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lunedì 20 ottobre 2025

La Divina Mimesis, viaggio nella Selva della Modernità - L’Inferno Incompiuto di Pasolini

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


La Divina Mimesis
viaggio nella Selva della Modernità
L’Inferno Incompiuto di Pasolini




La strategia dell’incompiutezza: 

  • La realtà moderna, post-ideologica, è essa stessa frantumata, polifonica, priva di centro e di teleologia. L’opera letteraria, se vuole essere specchio del mondo, deve quindi rinunciare a ogni chiusura armonica.
  • L’incompiutezza permette la coesistenza di passato e presente, di versioni alternative, di riscritture continue e di livelli di lettura diversi. Il testo diventa archivio in progress, diario e documento, trasmissione di una memoria che non si lascia dominare dal tempo cronologico.
  • L’incompiutezza è anche gesto di resistenza nei confronti della tradizione e della cultura “classica” della letteratura europea, in particolare di quella italiana: il grande poema epico è ormai irraggiungibile, il racconto della salvezza non più credibile. A rimanere è il frammento, l’abbozzo, la testimonianza.
  • Rifiutare la conclusione equivale anche a rifiutare il compiacimento del potere, la rassicurazione della sintesi finale, la tentazione dell’ordine: l’incompiutezza è un modo per mantenere aperto il conflitto, sia interiore che sociale, per lasciare spazio alla domanda e al dissenso, per abitare la crisi senza volerne negare la durezza.

La Mimesis è un testo “minor tanto incompiuto quanto necessario, come il bisogno e la ricerca di un senso”, dove la mancanza di un finale è “la vera presenza” della testimonianza e, in certo modo, della vita stessa. Pubblicata postuma (poco dopo il suo assassinio nel novembre 1975), è forse la sua opera più intima e aliena, un testamento letterario che si racconta attraverso la perdita, la frattura, la crisi e l’incompiutezza. Non è solo una riscrittura della Divina Commedia, ma un’esplorazione profonda del senso stesso della mimesi — non l’equivalente di una semplice “imitazione”, bensì una riflessione sulla rappresentazione della realtà, sulla dialettica tra arte e storia, autore e linguaggio, individuo e società. Scritta a partire dal 1963 e iniziata nel pieno boom economico italiano, la Mimesis si rivolge direttamente al passato prestigioso della Commedia dantesca per confrontare l'Italia degli anni Sessanta e Settanta, in piena mutazione antropologica e spirituale, con la struttura e i temi della letteratura classica. Ma, più ancora, si tratta di un esperimento formale, di un’opera “aperta”, magmatica, volutamente incompiuta: una cronaca del fallimento della modernità e, insieme, una critica irriducibile della borghesia, del conformismo, della crisi del linguaggio, dell’idea stessa di letteratura come atto compiuto.

Prima di ogni altro aspetto, con La Divina Mimesis Pasolini consegna al lettore una domanda bruciante: 

è ancora possibile la salvezza attraverso la narrazione? O l’Inferno è ormai tutto nel presente della storia? 

Pasolini non si limita a riscrivere l’Inferno, ma ne destruttura l’architettura fondante. Il testo, infatti, è composto da due canti completi (I e II), seguiti da appunti e frammenti relativi ai Canti III, IV e VII, una prefazione, note autoriflessive e una “Nota dell’editore” fittizia, oltre a un sorprendente “Poema fotografico” (Iconografia ingiallita). La volontà pasoliniana, dichiarata in una nota del 1964, era che il libro si presentasse come un “processo

formale vivente”: ogni nuova versione non doveva cancellare la precedente, bensì vi si doveva sovrapporre, creando una stratificazione che tenesse insieme “il passaggio del pensiero” — come la realtà stessa, che tutto conserva e nulla elimina. La struttura è, quindi, volontariamente “magmatica” e interrotta. Pasolini rifiuta la linearità narrativa e cronologica; preferisce la commistione di prosa, appunti, dattiloscritti e fotografie, col chiaro intento di mostrare l’incompiutezza come uno specchio della condizione culturale, linguistica e politica degli anni in cui scrive. La frammentazione si fa così poetica: è il segno stesso della frantumazione della realtà e dell’impossibilità di dare una forma unica all’esperienza e alla memoria.

