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sabato 29 marzo 2025

Pasolini, In margine all’esistenzialismo - Libertà, 30 giugno 1946, pag.3

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




 Pasolini
In margine all’esistenzialismo

Libertà

30 giugno 1946

pag.3

(Trascrizione dal cartaceo curata da Bruno Esposito)


Mi sono chiesto più volte se sia possibile, o almeno ammissibile guardare a Leopardi come a un precursore dell'esistenzialismo.

Naturalmente in tal caso sarebbe necessario leggere sotto quella sua prosa perfetta, patinata d'antico, dimenticare un momento il suo linguaggio, che è la sintesi della nostra lingua tradizionale e un’apertura improvvisa verso commoventi modernità; così potremmo forse distaccare, con la gratuità di simili operazioni, quello che chiamiamo il contenuto, o, nel caso di Leopardi, il pessimismo.

È evidente che il pessimismo leopardiano è uno stato d’animo altamente intellettuale, privo di sentimentalismo, antiromantico. Ma dimentichiamo, ripeto, il modo con cui si esprime (quell’accoratezza, quella tenerezza virile, quell’ironia marmorea) e ci

resterà un'ombra terribile, la noia. È una condizione umana insopportabile, che non può condurre che all'inerzia, o al suicidio, o, infine, all'azione (si ricordi il Leopardi giovane di All'Italia), e che invece è stata risolta in poesia. Resta al critico il compito di distinguere gli arrivi incomparabilmente felici di quella poesia dalle intenzioni che più restano vicine alla sorda e insostenibile coscienza della vanità dello stato umano. A noi che qui appariamo in veste non critica, sia lecito sollevare il velo candidissimo sulla nudità indifesa di uno spirito privo di limiti e d’inganni, continuamente conscio del nulla, della morte, dell’irragionevolezza della propria presenza... Non è questo — mutato clima, ambiente, tradizione — lo spleen baudelairiano? Più volte si sono pronunciati insieme i due nomi: e infatti ad ambedue «la forma» è stata il pretesto che li ha tenuti in vita, sviandoli dallo scomparire anzitempo nel nulla, Dopo la loro esperienza (e soprattutto, come esperienza, quella di Baudelaire; e in Francia) spietatamente inesorabilmente si è discesi per la china che si era aperta innanzi. Questa discesa è stata chiamata decadenza, ma il nome, al solito, non rispecchia la verità. Mai in tutta la storia dello spirito umano si è riscontrato al contrario, tanto coraggio di giungere alle estreme conseguenze, tanta impetuosa coerenza di indagine interiore, e, infine tanta spregiudicatezza nel sopportare la rovina operata dentro se stessi, da se stessi. Io sarei propenso a considerare questa decadenza come il rinnovarsi — naturalmente imprevedibile — di quella dignità umana che nella Rinascenza trovò la sua validità nel riscattare l’uomo dal suo complesso d’inferiorità di fronte all’altra vita o,      infine, dalla sua ignoranza; ma che col trascorrere degli anni insensibilmente era divenuta una categoria ormai senza senso, un'abitudine,

un’ignoranza. Si pensi, come esempio, a ciò che era divenuta quella «dignità» nella poesia carducciana. La lunga crisi che dal simbolismo giunge al surrealismo e all’esistenzialismo, è, dal nostro punto di vista, un’ascesa, non una discesa, in cui di volta in volta, lo spleen baudelairiano (e la noia del Leopardi), l’inferno di Rimbaud, la purezza di Mallarmé — e l’angoscia di Kierkegaard, l’inconscio di Freud... — sono le sommità (ricordate lo slogan per la Rinascenza? «Homo est fere deus...») di questa nuova civiltà troppo cosciente, disperata, ma non meno atta a suggerire un nuovo senso della dignità umana. Per ammettere questo è necessario partecipare alla sofferenza, finalmente completa, senza spiragli, dell’esistenzialista, E dicendo esistenzialista intendo allargare il significato di questa parola, secondo certi termini eterni (nulla, morte, destino, azione,..) per cui esistenzialista non è solo colui che si interessa dell’esistenzialismo, o vi milita, ma colui che soffre coscientemente e in modo totale, come solo un’epoca in cui l’esistenzialismo è nato, può consentire. Per farmi intendere chiaramente direi che tale sofferenza è quella di un mistico che non attende la grazia. E in realtà la formula «esistenzialismo come misticismo ateo» mi riesce quanto mai allettante. Nell’esistenzialismo non si rintracciano forse tutti i sintomi dell’esperienza mistica? Eckhart, se fosse vissuto dopo Darwin e Freud, non sarebbe stato forse un esistenzialista? Ed ecco fatti i nomi, Darwin, Freud. L’esistenzialismo viene dopo il positivismo, ne è condizionato; è una condizione laica, per non dire atea: l’uomo tutto affidato alla sua esistenza, a null’altro che a questo fatto concreto e angoscioso. Esso non è solo una reazione all'idealismo come sistema, ma all’idealismo come stato sentimentale ottimistico, che esso sì, assai più del materialismo, corrisponde a un’eterna mentalità borghese. Ora gli esistenzialisti dovrebbero, a nostro avviso, riabilitare agli occhi dei contemporanei quel materialismo che è stato solo provvisoriamente superato da una reazione dell’idealismo con Croce, e che invece resta la sorgente più vera e più profonda della nostra condizione di uomini moderni. (Non penso al materialismo divenuto moda insolente e amena, le cui immagini restano nelle fotografie dei vecchi giornali. Penso al materialismo che ha consentito il progresso scientifico incredibile di questo secolo, per cui il mondo è veramente mutato di fronte agli occhi del vivente, e certi ripensamenti periodici di esso non possono ormai non avvenire su un piano diverso che per il passato; penso al materialismo che ha inventato la filologia e la glottologia, ampliando infinitamente il campo dell’indagine storica e letteraria, aprendo mondi sconosciuti come il mondo romanzo; penso al materialismo che ha debellato i miti della religione, collocando il cristianesimo entro i limiti di un'alta e ineluttabile necessità umana, penso al materialismo che ha reso possibile Marx e le teorie sociali.)

Pier Paolo Pasolini


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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