"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini Pier Paolo
L'usignolo della chiesa cattolica
Angela Migliore
Pubblicato nel 1958, “L’usignolo della Chiesa Cattolica” comprende versi scritti tra il 1943 ed il 1949 palesando, come già era accaduto per la narrativa con “Il sogno di una cosa”, quanto l’ininterrotta fedeltà di Pasolini alla poesia sia estranea ad una cronologia lineare. Incuneandosi tra “Le ceneri di Gramsci” (1957) e “La religione del mio tempo” (1961) questa raccolta si fa, infatti, testimonianza di un percorso incapace di scandirsi per tappe in progressione, dando vita ad un corpus poetico privo di continuità, fattore evidenziato in più di un’occasione anche dal sofferto placet ripetutamente negato dall’editoria, finita spesso col dilatare la diacronia alla base dell’intera produzione pasoliniana.
Nato come “libretto di meditazioni religiose” in friulano, L’usignolo risulta fortemente investito dal problema della “traduzione”, del travaso cioè da un codice all’altro, denunciando, con la sua stessa genesi e successiva metamorfosi, il vincolo che lega la lingua frutto delle sofferte potature e dei continui ritocchi susseguitisi negli anni, al dialetto. Col calco sul friulano a generare un italiano cui l’autore stesso riconosce “un’aria romanzata e ingenua” proprio in virtù di questi complessi rapporti interlinguistici. Pasolini, infatti, rinuncia al versificare dell’800, spoglia l’italiano dalla ridondanza di Foscolo e Leopardi e instaura un parallelismo col dialetto capace di rivelarsi produttivo per largo tratto, incidendo nella prosodia giocata sul verso breve e nella maglia delle rime ravvicinate, ma subendo poi lo strappo di una netta divaricazione a partire dai componimenti datati 1947.
Il labor limae è febbrile e accompagna tutto il lungo iter verso la pubblicazione che, dal 1943 al 1958, vede protagonista questa raccolta, per la quale Pasolini scrive di “sentire una certa tenerezza, poiché rappresenta quel sé ventunenne e ancora vergine, che ritornato a Casarsa dopo molto tempo, si era lasciato suggestionare da una specie di cristianesimo paesano, non senza trovare però nel suo Eros esasperato dolci ed inequivocabili fonti d’eresia. Ma le situazioni non si risolvono, si consumano…”
Così come il dolore consuma il verso saturo d’angoscia in cui il nostro sviscera il proprio dissidio interiore, il tormento scaturito dalla lacerazione tra la tensione celeste e la condizione umana, con l’usignolo, già topos della lirica provenzale ed immagine capace di attraversare l’intera tradizione italiana, a mettere in scena, cantando, la straziante dicotomia tra innocenza e peccato, colpa e rimorso, sacro e profano.
“Povero uccelletto, dall'albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino!”.
Sin dalla sezione che inaugura il libro, sua omonima nel titolo, Pasolini ricorre a questa figura simbolica per esprimere, “la contraddizione esistente tra il volgere lo sguardo questuante all'infinito, nel gesto di ‹‹far cantare il cielo›› e il ricadere entro il limite di un ‹‹fischiettare›› tutto umano, quasi rabbrividito dentro una pena incolmabile” (Da Fulvio Panzeri, Guida alla lettura di Pasolini ).
Le ripetute opposizioni si risolvono in una fusione che non appiana, non lascia combaciare i contrari chiudendoli, invece, nell’ossimoro: nella convergenza di una religione che è già eresia e culmina nell’autoidentificazione dell’autore con il Cristo in croce. La seconda sezione dal titolo “Il pianto della rosa”, celebra, di seguito, la violenta e decisa scoperta del corpo. Qui si supera l’immedesimazione nel Cristo per concedere campo al Narciso e al suo peccato con “Il non credo” a ribadire l’urgenza della violazione e la bestemmia come forma autentica di preghiera rivolta verso “il Dio/che Pasolini non sa né ama”.
Si avverte netto, quindi, il disagio di colui che scrive, in costante travaglio tra carne e cielo. Lo smarrimento è totale all’interno della terza sezione intitolata “Lingua”, dove la crisi linguistica diventa, appunto, specchio dell’inquietudine interiore simboleggiando l’abbandono degli anni giovani e il doloroso ingresso nel mondo degli adulti che postula anche il distacco dalla madre, figura determinante specie all’interno della quarta sezione, “Paolo e Baruch”, in cui l’autore giunge ad ammettere l’omosessualità proprio come corollario dell’amore nei confronti di lei: “Mi innamoro dei corpi/che hanno la mia carne di figlio… i corpi dei figli/coi calzoni felici/col bruno o il biondo/delle madri nei passi”. E di nuovo prende forma l’identificazione col Cristo crocifisso qui esasperata al punto da diventare paradigma pasoliniano e cristallizzarsi nel “programma morale” di testimoniare lo scandalo.