Questa strategia narrativa ha una doppia funzione. 

Da un lato, incarna il fallimento della ricerca di senso nell’epoca contemporanea — la crisi del linguaggio, l’impossibilità del poeta di ergersi a profeta civile come Dante. 

Dall’altro, consente di “accumulare” materiali diversi (appunti, bozze, varianti di titoli, paratesti foto-poetici) e di confrontare, sul piano del testo, il movimento stesso del pensiero pasoliniano, costantemente in tensione tra passato e presente.

Infine, il significato dell’incompiutezza, si riflette proprio in questa forma: 

come un diario, l’opera si espande senza mai volersi definire, come se rifiutasse la chiusura e la riconciliazione, preferendo restare documento di “un cantiere”, testimonianza storica e insieme poetica della crisi della modernità.

La mimesi, centrale già dal titolo, rimanda immediatamente alla fonte: Dante Alighieri. La Divina Commedia sembra la matrice strutturale e simbolica di tutto il testo, ma la riscrittura che Pasolini ne fa è tanto omaggiante quanto parodica, tanto fedele quanto straniante. L’Inferno di Pasolini non è né ultraterreno né apocalittico, ma incarnato nella Roma degli anni Sessanta — nelle sue periferie, nei suoi salotti, nella società dei consumi, nell’omologazione culturale e linguistica.

Interessante è il meccanismo del “doppio sé”: il protagonista della Mimesis è Pasolini stesso, attorno ai quarant’anni, smarrito nella “selva oscura” della realtà del 1963. Ad accompagnarlo non è un’autorità esterna, come il Virgilio di Dante, ma

il sé stesso degli anni Cinquanta, il “poeta civile” armato di ideali comunisti e ancora fiducioso nella lingua e nella politica. Questo sdoppiamento amplifica la dimensione autoanalitica: non il viaggio universale dell’anima verso Dio, come in Dante, ma il viaggio interiore, solitario e malinconico, in cui il paradigma classico viene usato per misurare la distanza incolmabile tra due epoche, tra due sé, tra speranza e sconfitta. Il percorso dei due Pasolini, che attraversano gironi e ciambelle dell’Inferno, sostituisce figure e peccati classici con simboli della contemporaneità:

 l’intellettuale fallito, i conformisti, i moralisti del “dovere di essere come tutti”, i piccoli borghesi, i poeti “impiegati”, i “consumatori” nel paradiso della pubblicità. 

Nel III Canto, per esempio, gli ignavi sono ora coloro che hanno scelto l’anonimato e l’omologazione; nel IV Canto, il castello dei “maggiori poeti” diventa una villa popolata di autori dell’Est Europa e di Rimbaud, simboli alternativi al canone italiano. Nel VII Canto, i dannati sono i conformisti, puniti non fisicamente ma semplicemente “essendo là”, senza scampo né redenzione.

La mimesi, in questo quadro, è improvvisamente svuotata di ogni consolazione: non c’è più un aldilà a cui aspirare, nessun paradiso possibile (dichiaratamente né quello comunista, né quello neocapitalista), ma solo una discesa interminabile nella modernità, in cui la crisi dell’individuo si confonde con la crisi della civiltà e della lingua stessa.

La condanna pasoliniana della borghesia è uno dei cardini più scoperti e polemici della Mimesis. L’autore vede nella società neocapitalistica non solo il compimento di antiche disuguaglianze, ma una trasformazione ontologica dell’umano. In più punti, soprattutto nei frammenti per il VII Canto, Pasolini urla che 

“mai in tutta la storia si videro peccati così orrendi come quelli commessi dalla borghesia in questo secolo, per difendere il proprio diritto a odiare la grandezza”. 

La sua analisi è impietosa e ossessiva: la borghesia, erede di ogni compromesso tra potere, cultura e denaro, si erge a profanatrice della vera grandezza — la cultura, la diversità, il popolo, la poesia.

