"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
PIER PAOLO PASOLINI
<< Padre nostro che sei nei Cieli >>
(l’uso della preghiera come rovesciamento etico e la crisi del sé borghese.)
tratto da "Affabulazione".
Garzanti
( dopo i versi segue breve commento)
*****
Padre nostro che sei nei Cieli,
io non sono mai stato ridicolo in tutta la vita.
Ho sempre avuto negli occhi un velo d'ironia.
Padre nostro che sei nei Cieli:
ecco un tuo figlio che, in terra, è padre...
È a terra, non si difende più...
Se tu lo interroghi, egli è pronto a risponderti.
È loquace. Come quelli che hanno appena avuto
una disgrazia e sono abituati alle disgrazie.
Anzi, ha bisogno, lui, di parlare:
tanto che ti parla anche se tu non lo interroghi.
Quanta inutile buona educazione!
Non sono mai stato maleducato una volta nella mia vita.
Avevo il tratto staccato dalle cose, e sapevo tacere.
Per difendermi, dopo l'ironia, avevo il silenzio.
Padre nostro che sei nei Cieli:
sono diventato padre, e il grigio degli alberi
sfioriti, e ormai senza frutti,
il grigio delle eclissi, per mano tua mi ha sempre difeso.
Mi ha difeso dallo scandalo, dal dare in pasto
agli altri il mio potere perduto.
Infatti, Dio, io non ho mai dato l'ombra di uno scandalo.
Ero protetto dal mio possedere e dall'esperienza
del possedere, che mi rendeva, appunto,
ironico, silenzioso e infine inattaccabile come mio padre.
Ora tu mi hai lasciato.
Ah, ah, lo so ben io cosa ho sognato
quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te.
Ecco perché è cambiata la mia vita.
E allora, poiché Ti ho,
che me ne faccio della paura del ridicolo?
I miei occhi sono divenuti due buffi e nudi
lampioni del mio deserto e della mia miseria.
Padre nostro che sei nei Cieli!
Che me ne faccio della mia buona educazione?
Chiacchiererò con Te come una vecchia, o un povero
operaio che viene dalla campagna, reso quasi nudo
dalla coscienza dei quattro soldi che guadagna
e che dà subito alla moglie – restando, lui, squattrinato,
come un ragazzo, malgrado le sue tempie grigie
e i calzoni larghi e grigi delle persone anziane...
Chiacchiererò con la mancanza di pudore
della gente inferiore, che Ti è tanto cara.
Sei contento? Ti confido il mio dolore;
e sto qui a aspettare la tua risposta
come un miserabile e buon gatto aspetta
gli avanzi, sotto il tavolo: Ti guardo, Ti guardo fisso,
come un bambino imbambolato e senza dignità.
La buona reputazione, ah, ah!
Padre nostro che sei nei Cieli,
cosa me ne faccio della buona reputazione, e del destino
– che sembrava tutt'uno col mio corpo e il mio tratto –
di non fare per nessuna ragione al mondo parlare di me?
Che me ne faccio di questa persona
cosi ben difesa contro gli imprevisti?
Pier Paolo Pasolini
Commento
Questo commento offre una lettura critica e filologicamente orientata del monologo «Padre nostro che sei nei Cieli» tratto da Affabulazione di Pier Paolo Pasolini.
Affabulazione appartiene al periodo nel quale l’autore accentua la tensione tra impegno etico e sperimentazione formale passando da cinema, letteratura e poesia al teatro come luogo di drammatizzazione pubblica delle crisi identitarie. La pièce mette in scena la dissoluzione di un ordine familiare e sociale, con un protagonista che incarna la crisi della borghesia italiana. Il monologo prende la forma della preghiera tradizionale e la trasforma in confessione laica: una potente invocazione che rovescia il tono solenne del Padre Nostro per trasformarlo in un monologo intimo, doloroso e disarmato, svelando la contraddizione tra immagine pubblica e fragilità privata. Nel contesto teatrale pasoliniano il monologo agisce come dispositivo di auto‑rivelazione e di confronto con il pubblico. La reiterazione della formula sacra trasforma il palcoscenico in confessionale laico e in laboratorio di smascheramento delle identità sociali.
