di Dio.
- Pasolini parla di “una poesia che non consola”, ma che si fa testimonianza del dolore.
- Riconosce in Betocchi una figura profetica, che ha saputo attraversare la modernità senza tradire la propria voce.
- Ammira la nudità espressiva delle ultime poesie, dove la forma si piega alla necessità del dire, anche a costo di perdere armonia.
Pasolini, con la sua consueta lucidità e passione, analizza La Storia come un’opera monumentale e imperfetta, ma necessaria. Alcuni punti salienti del suo intervento:
• Ambizione e imperfezione: Pasolini definisce il romanzo “illimitato e imperfetto”, ma ritiene che proprio questi siano i tratti della sua grandezza. Scrivere un’opera perfetta e limitata sarebbe stato, secondo lui, un atto di mediocrità.
• Tre romanzi in uno: Il libro è diviso in tre parti:
• Il primo è “straordinariamente bello”, paragonabile ai Fratelli Karamazov.
• Il secondo è caotico, un “ammasso di informazioni sovrapposte”.
• Il terzo è bello ma discontinuo, con momenti di confusione e presunzione.
• La poetica degli inermi: Pasolini coglie nella Morante una tensione verso gli emarginati, gli innocenti, i sonnambuli della storia. La vera “storia” non è quella dei vincitori, ma quella degli esseri fragili, come Ida e Useppe, che vivono ai margini della violenza e del potere.
Nel 1974, Pier Paolo Pasolini collabora con Dacia Maraini all’adattamento italiano dei dialoghi del film Sweet Movie di Dušan Makavejev. Questo film, noto per il suo stile provocatorio e surreale, viene distribuito in Italia con il titolo Dolcefilm. La versione italiana è curata da Pasolini e Maraini, che si occuparono della traduzione e del doppiaggio, cercando di rendere accessibili — per quanto possibile — le complesse e spesso scioccanti metafore politiche e sociali del film.
La pellicola viene presentata al Festival di Cannes nel 1974 e giudicata dalla censura italiana, “indecente” - Un’opera decisamente estrema, che mescola anarchia, erotismo, critica sociale e simbolismi marxisti — non proprio il tipo di film che passa inosservato.
Durante l'estate, riprende a rimaneggiare la stesura del dramma "Bestia da stile (iniziato nel 1965). Questo lavoro non è solo una tragedia in senso classico, ma, col passare del tempo e con le nuove stesure, diventa quasi una vera e propria autobiografia poetica e politica, come lui stesso la definisce.
Il protagonista diventa Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si diede fuoco nel 1969 per protestare contro l’invasione sovietica: Pasolini lo immagina come suo alter ego ideale.
L’opera intreccia mito, storia, visione poetica e riflessione politica, con riferimenti alla resistenza antifascista, alla figura dei genitori, e alla morte del fratello Guido Pasolini.
Pasolini non solo rifinisce il testo, ma lo arricchisce di nuovi significati, rendendolo uno specchio della sua inquietudine e del suo pensiero radicale. Un vero laboratorio creativo, dove il teatro diventava confessione, denuncia e, forse, sogno.
Sempre durante l'estate, intensifica il lavoro su Petrolio, il suo ambizioso e controverso romanzo rimasto incompiuto. L’opera, iniziata nel 1972, rappresenta una sorta di “metaromanzo” che mescola narrativa, saggio politico, visioni allegoriche ecc. Pasolini stesso lo definisce un “poema” e lo struttura in una serie di appunti numerati, alcuni dei quali estremamente provocatori e sperimentali. Pasolini, profondamente immerso nella riflessione sul "Potere": sulla trasformazione antropologica dell’Italia, sul genocidio culturale del nostro paese con l’avvento di un "nuovo Potere transnazionale", che sta sostituendo le vecchie strutture ideologiche, religiose - omologando l'intero tessuto sociale italiano, al consumismo edonistico voluto da questo "Potere"(con la P maiuscola, come lui lo definisce). Queste idee si riflettono chiaramente nelle pagine di Petrolio, dove il protagonista Carlo incarna la scissione morale e politica dell’Italia contemporanea.
A tal proposito, è interessante leggere alcuni passi del suo intervento tenuto durante la tavola rotonda organizzata a Milano, il 7 settembre, nell’ambito del Festival Provinciale dell’Unità. Prendono parte alla tavola rotonda, oltre allo stesso Pasolini, Roberto Guiducci, Renato Guttuso e Giorgio Napolitano. Oltre ad un affondo netto e anche provocatorio, su quello che lui chiama «genocidio culturale» volto a trasformare antropologicamente la nostra società, fa un riferimento esplicito al romanzo che sta scrivendo, Petrolio.
Pasolini prende spunto da un’udienza di Paolo VI dell’11 settembre 1974 a Castel Gandolfo, in cui il Papa, con tono insolitamente drammatico, si interrogava sul futuro della Chiesa di fronte alla modernità: «Che cosa rimane della nostra religione? Che cosa rimane della Chiesa?»
Pasolini coglie la portata di quel discorso come un’illuminazione giunta dall’esterno, definendolo “un fulmineo sguardo dato alla Chiesa dal di fuori”. Secondo lui: per sopravvivere, la Chiesa dovrebbe passare all’opposizione rispetto al nuovo potere consumistico, persino “negare se stessa” per riconquistare i fedeli. Il rischio, secondo lui, è che il potere economico e culturale dominante riduca la Chiesa a puro folclore, e invita a un ritorno alle origini, alla lotta e alla rivolta contro un sistema “totalitario, violento, falsamente tollerante”.
“La Chiesa dovrebbe passare all’opposizione contro un potere che l’ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore”
Sempre in settembre pubblica su «Il Mondo» il primo canto della Divina Mimesis, con il titolo Condannato a vivere. Questa pubblicazione anticipava l’uscita postuma del libro, e rappresentava una sorta di manifesto poetico e ideologico: una riscrittura moderna e corrosiva dell’Inferno dantesco, dove Pasolini sostituiva le pene medievali con quelle inflitte dalla società neocapitalista. Il protagonista, alter ego dell’autore, si muove in una selva oscura non più simbolica, ma reale: quella dell’Italia degli anni ’60 e ’70, segnata da alienazione, conformismo e degrado morale.
Il titolo “Condannato a vivere” riflette perfettamente il tono esistenziale e tragico dell’opera, in cui la condanna non è ultraterrena, ma terribilmente presente e quotidiana.

