"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini e le ultime illusioni
Di Franco Fortini
Questi dialoghi con i lettori sono soprattutto dialoghi con dei comunisti, anzi con il comunismo italiano. C’è spesso, del Pasolini migliore, non solo l’ininterrotto calore della mente, la volontà di capire e di essere capito, e quella pazienza pedagogica che Zanzotto ha così bene messo in evidenza; c’è anche — e anche questo fa parte del Pasolini migliore — una volontà di essere accettato, di avere un pubblico visibile. Sono di quelli cui ha dato e continua a dar noia la mitografia editoriale su Pasolini; di quelli che preferiscono inoltrarsi odiosi, incomprensivi, ingiusti — ché tale sono stato con Pasolini vivo — piuttosto che spartire una qualità di ammirazione e di liturgia repellente, in particolare quella votata alla memoria necrofila dell’assassinato. Essa mi pare non troppo diversa dalla diffamazione a bassa voce che della sua poesia va diffondendosi ad opera di quelli cui egli aveva, da vivo, data troppa
ombra. Eppure m’è difficile resistere alla simpatia per queste pagine: ricchissime non solo di ‘chiavi’ per le più complesse opere del loro autore ma soprattutto per due costanti, fra loro congiunte, quella del rapporto fra socialismo e cristianesimo e quella della riflessione sul linguaggio. Quest’ultima (mi fa notare la sensibilità, anche professionale, di Pier Vincenzo Mengaldo) è qui al centro di alcuni dei passi migliori: l’intelligenza poetica di Pasolini gli fa intendere che per lui, ossia per la sua opera, i temi e gli interrogativi del linguaggio traspongono proprio quelli, etici e politici, dell”umile Italia’ cattolica e della ‘speranza’ comunista. Avverti qui quasi tutti i nessi dolorosi e vitali di una fase di liquidazione, ossia di una ancora forte capacità poetica che sta però lasciando la pagina lirica per l’avventura cinematografica.
Il tono con cui Pasolini parla ai suoi corrispondenti ha l’appassionata capacità di speranza che fu degli anni Cinquanta. Non è lontano neanche l’accento del “Politecnico”. E nello stesso tempo avverti qualche impazienza e delusione. Quelli che scrivono a “Vie Nuove” e gli argomenti ai quali si chiede risposta, sempre più si rivelano lontani dalla ‘base’ post-esistenziale mitizzata e sempre più subalterni alla cultura piccolo-borghese. Pasolini a poco a poco avverte la impossibilità di mantenere un dialogo che si svolge ormai su temi invecchiati. Prepara e inizia (dopo il Vangelo e il suo successo internazionale) quella dilatazione, anche geografica, dei propri interessi che egli formulerà spesso come allontanamento da una patria che non vuole comprendere più e che si tradurrà nella spirale di angoscia, di chiaroveggenza e di autodistruzione dei suoi ultimi anni.
In questi dialoghi giornalistici si consuma una delle ultime illusioni post-esistenziali: quella di un dialogo, appunto, fra un ‘popolo’ e un ‘intellettuale’ sotto il segno di un grande partito democratico-popolare. È impressionante, qui, l’assenza di riferimenti al moto intellettuale e politico che veniva crescendo in Lombardia e in Piemonte, o la incredibile sottovalutazione di quanto stava accadendo in Cina e nel Sudest asiatico. La scena, appena accennata, della incomprensione fra gli intellettuali di Praga e l’ospite Pasolini; quella, ancora più recente e ancora più grave, dell’incontro con Lukács, danno la misura di come il poeta delle Ceneri fosse entrato negli anni Sessanta con una incomparabile vitalità ma con un bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero; che era poi quello di “Officina”. E questo può spiegare tanto l’impeto dei suoi interessi linguistici e semiologici degli anni successivi, con cui ritrovava gli studi e i maestri di vent’anni prima, quanto l’incomprensione degli anni 1967-70, fisso come rimase ad una immagine mitica del Nord industriale e contadino (Teorema) e alla irritata, e irretita, di una Roma popolata da studenti neoborghesi.