Il tono della critica è però personale e in continuo bilico tra indignazione e sconfitta. Nel nuovo Inferno, le pene sono spesso non materiali, ma esistenziali: l’uniformità, il conformismo, la perdita della singolarità. I colpevoli sono i “moralisti del dovere di essere come tutti”, gli abitatori delle “zone di anonimato”, coloro che hanno ridotto la propria esistenza a un mimetismo con la massa, il servilismo, l’acquiescenza alle regole e ai sogni del mercato. Ma l’attacco pasoliniano alla borghesia va oltre il piano morale. La borghesia non solo impone la propria lingua e il proprio sguardo, ma trasforma la cultura stessa in merce e la lingua in puro strumento tecnico. Le grandi tragedie del Novecento (i campi di concentramento, le guerre, l’omologazione pubblicitaria) sono lette come prodotti del “braccio armato di un progresso senza civiltà”, dove la negazione della differenza si traduce in una “pulizia” antropologica senza precedenti. Così, nella società dei consumi, anche l’intellettuale, anche il poeta rischia di essere un “acquirente”, figura tragica impossibilitata ad avere uno spazio sociale: “Il poeta vuole infatti vivere tutte le figure economiche possibili, vuole insieme la miseria e la ricchezza. Egli non è un acquirente! Egli è un produttore che non guadagna! Produce merce che non può essere acquistata!”. Alla base di questa critica c’è una diagnosi profonda e ancora attualissima: la borghesia neocapitalistica non si limita a esercitare il potere
economico, ma assume il controllo delle forme di vita, della lingua, dell’immaginario e delle stesse possibilità della poesia e della letteratura.

Uno dei centri nevralgici della riflessione pasoliniana nella Mimesis è la crisi del linguaggio. Gli anni Sessanta, per Pasolini, segnano la fine dell’italiano “umanistico” — ricco di stratificazioni storiche, idiomi locali, voci subalterne — e l’avvento di una lingua “tecnologica”, fredda, standardizzata, nata nei centri industriali del nord e funzionale alle necessità della comunicazione e non più all’espressione. Questa trasformazione non è solo linguistica, ma esistenziale e politica; Pasolini parla esplicitamente di “genocidio culturale”: la lingua nuova, imposta dalla borghesia e dalla società dei consumi, cancella i dialetti, i regionalismi e la varietà stessa dell’italiano, erodendo le identità, le visioni e le diversità popolari. La

componente poetica del linguaggio viene sacrificata sull’altare dell’efficienza comunicativa; la parola cessa di essere corpo vivente e diviene puro flusso informativo, veicolo di consenso e non di dialogo o dissenso.

Pasolini vive questo passaggio come una mutilazione personale e collettiva. Nei frammenti della Mimesis e nelle note, afferma di voler scrivere “nell’italiano non-nazionale”, resistendo alla nuova dittatura lessicale. Ma è uno sforzo sempre frustrato: la lingua letteraria — e poetica — è ormai incapace di contenere la realtà mutante, proprio come il poeta è inibito dalla propria storia personale e dal contesto. Questa crisi si traduce, formalmente, nella scelta della prosa, nell’ibridazione tra toni alti e bassi, nell’accumulo di registri e di “digressioni” che fanno de La Divina Mimesis un luogo di crisi e, insieme, di resistenza. Il tentativo pasoliniano di “imitare la lingua degli altri”, mutuato anche dalla lezione di Dante e da quella di Contini, si scontra con l’impossibilità di restituire compiutamente la voce collettiva in un’epoca dominata dall’omologazione.

La Divina Mimesis è anche, anzi soprattutto, un grande esercizio meta-letterario, una continua

riflessione sul testo, sul suo autore, sulle condizioni di possibilità e sui limiti della scrittura stessa. Pasolini gioca con il lettore, finge di essere un editore che pubblica per caso ciò che l’autore ha lasciato “incompiuto”, inserisce fotografie e appunti, sperimenta registri ironici, citazionistici, polemici. Come nella “Nota dell’editore” (scritta in terza persona), anticipa profeticamente la propria violenta morte, sottolineando il legame inscindibile tra autobiografia e opera, tra destino personale e frammentazione poetica. In questa trama parodica e autoriflessiva, la figura dell’autore si sdoppia, si rifrange e si dissolve. Pasolini non si nasconde dietro il personaggio, ma anzi rivela la propria inadeguatezza: il poeta degli anni Cinquanta è adesso un’ombra incapace di guidare; la poesia civile è un’abitudine del passato, incapace di farsi corpo vivo nella società dei consumi. L’io narrante e l’io scrivente si rincorrono in un dialogo senza soluzione, in un gioco di specchi che diventa domanda
costante sulla funzione della letteratura e sul ruolo dell’intellettuale. La meta-letterarietà della Mimesis si evidenzia anche nella commistione tra testi e immagini. L’”Iconografia ingiallita”, la serie di fotografie che concludono l’opera, si configura come un poema visivo: una stratificazione di sguardi, di lacerti di memoria e di storia, che rende ancora più evidente l’intreccio tra forma e contenuto, tra narrativa e cronaca, tra vita e morte.