In ottobre il documentario Le mura di Sana’a viene presentato da Pasolini a una conferenza stampa della Lega italo-araba. Tutt’altro che una semplice presentazione cinematografica: è un vero e proprio appello civile e culturale. Pier Paolo Pasolini, profondamente colpito dalla bellezza e dalla fragilità della città di Sana’a nello Yemen del Nord, girò il documentario Le mura di Sana’a nel 1970, utilizzando pellicola avanzata dalle riprese del Decameron. Il cortometraggio, della durata di circa 13 minuti, fu concepito come un “documentario in forma di appello all’UNESCO” per salvaguardare il patrimonio architettonico e culturale della città, minacciato da una modernizzazione selvaggia. Alla conferenza stampa della Lega italo-araba tenutasi a Roma nell’ottobre 1974, Pasolini denuncia con forza la distruzione delle mura antiche e l’avanzare di costruzioni “moderne” che stavano deturpando il paesaggio urbano. In quell’occasione disse:
“Ogni giorno che passa è un pezzo delle mura di Sana’a che crolla o viene nascosto da una catapecchia ‘moderna’”.
Il suo intervento, tanto appassionato quanto lucido, contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali. L’appello non cadde nel vuoto: nel 1986 la città vecchia di Sana’a viene dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
Radiocorriere 13/19 ottobre 1974
Il dibattito vede la partecipazione di figure di spicco come:
• Riccardo Lombardi, politico socialista e pensatore lucido del dopoguerra
• Alberto Moravia, scrittore e intellettuale antifascista
• Goffredo Parise, autore e giornalista
• Marco Pannella, leader radicale
Pasolini, nel suo intervento pubblicato su Il Messaggero il 17 ottobre 1974, scrive un testo folgorante intitolato Poveri ma fascisti, in cui analizzava il film di Naldini come una rappresentazione antropologica degli italiani del ventennio. Osservava le “facce” dei fascisti, non tanto come ideologi, ma come “poveri” e “piccoli borghesi” trascinati da una macchina propagandistica potente e seduttiva. Secondo lui, il film non era solo un documento storico, ma un “gioco terribile” che rivelava il rapporto tra il Capo e il Popolo, un rapporto “assurdo, bieco, ma reale”.
Il dibattito suscita reazioni contrastanti: alcuni lo considerano un film pericoloso, capace di suscitare empatia involontaria verso il regime, altri lo vedono come un’opera necessaria per comprendere il meccanismo del consenso. Pasolini stesso lo definisce “bellissimo ma anche pericoloso”.

In questo testo, Pasolini adotta la forma di un “progetto di romanzo” per denunciare, senza fare nomi espliciti ma con allusioni inequivocabili, ciò che lui ritiene essere la trama occulta dietro le stragi che avevano insanguinato l’Italia tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70.
Pasolini ripete ossessivamente “Io so” per affermare di conoscere i responsabili morali e politici delle stragi (Piazza Fontana 1969, Brescia e Bologna 1974), pur dichiarando di non avere prove o indizi tali, da avere rilevanza giudiziaria. Sostiene che sia compito dell'intellettuale quello di collegare fatti, indizi e silenzi omertosi, anche scollegati tra loro, per ricostruire un intero e coerente quadro politico (fatti e mandanti), anche senza prove formali.
Descrive questa strategia, che poi verrà denominata: "della tensione", in due fasi — una anticomunista e una antifascista — entrambe, secondo lui, orchestrate da un “vertice” di potere con appoggi internazionali, in particolare la CIA.
Il testo, insieme politico e letterario, mescola denuncia civile e costruzione narrativa.
Questo articolo è oggi diventato uno dei documenti più celebri e controversi della produzione pasoliniana, sia per il contenuto esplosivo, sia perché viene pubblicato meno di un anno prima del suo assassinio.
"Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del «vertice» che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli «ignoti» autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase, anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. [...]
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero."

L’intervista di Massimo Fini a Pier Paolo Pasolini pubblicata su L’Europeo nel dicembre 1974, intitolata “L’antifascismo come genere di consumo”, è una delle riflessioni più lucide e provocatorie del pensiero pasoliniano.
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