Credo che queste pagine scritte in difesa di un ottimismo che di giorno in giorno si allenta e corrompe saranno molto utili non tanto a chi voglia conoscere qualcosa di ignorato sulla persona poetica di Pasolini quanto a chi voglia comprendere il decennio che va dalle rivolte in Polonia e Ungheria a quelle della gioventù europea. Un ottimismo e una illusione che gli ultimi tempi hanno distrutto, distruggendo quindi anche Pasolini. Si contempla oggi stupefatti la somma delle menzogne ‘democratiche’ che ormai dalla quasi totalità dell’orizzonte le parti politiche ci vengono raccontando e che zelanti intellettuali vanno ripetendo. Chi, come me, è persuaso che continuando per la via presente l”ordine’ porterà, nel giro di qualche anno, alla pratica generalizzazione della tortura sul territorio nazionale, anche in pagine come queste si interroga sul punto sociale e politico che proprio in quegli anni, fra il 1960 e il 1965, avrebbe indotto, in Italia e nel mondo, l’accelerazione del secondo quinquennio, e poi il contraccolpo di una reazione durissima. Questa ha immobilizzato e medusato tutta una generazione europea, ha ucciso i più sensibili e generosi, ha travolto nella destabilizzazione ideologica anche i maggiori centri di attività intellettuali, ha restituito milioni di giovani all’angoscia personale e lasciato le redini della società europea a politici senza speranza.
… aveva torto e non avevo ragione…
Seppi la notizia dalla Tv nel buio di una casa isolata tra lecci bagnati e pini di autunno, un lume debole sul tavolo. Senza stupore, avevo sempre pensato che Pier Paolo avrebbe potuto incontrare quella fine. Il dolore (oggi [1993] non mutato e neanche lavorato dal tempo) fu di non aver potuto risolvere le nostre ostilità e vincere il silenzio degli ultimi sei anni. Non avevo letto quel che di me aveva scritto nel 1969 (ancora nel segno dello scontro di pochi mesi prima), e neanche — pochi mesi innanzi del suo assassinio, nel febbraio del 1975 — l’accenno di consenso e dissenso ad un mio intervento, in un suo articolo, divenuto poi molto noto come quello “delle lucciole” (1).
Partii per Roma, ero tra la folla del funerale, vidi la bara. Pochi giorni più tardi, iniziando il mio corso a Siena, ne parlai agli studenti. Mi ripugnarono i commenti a stampa, lo sgomitare di amici falsi e veri. Nel suo ultimo intervento pubblico, ad un congresso del Partito radicale, aveva riaffermato sé come marxista e votante per il Pci. Era un messaggio di coerenza: quando, come lui, non si credeva più che alla “santità del nulla”, era giusto che testimoniasse per simboli che erano stati i suoi per vent’anni.
Domandato, mandai poche righe al “manifesto”. Aggressive verso quei miei medesimi compagni. Anche oggi credo a quel che vi è detto. (Nascosta citazione, c’è Apollinaire, quello di Il poeta assassinato: “nous ne sommes pas vos ennemis… pitié pour nos erreurs, pitié pour nos péchés”). Come nel sonetto a Zanzotto che avrei scritto dopo un mese, mi permettevo un gesto di consenso alla corporazione letteraria. Oggi però non riconoscerei al “manifesto” “il grande merito di aver sempre lasciato intendere che, della poesia, non gliene importava nulla”. Dopo diciassette anni, purtroppo, “gliene importa”, come a qualunque altro foglio, ognuno col suo minimarket “culturale”.
Ma quella emozione di sorte comune non mi vieta di soffrire pietà per quell’uomo costretto a vivere in una consumazione di alienato, in lotta con un nullismo che lo divorava vivo, senza tremito religioso quanto più della religione conosceva e impiegava tutte le parole.
Da una mia ossessione infantile, una volta avevo scritto di volti uccisi minaccianti da volute di fumi necromantici, “storti” da “pugni atroci”. Il corpo schiacciato di Pier Paolo era quello, allegoria satanica e cerimonia.