Il testo è tratto da Affabulazione, tragedia scritta da Pasolini nel 1966 e pubblicata postuma nel 1977. L’opera mette in scena il dramma di un padre borghese che, ossessionato dal figlio, attraversa una crisi esistenziale e identitaria. Questo monologo è uno dei momenti più intensi, in cui il protagonista si rivolge a Dio con una preghiera che è confessione, sfogo, e abbandono.
Pasolini alterna lessico elevato e lessico popolare per creare scarti di senso che mettono in crisi la continuità identitaria del parlante. L’ironia è descritta come armatura difensiva iniziale; il silenzio come seconda difesa; infine la spoliazione di entrambe mostra la vulnerabilità del soggetto. Le metafore principali — «due buffi e nudi lampioni», «gatto sotto il tavolo», «calzoni larghi e grigi» — funzionano come icone di erosione della dignità sociale. La struttura procede per accumulazione: il soggetto ricostruisce la propria storia difensiva, dichiara il sogno rivelatore e si abbandona a una retorica di ridicolo e sconfitta. Il ritmo si carica progressivamente di pathos attraverso frasi frammentate e ripetizioni che spezzano l’ordine narrativa, provocando discontinuità emotiva. Il sogno in cui appare la figura divina costituisce la molla della trasformazione. Non si tratta di una redenzione stabilizzante, ma di una lacerazione che costringe il parlante a confrontarsi con la propria miseria e a scegliere la vergogna come nuova modalità espressiva.
La paternità è trattata come figura ambivalente: ruolo protettivo e insieme posizione esposta alla perdita delle difese. Il parlante si dichiara padre ma percepisce di essere ancora figlio, configurando una tensione tra autorità apparente e dipendenza emotiva che destabilizza l’ethos borghese. La «buona educazione» e la reputazione sono presentate come maschere sociali che garantivano immunità dallo scandalo. Il crollo di queste maschere espone il soggetto a una verità nuda che coincide con la perdita del prestigio: la coscienza della povertà morale sostituisce la sicurezza della rispettabilità. La preghiera tradizionale è ribaltata in confessione laica. Dio non interviene come giudice o consolatore; il colloquio con la divinità rimane monologo in cui il parlante assume la posizione del marginale che osa parlare senza ritegno. La religione diventa cornice della messa a nudo anziché strumento di integrazione morale. L’identificazione del protagonista con figure popolari non è mera idealizzazione, ma strategia di spoliazione: assumere il linguaggio dei «poveri» per smantellare l’armatura borghese e mettersi volontariamente nella condizione di chi non può o non vuole salvare la facciata sociale.
La frase iniziale «Padre nostro che sei nei Cieli» funziona da ritornello che si rinnova e muta significato; ogni ripetizione introduce una sfumatura diversa di intimità, smarrimento o sarcasmo. L’alternanza tra tono vulgare e alto, l’uso dell’ironia come armatura perduta e la metafora del lampione che illumina la miseria configurano un lessico che oscilla tra sacro e profano. Frasi brevi e incrinate convivono con immagini lunghe e descrittive; il parlante mostra una progressione emotiva che va dall’auto-difesa all’umiliazione. Il padre come figura difensiva e insieme fragile; il sogno di Dio come evento rivelatore; la trasformazione in "gatto" e "operaio" come spoliazione di statuto e protezioni. Il monologo propone un’etica della vergogna che si oppone all’etica della rispettabilità. Confessare la miseria, svelare la caduta, parlare senza pudore diventano gesti politici perché minano l’egemonia simbolica della borghesia.
La scena conserva piena attualità nella contemporaneità dei linguaggi pubblici e delle pratiche di rappresentazione del sé. Nel momento in cui l’identità pubblica si regge su performatività e immagine, il gesto pasoliniano di togliere la maschera e parlare «come un povero» resta una provocazione critica nei confronti delle forme di protezione simbolica che legittimano diseguaglianze. La forza del monologo risiede nella capacità di trasformare la liturgia in tecnica di svelamento e la confessione in strumento di analisi politica. L’eredità di questo passo consiste nella sua potenza destabilizzante: obbligare il lettore e lo spettatore a misurarsi con la disparità tra apparenza e ferita.
Bruno Esposito
Curatore, Bruno Esposito
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