La quinta sezione intitolata “L’Italia”, costituisce una fuga dalle tematiche fin qui esposte per immergersi nei colori e nei profumi di un mondo distante, ormai remoto, che Pasolini rievoca con nostalgia nelle pagine di assorta contemplazione di cui si compone questo vero e proprio romanzo in versi venuto ad inframmezzarsi come pausa di respiro prima dei quattro tormentati testi di “Tragiques” dove si riaffaccia il dissidio interiore dell’omosessualità combattuta e rivendicata. L’atmosfera è livida di sofferenza, nei componimenti ritornano stralci dei vecchi diari degli anni di Ramoscello, dello scandalo, delle umiliazioni in tribunale e i “Madrigali a Dio” sono urla blasfeme, ma al tempo stesso richiesta di perdono. Il cerchio si chiude con “La scoperta di Marx”, settima ed ultima sezione, in cui ritorna il tema del trauma figlio del distacco dovuto al faticoso ingresso nell’universo, per così dire, storico.
La sensazione di perdita già espressa in “Lingua” e “Tragiques” qui si dilata all’inverosimile, caricandosi di pathos proprio nel corso del lungo monologo indirizzato alla madre, figura simbolica verso la quale Pasolini si rivolge dichiarando “l’accettazione contrastata e perennemente dibattuta del mondo degli adulti” (Da Bertone – Note sulla versificazione di Pasolini). Tuttavia il passo in apertura tratto da Gor’kij, pare offrire un’ulteriore possibilità d’interpretazione per l’intera raccolta. “Quasi come se, a sigillo dell’avventura friulana, la citazione raccogliesse un giudizio critico su quegli anni, un commento disilluso sulla scelta dell’impegno: un amore presunto, che svela la propria essenza di ‹‹meccanica inclinazione verso la massa››. E, dopo l’abbaglio, il ritorno alla madre, all’amore che non deflette” (dall’introduzione di Pellegrini).
In definitiva un libro corroso dal bisogno di purezza, il poeta scrive affinché si plachino in lui il senso del peccato e il rovello per la castità violata attraverso i propri desideri sessuali. I suoi sono versi che denunciano la distanza da “L'Occhio di Dio”, tuttavia chiedendo che ritorni su di lui, nonostante “l'amore sacrilego” da cui è pervaso. E la sua voce diventa canto straziante d’usignolo al quale accosta, con maestria, altri timbri mediante preziosi intarsi plurilingui: dal provenzale di Bernart di Ventadorm, al francese, al latino per giungere finanche ad un dubbio tedesco, mutuando frammenti dal Vangelo di Giovanni, da canti liturgici, da Pascal e subendo fascinazioni da Baudelaire, da Rimbaud, da Villon in righe che nulla lasciano al caso rivelandosi, invece, determinanti per la fondazione del significato. Per la comprensione di una poetica che nasce dal donarsi incondizionato di un artista che si espone con chiarezza di cuore sacrificando ogni giorno il dono, rinunciando ogni giorno al perdono, sporgendosi ingenuo sull’abisso, anche oltre la vita.
Pier Paolo Pasolini, “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, Milano, Garzanti, 2000.
Fonte:Nato come “libretto di meditazioni religiose” in friulano, L’usignolo risulta fortemente investito dal problema della “traduzione”, del travaso cioè da un codice all’altro, denunciando, con la sua stessa genesi e successiva metamorfosi, il vincolo che lega la lingua frutto delle sofferte potature e dei continui ritocchi susseguitisi negli anni, al dialetto. Col calco sul friulano a generare un italiano cui l’autore stesso riconosce “un’aria romanzata e ingenua” proprio in virtù di questi complessi rapporti interlinguistici. Pasolini, infatti, rinuncia al versificare dell’800, spoglia l’italiano dalla ridondanza di Foscolo e Leopardi e instaura un parallelismo col dialetto capace di rivelarsi produttivo per largo tratto, incidendo nella prosodia giocata sul verso breve e nella maglia delle rime ravvicinate, ma subendo poi lo strappo di una netta divaricazione a partire dai componimenti datati 1947.
Il labor limae è febbrile e accompagna tutto il lungo iter verso la pubblicazione che, dal 1943 al 1958, vede protagonista questa raccolta, per la quale Pasolini scrive di “sentire una certa tenerezza, poiché rappresenta quel sé ventunenne e ancora vergine, che ritornato a Casarsa dopo molto tempo, si era lasciato suggestionare da una specie di cristianesimo paesano, non senza trovare però nel suo Eros esasperato dolci ed inequivocabili fonti d’eresia. Ma le situazioni non si risolvono, si consumano…”
Così come il dolore consuma il verso saturo d’angoscia in cui il nostro sviscera il proprio dissidio interiore, il tormento scaturito dalla lacerazione tra la tensione celeste e la condizione umana, con l’usignolo, già topos della lirica provenzale ed immagine capace di attraversare l’intera tradizione italiana, a mettere in scena, cantando, la straziante dicotomia tra innocenza e peccato, colpa e rimorso, sacro e profano.
“Povero uccelletto, dall'albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino!”.