(1) “”La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale ‘Il Politecnico’, cioè all’immediato dopoguerra…” Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (“L’Europeo”, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista.[...]”
Il pezzo, richiesto dal “manifesto”, scritto da Franco Fortini e pubblicato il 7 novembre 1975
In morte.
Il solo modo decente di parlare di Pasolini, in mezzo al vocio autopunitivo di questi giorni, è leggerlo. Il quotidiano che mi chiede queste parole ha avuto, rispetto agli altri quotidiani italiani, il grande merito di aver sempre lasciato intendere che, della poesia, non gliene importava nulla; e così facendo, di interpretare l’animo dei suoi lettori e ispiratori. Ho creduto per alcuni anni che a questo corrispondesse, più in profondo, una azione che mirasse, per sue vie, alla medesima meta della poesia. Mi rendo conto oggi che non è così: o, se lo è, questo avviene su una tale distanza che, nella pratica, continua ad aver ragione Lu Hsün: “i politici desiderano uccidere i letterati”.
C’è una qualità umana che odia la poesia, che sopporta a fatica la letteratura, che non sa e non vuole sapere quale luogo assegnarle nella città presente e futura. Ci si commuove per la morte di Pasolini più che per quella di un altro qualsiasi militante solo perché era l’autore di qualcosa che è, o può, diventare nostro.
Questo qualcosa, questa eredità, guardiamola. Molti non vogliono saperlo perché questo farebbe crollare tante loro miserabili speranze e certezze. Non capiscono che quel crollo li indebolirebbe solo in apparenza, in realtà li farebbe più forti contro chi sfrutta e strazia. Non capite che non siamo, noi poeti, i vostri nemici e che chiediamo qualche volta pietà per i nostri errori perché invero è il nostro modo di chiedere pietà anche per gli errori vostri?
Per questo non ho nulla da dire per la morte di Pasolini che non sia stato detto in questi giorni, anche egregiamente, dai miei colleghi in letteratura; fuor del consiglio di prendere i suoi libri di versi e capirli. Gli sono stato amico per molti anni; avverso per altri; sempre ho cercato di intenderlo e amarlo. Ho in comune con lui la divisione, la duplicità, di cui si fa, quando si fa, la poesia. Nel testo autentico, d’altronde, come nell’attimo della morte, coincidono elezione e destino, scelta e inevitabilità. Meno commozione per Pasolini, più amore e intelligenza per quello che egli ci ha detto.
Richiesto un intervento su “Nuovi Argomenti”, Franco Fortini scrisse i seguenti versi, che furono pubblicati sul numero di gennaio-marzo 1976
Il tono con cui Pasolini parla ai suoi corrispondenti ha l’appassionata capacità di speranza che fu degli anni Cinquanta. Non è lontano neanche l’accento del “Politecnico”. E nello stesso tempo avverti qualche impazienza e delusione. Quelli che scrivono a “Vie Nuove” e gli argomenti ai quali si chiede risposta, sempre più si rivelano lontani dalla ‘base’ post-esistenziale mitizzata e sempre più subalterni alla cultura piccolo-borghese. Pasolini a poco a poco avverte la impossibilità di mantenere un dialogo che si svolge ormai su temi invecchiati. Prepara e inizia (dopo il Vangelo e il suo successo internazionale) quella dilatazione, anche geografica, dei propri interessi che egli formulerà spesso come allontanamento da una patria che non vuole comprendere più e che si tradurrà nella spirale di angoscia, di chiaroveggenza e di autodistruzione dei suoi ultimi anni.
