"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini a Scicli
La loro coscienza è già nel domani
( Ho discusso per un giorno con i giovani di Scicli)
Vie nuove
numero 22
30 maggio 1959
( © Questa trascrizione da cartaceo è stata curata da Bruno Esposito )
Vedi anche:
Pasolini a Scicli, dove le parole sono pietre - il dibattito
Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde, deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate - un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli.
Subito i giovani si sono fatti intorno a me, parlando: eravamo - io, cioè, c'ero, da un minuto - nell'ultimo angolo della Sicilia, ancora un po' di campagna, carrubi, mandorli, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano. Non capivo, perciò, addirittura, alla lettera, quello che mi stavano dicendo quei giovani, intorno, assiepandosi, ridendo, in un italiano stretto e accavallato, con le dentali invertite, le modulazioni di siciliano paesano, sconosciuto e aletterario, umile, parlato da secoli, diventato assoluto solo lì. Non afferravo parole e fisionomie: ma intanto capivo tutto. Un po' della ...metodologia stilistica - magari in accezione yossleriana - la potrò pure adottare anche con i parlanti! Il «clic» era scattato. Tutta la giornata di Scicli doveva essere una verifica. Quei giovani parlavano, deversando come la bottiglia dantesca, di «Officina», di «Paragone», di «Tempo presente», del dibattito sul realismo del «Contemporaneo»: per quello che mi riguardava, sapevano tutto; ricordavano perfino un articolo uscito sulla Fiera letteraria due anni fa, che toccava un piccolo particolare del mio lavoro; scherzavano sulla faccenda del «Circolo della Caccia»:
come neanche da Canova. Erano i giovani del «Circolo di Cultura Vitaliano Brancati», da poco fondato, e pieno di speranze: sorprendente, per un paese dove andavamo a visitare dei cavernicoli. Gaetano Giavatto, un maestro appena diplomato e disoccupato, pieno d'un riso generoso e pacifico, con grossi occhiali umanistici, discreto, a guardare un po' timido i compagni, che, più giovani, più liberi, e quindi più spavaldi, si gettavano nella conversazione e nelle richieste senza paura; Bartolomeo Amenta, piccolo, bruciato, divorato dal sole, anche lui affondato dietro gli occhiali, gli speculativi occhiali del meridione, ma in una variante artigianale, gli occhiali che portano certi calzolai, certi mastri; Peppino Carabba, un giovane studente universitario, che scoppiava di salute e di allegria dentro i panni, basso, colorito, goloso di ogni cosa, e insieme un pochino menefreghista; e infine, Giovanni Rossino, venuto per ultimo, sempre un po' appartato, un po' elucubrante, piccolo adolescente filosofo orsacchiotto, che concludeva i suoi apprensivi e un po' ispidi silenzi di contadino, con dei giudizi taglienti, delle vere «degnità». Abbiamo fatto subito amicizia, e la giornata l'ho passata con loro.
Che cosa dovevo vedere a Scicli? E che cosa invece, ho visto? E' presto detto. Le caverne: immaginate una valletta, dentro la quale, compatta, si sparge Scicli: senza periferia e case moderne; un po' fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti. Da questa valletta si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti, sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, coi gironi uno sull'altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e li vive, ammassata, qualche volta col mulo. In cima alla valle centrale, Chiafura, c'è un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto. Nella piazza affollata di uomini neri, solo uomini, stavano facendo un pazzesco girotondo alcune giardinette della Dc, urlando slogans in polemica dagli altoparlanti. Poco più a sinistra, imbucandosi tra i vecchi vicoli, sotto i vecchi palazzotti di Don Rodrighi sanguinari e assenti, passava, facendo altrettanto strepito, una processione, con una statua portata sulle spalle da un mucchio di omini, e dietro, al trotto, una piccola folla, al suono d'una banda.
Visto così, da lontano e dall'alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia, Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppo intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l'ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anzichè a operare, a pensare e a amare. Quanto al resto, al ritmo intimo e quotidiano della vita, ben poca differenza mi pare ci sia con un paese ciociaro o magari anche piemontese. La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato, si equivalgono. C'è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso. Ed è questo ciò che ho visto a Scicli.
L'ho visto, specialmente, come calato in esemplari, in campioni, nei quattro ragazzi del Circolo della Cultura: sono stato con loro sole poche ore, ma non temerei di andare troppo lontano dalla realtà, dando questo quadro interno della psicologia di questi quattro giovani intellettuali scicletani: il loro progressismo politico è tipico - da quel che ho potuto capire - di tutta la regione: recente e insieme straordinariamente maturo: gliene deriva una forte autonomia critica, dato che tutto il mondo gli si configura sotto la luce di quel progressismo, e la famosa, fatale tradizione, mi sembra senza più retroterra reale: e vive, forse, ancora, nelle zone biologiche, nell'inconscio, non certo nelle intenzioni e nelle volizioni, che sono ben chiare. In questa zona avanzata, in cui siciliani vivono per via del loro violento recupero - e per delle determinate circostanze - l'influenza ideologica della classe dirigente mi pare molto limitata. E forse è questo il dato più importante: l'esautoramento della classe dirigente «continentale», oltre che di quella baronale, sintomo impressionante, la Tv qui praticamente non esiste: perciò in Sicilia, nel costume, nei discorsi quotidiani, negli interessi spiccioli, c'è un tono diverso che nel resto d'Italia, infinitamente più antico, è vero, ma anche molto più moderno. Il neo-capitalismo mi pare agire qui in modo particolare: anzichè produrre l'ulteriore abbassamento di livello dell'area depressa, per delle circostanze impreviste (petrolio, incremento agrario) lo ha elevato: contraddicendosi, poichè Ragusa non è Torino. Così, il risveglio economico qui corrisponde a un risveglio delle coscienze in senso progressista.
Non vorrei, però, da quattro impressioni, trarre delle conclusioni sballate: resta tuttavia il fatto che a Scicli, con dei giovani studenti, si parla di ciò di cui si parla a Roma sia pure con tanta deliziosa ingenuità, tremore e timidezza da parte loro e si ha con loro un senso di maggiore libertà, quasi che la cultura di opposizione che ha prodotto la loro nuova coscienza fosse per loro l'unica cultura.
Pier Paolo Pasolini
Termina con questa pagina la serie di articoli e servizi che « Vie Nuove » ha voluto dedicare alla Sicilia alla vigilia del voto del 7 giugno.





Nessun commento:
Posta un commento