Infine, questa riflessione sull’atto della scrittura è anche una dichiarazione di poetica: Pasolini non crede più nel grande racconto progressivo della salvezza, ma nel documento, nel reperto, nella testimonianza parziale e imperfetta. L’incompiutezza si fa, quindi, non solo strategia narrativa, ma anche gesto di consapevolezza, di resa e di resistenza nel medesimo tempo. Comprendere

La Divina Mimesis significa inquadrarla nel suo tempo. La scrittura della Mimesis si intreccia con gli eventi dell’Italia postbellica, il boom economico, la trasformazione urbana, la nascita della società dei consumi, la contestazione giovanile, il conformismo piccolo borghese e la crisi delle grandi narrazioni collettive. Sono anni di profondi mutamenti: industrializzazione, emigrazione interna, urbanizzazione, ma anche perdita di identità, dissoluzione delle tradizioni, mutamento dei valori e della lingua stessa. Pasolini percepisce queste trasformazioni come una “mutazione antropologica” dagli effetti travolgenti. La sua diagnosi, affidata ai saggi, ai romanzi, al cinema e a questo stesso poema infernale, insiste sull’idea che la società dei consumi abbia operato una rivoluzione più profonda e devastante del fascismo: ha omologato le menti, cancellando le differenze, annichilendo il dissenso, imponendo una
nuova “lingua dell’odio”, né più né meno che un “nuovo fascismo”.

La critica al potere si allarga anche alla sinistra istituzionale, incapace di proporre modelli credibili di cambiamento. E così la figura dell’intellettuale “poeta civile”, centrale negli anni Cinquanta, viene riletta ironicamente come residuale, anacronistica. In questo clima, la scelta di riscrivere la Commedia dantesca diventa una provocazione: il viaggio di Dante verso la salvezza è ormai impossibile; il viaggio di Pasolini non può che concludersi “nel mondo”, in un presente senza sbocchi, dove l’Inferno coincide con la società neocapitalista in cui il poeta è insieme spettatore e vittima. D’altronde, la stessa cultura letteraria degli anni Sessanta – con la sua apertura alle neoavanguardie, le polemiche col Gruppo 63, la tensione al nuovo e al linguaggio sperimentale – costringe Pasolini a interrogarsi sulla fine della funzione storica dello scrittore. Gli anni Settanta, segnati dalla crisi dei valori, dal terrorismo, dalla delusione politica e dalla violenza diffusa, acuiscono la sensazione di una impossibilità della letteratura a incidere realmente nella storia. Quello che per Dante era struttura compiuta, per Pasolini è forma irrisolta, processo, stratificazione infinita. La decisione di non ultimare la Mimesis — e di pubblicarla così, “aperta”, interrotta, “in abbozzo programmatico” — non è un fatto accidentale ma una precisa scelta poetica e politica.

Non c’è magniloquenza né retorica dell’irrisolto in questa scelta pasoliniana. Al contrario, è la consapevolezza del fallimento della poesia civile, della crisi della lingua, della fine delle grandi narrazioni a motivare l’apertura del testo. L’incompiutezza diventa allora il luogo di un bilancio esistenziale e intellettuale — malinconico, ma non privo di tensione etica: la resistenza non è un esito, ma un processo continuo, un cantiere sempre in corso. Dal punto di vista politico, la frammentazione e la non-conclusione rappresentano dunque il rifiuto di ogni teleologia dogmatica, sia essa religiosa, ideologica, utopica. La realtà rimane inabitabile e aperta, la poesia solo un recalcitrare del senso di fronte alla storia. La scrittura si fa allora testimonianza parziale, eppure radicale, di una crisi che riguarda non solo l’autore, ma l’intera società.

Bruno Esposito


 

Curatore, Bruno Esposito

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