In questi dialoghi giornalistici si consuma una delle ultime illusioni post-esistenziali: quella di un dialogo, appunto, fra un ‘popolo’ e un ‘intellettuale’ sotto il segno di un grande partito democratico-popolare. È impressionante, qui, l’assenza di riferimenti al moto intellettuale e politico che veniva crescendo in Lombardia e in Piemonte, o la incredibile sottovalutazione di quanto stava accadendo in Cina e nel Sudest asiatico. La scena, appena accennata, della incomprensione fra gli intellettuali di Praga e l’ospite Pasolini; quella, ancora più recente e ancora più grave, dell’incontro con Lukács, danno la misura di come il poeta delle Ceneri fosse entrato negli anni Sessanta con una incomparabile vitalità ma con un bagaglio ideologico-politico piuttosto leggero; che era poi quello di “Officina”. E questo può spiegare tanto l’impeto dei suoi interessi linguistici e semiologici degli anni successivi, con cui ritrovava gli studi e i maestri di vent’anni prima, quanto l’incomprensione degli anni 1967-70, fisso come rimase ad una immagine mitica del Nord industriale e contadino (Teorema) e alla irritata, e irretita, di una Roma popolata da studenti neoborghesi.
Credo che queste pagine scritte in difesa di un ottimismo che di giorno in giorno si allenta e corrompe saranno molto utili non tanto a chi voglia conoscere qualcosa di ignorato sulla persona poetica di Pasolini quanto a chi voglia comprendere il decennio che va dalle rivolte in Polonia e Ungheria a quelle della gioventù europea. Un ottimismo e una illusione che gli ultimi tempi hanno distrutto, distruggendo quindi anche Pasolini. Si contempla oggi stupefatti la somma delle menzogne ‘democratiche’ che ormai dalla quasi totalità dell’orizzonte le parti politiche ci vengono raccontando e che zelanti intellettuali vanno ripetendo. Chi, come me, è persuaso che continuando per la via presente l”ordine’ porterà, nel giro di qualche anno, alla pratica generalizzazione della tortura sul territorio nazionale, anche in pagine come queste si interroga sul punto sociale e politico che proprio in quegli anni, fra il 1960 e il 1965, avrebbe indotto, in Italia e nel mondo, l’accelerazione del secondo quinquennio, e poi il contraccolpo di una reazione durissima. Questa ha immobilizzato e medusato tutta una generazione europea, ha ucciso i più sensibili e generosi, ha travolto nella destabilizzazione ideologica anche i maggiori centri di attività intellettuali, ha restituito milioni di giovani all’angoscia personale e lasciato le redini della società europea a politici senza speranza.
Franco Fortini
“Corriere della Sera”, 1977 (Le belle bandiere)
… aveva torto e non avevo ragione…
Seppi la notizia dalla Tv nel buio di una casa isolata tra lecci bagnati e pini di autunno, un lume debole sul tavolo. Senza stupore, avevo sempre pensato che Pier Paolo avrebbe potuto incontrare quella fine. Il dolore (oggi [1993] non mutato e neanche lavorato dal tempo) fu di non aver potuto risolvere le nostre ostilità e vincere il silenzio degli ultimi sei anni. Non avevo letto quel che di me aveva scritto nel 1969 (ancora nel segno dello scontro di pochi mesi prima), e neanche — pochi mesi innanzi del suo assassinio, nel febbraio del 1975 — l’accenno di consenso e dissenso ad un mio intervento, in un suo articolo, divenuto poi molto noto come quello “delle lucciole” (1).
Partii per Roma, ero tra la folla del funerale, vidi la bara. Pochi giorni più tardi, iniziando il mio corso a Siena, ne parlai agli studenti. Mi ripugnarono i commenti a stampa, lo sgomitare di amici falsi e veri. Nel suo ultimo intervento pubblico, ad un congresso del Partito radicale, aveva riaffermato sé come marxista e votante per il Pci. Era un messaggio di coerenza: quando, come lui, non si credeva più che alla “santità del nulla”, era giusto che testimoniasse per simboli che erano stati i suoi per vent’anni.