Sin dalla sezione che inaugura il libro, sua omonima nel titolo, Pasolini ricorre a questa figura simbolica per esprimere, “la contraddizione esistente tra il volgere lo sguardo questuante all'infinito, nel gesto di ‹‹far cantare il cielo›› e il ricadere entro il limite di un ‹‹fischiettare›› tutto umano, quasi rabbrividito dentro una pena incolmabile” (Da Fulvio Panzeri, Guida alla lettura di Pasolini ).
Le ripetute opposizioni si risolvono in una fusione che non appiana, non lascia combaciare i contrari chiudendoli, invece, nell’ossimoro: nella convergenza di una religione che è già eresia e culmina nell’autoidentificazione dell’autore con il Cristo in croce. La seconda sezione dal titolo “Il pianto della rosa”, celebra, di seguito, la violenta e decisa scoperta del corpo. Qui si supera l’immedesimazione nel Cristo per concedere campo al Narciso e al suo peccato con “Il non credo” a ribadire l’urgenza della violazione e la bestemmia come forma autentica di preghiera rivolta verso “il Dio/che Pasolini non sa né ama”.
Si avverte netto, quindi, il disagio di colui che scrive, in costante travaglio tra carne e cielo. Lo smarrimento è totale all’interno della terza sezione intitolata “Lingua”, dove la crisi linguistica diventa, appunto, specchio dell’inquietudine interiore simboleggiando l’abbandono degli anni giovani e il doloroso ingresso nel mondo degli adulti che postula anche il distacco dalla madre, figura determinante specie all’interno della quarta sezione, “Paolo e Baruch”, in cui l’autore giunge ad ammettere l’omosessualità proprio come corollario dell’amore nei confronti di lei: “Mi innamoro dei corpi/che hanno la mia carne di figlio… i corpi dei figli/coi calzoni felici/col bruno o il biondo/delle madri nei passi”. E di nuovo prende forma l’identificazione col Cristo crocifisso qui esasperata al punto da diventare paradigma pasoliniano e cristallizzarsi nel “programma morale” di testimoniare lo scandalo.
La quinta sezione intitolata “L’Italia”, costituisce una fuga dalle tematiche fin qui esposte per immergersi nei colori e nei profumi di un mondo distante, ormai remoto, che Pasolini rievoca con nostalgia nelle pagine di assorta contemplazione di cui si compone questo vero e proprio romanzo in versi venuto ad inframmezzarsi come pausa di respiro prima dei quattro tormentati testi di “Tragiques” dove si riaffaccia il dissidio interiore dell’omosessualità combattuta e rivendicata. L’atmosfera è livida di sofferenza, nei componimenti ritornano stralci dei vecchi diari degli anni di Ramoscello, dello scandalo, delle umiliazioni in tribunale e i “Madrigali a Dio” sono urla blasfeme, ma al tempo stesso richiesta di perdono. Il cerchio si chiude con “La scoperta di Marx”, settima ed ultima sezione, in cui ritorna il tema del trauma figlio del distacco dovuto al faticoso ingresso nell’universo, per così dire, storico.
La sensazione di perdita già espressa in “Lingua” e “Tragiques” qui si dilata all’inverosimile, caricandosi di pathos proprio nel corso del lungo monologo indirizzato alla madre, figura simbolica verso la quale Pasolini si rivolge dichiarando “l’accettazione contrastata e perennemente dibattuta del mondo degli adulti” (Da Bertone – Note sulla versificazione di Pasolini). Tuttavia il passo in apertura tratto da Gor’kij, pare offrire un’ulteriore possibilità d’interpretazione per l’intera raccolta. “Quasi come se, a sigillo dell’avventura friulana, la citazione raccogliesse un giudizio critico su quegli anni, un commento disilluso sulla scelta dell’impegno: un amore presunto, che svela la propria essenza di ‹‹meccanica inclinazione verso la massa››. E, dopo l’abbaglio, il ritorno alla madre, all’amore che non deflette” (dall’introduzione di Pellegrini).
In definitiva un libro corroso dal bisogno di purezza, il poeta scrive affinché si plachino in lui il senso del peccato e il rovello per la castità violata attraverso i propri desideri sessuali. I suoi sono versi che denunciano la distanza da “L'Occhio di Dio”, tuttavia chiedendo che ritorni su di lui, nonostante “l'amore sacrilego” da cui è pervaso. E la sua voce diventa canto straziante d’usignolo al quale accosta, con maestria, altri timbri mediante preziosi intarsi plurilingui: dal provenzale di Bernart di Ventadorm, al francese, al latino per giungere finanche ad un dubbio tedesco, mutuando frammenti dal Vangelo di Giovanni, da canti liturgici, da Pascal e subendo fascinazioni da Baudelaire, da Rimbaud, da Villon in righe che nulla lasciano al caso rivelandosi, invece, determinanti per la fondazione del significato. Per la comprensione di una poetica che nasce dal donarsi incondizionato di un artista che si espone con chiarezza di cuore sacrificando ogni giorno il dono, rinunciando ogni giorno al perdono, sporgendosi ingenuo sull’abisso, anche oltre la vita.
Pier Paolo Pasolini, “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, Milano, Garzanti, 2000.
http://www.lankelot.eu/letteratura/pier-paolo-pasolini-lusignolo-della-chiesa-cattolica.html
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