Domandato, mandai poche righe al “manifesto”. Aggressive verso quei miei medesimi compagni. Anche oggi credo a quel che vi è detto. (Nascosta citazione, c’è Apollinaire, quello di Il poeta assassinato: “nous ne sommes pas vos ennemis… pitié pour nos erreurs, pitié pour nos péchés”). Come nel sonetto a Zanzotto che avrei scritto dopo un mese, mi permettevo un gesto di consenso alla corporazione letteraria. Oggi però non riconoscerei al “manifesto” “il grande merito di aver sempre lasciato intendere che, della poesia, non gliene importava nulla”. Dopo diciassette anni, purtroppo, “gliene importa”, come a qualunque altro foglio, ognuno col suo minimarket “culturale”.
Ma quella emozione di sorte comune non mi vieta di soffrire pietà per quell’uomo costretto a vivere in una consumazione di alienato, in lotta con un nullismo che lo divorava vivo, senza tremito religioso quanto più della religione conosceva e impiegava tutte le parole.
Da una mia ossessione infantile, una volta avevo scritto di volti uccisi minaccianti da volute di fumi necromantici, “storti” da “pugni atroci”. Il corpo schiacciato di Pier Paolo era quello, allegoria satanica e cerimonia.
Franco Fortini
(1) “”La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale ‘Il Politecnico’, cioè all’immediato dopoguerra…” Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (“L’Europeo”, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista.[...]”
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, “L’articolo delle lucciole, 1° febbraio 1975″, Garzanti, Milano 1975.
Il pezzo, richiesto dal “manifesto”, scritto da Franco Fortini e pubblicato il 7 novembre 1975
In morte.
Il solo modo decente di parlare di Pasolini, in mezzo al vocio autopunitivo di questi giorni, è leggerlo. Il quotidiano che mi chiede queste parole ha avuto, rispetto agli altri quotidiani italiani, il grande merito di aver sempre lasciato intendere che, della poesia, non gliene importava nulla; e così facendo, di interpretare l’animo dei suoi lettori e ispiratori. Ho creduto per alcuni anni che a questo corrispondesse, più in profondo, una azione che mirasse, per sue vie, alla medesima meta della poesia. Mi rendo conto oggi che non è così: o, se lo è, questo avviene su una tale distanza che, nella pratica, continua ad aver ragione Lu Hsün: “i politici desiderano uccidere i letterati”.
C’è una qualità umana che odia la poesia, che sopporta a fatica la letteratura, che non sa e non vuole sapere quale luogo assegnarle nella città presente e futura. Ci si commuove per la morte di Pasolini più che per quella di un altro qualsiasi militante solo perché era l’autore di qualcosa che è, o può, diventare nostro.
Questo qualcosa, questa eredità, guardiamola. Molti non vogliono saperlo perché questo farebbe crollare tante loro miserabili speranze e certezze. Non capiscono che quel crollo li indebolirebbe solo in apparenza, in realtà li farebbe più forti contro chi sfrutta e strazia. Non capite che non siamo, noi poeti, i vostri nemici e che chiediamo qualche volta pietà per i nostri errori perché invero è il nostro modo di chiedere pietà anche per gli errori vostri?
Per questo non ho nulla da dire per la morte di Pasolini che non sia stato detto in questi giorni, anche egregiamente, dai miei colleghi in letteratura; fuor del consiglio di prendere i suoi libri di versi e capirli. Gli sono stato amico per molti anni; avverso per altri; sempre ho cercato di intenderlo e amarlo. Ho in comune con lui la divisione, la duplicità, di cui si fa, quando si fa, la poesia. Nel testo autentico, d’altronde, come nell’attimo della morte, coincidono elezione e destino, scelta e inevitabilità. Meno commozione per Pasolini, più amore e intelligenza per quello che egli ci ha detto.
Richiesto un intervento su “Nuovi Argomenti”, Franco Fortini scrisse i seguenti versi, che furono pubblicati sul numero di gennaio-marzo 1976
Dicevi di voler ritornare al tuo paese. Ma quello
non era il tuo paese. Così l’inganno
di oggi ti rivelava quello di allora, o infelice.
Nulla ti fu mai vero. Non sei mai stato.
I tuoi versi stanno. Tu mostruoso gridi.
Cosi le membra dello squartato sul palco.
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