"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Rileggere Pasolini non è nostalgia: è resistenza
"la ribellione che ci manca”
Un piccolo saggio di
© Bruno Esposito
“Il potere non si sa più dove sia.
È un potere che si è fatto anarchico.”
- Cosa succede quando il potere non ha più volto, né voce, né responsabilità?
- Pasolini non parlava solo del suo tempo. Parlava anche del nostro.
- Oggi, tra algoritmi e influencer, quel potere è più vivo che mai.
- Ma cosa intendeva davvero? E perché la sua idea di “anarchia del potere” ci riguarda ancora oggi?
- Il potere invisibile non si combatte con slogan, ma con la coscienza.
Pasolini definisce il “potere” degli anni Settanta come «anarchico», ovvero privo di regole, capace di piegare arbitrariamente ogni ordinamento alla sua volontà, tanto da poter essere identificato come la vera forma di anarchia. In una delle sue più celebri dichiarazioni, rilasciata sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma, afferma:
“Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole, e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettato da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi odio con particolare veemenza il potere di questi giorni. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti”.
Questo passaggio rivela l’ossimoro che fonda il concetto: l'anarchia, in quanto assenza di legge, e il potere, in quanto istituzione della legge e dell’ordine, sembrano essere in antitesi. Eppure, Pasolini scopre che una volta istituito, il potere può diventare "anarchico", ossia libero da qualsiasi controllo reale, regolamentazione o sistema di responsabilità.
Secondo Pasolini, l’anarchia del potere moderno si radica in alcune peculiarità mai viste prima:
- Il rifiuto dei vecchi meccanismi repressivi e delle retoriche centraliste (Stato, Chiesa);
- Il successo nell’omologare l’intera società italiana, imponendo modelli di consumo e comportamento legittimati come “tolleranza” o “libertà” e creando una “joie de vivre” obbligata;
- Il controllo assoluto sulla coscienza individuale, raggiunto non con la coercizione fisica ma con una manipolazione profonda dei desideri e dei linguaggi;
- La sostituzione di valori umanistici, religiosi e popolari con valori alienati, impersonali e consumistici;
- Una violenza spietata che si compie non con la forza verticale, bensì attraverso il mercato, i media, la scuola, la lingua e la televisione.
La “tolleranza” esibita dal potere diviene nella prospettiva pasoliniana la forma più perfetta di repressione:
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello… che però restava lettera morta. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata».
Nel celebre articolo “Il vuoto del potere in Italia”, pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975, Pasolini scrive:
“Il potere non è più quello di una volta. È un potere che non si sa più dove sia. È un potere che non ha più centro, né volto, né responsabilità. È un potere che si è fatto anarchico.”
Questa “anarchia” non è sinonimo di libertà, ma di disordine sistemico, di caos mascherato da progresso.
In Lettere luterane, Pasolini afferma:
“Il vero fascismo è quello che ha imposto, con la forza di un falso progresso, un nuovo modello di vita, distruggendo le culture precedenti.”
L’anarchia del potere si manifesta dunque come distruzione dell’identità, come perdita di radici e di senso.
Pasolini osservava con angoscia la mutazione antropologica degli italiani. Le culture contadine e proletarie, che per secoli avevano resistito alle imposizioni dall’alto, venivano spazzate via da un modello unico di comportamento, linguaggio e desiderio. Il nuovo potere non impone con la forza, ma seduce. Non reprime, ma omologa.
In Lettere luterane, lo dice chiaramente:
“Il vero fascismo è quello che ha imposto, con la forza di un falso progresso, un nuovo modello di vita, distruggendo le culture precedenti.”
La televisione, la scuola, la pubblicità: sono questi i nuovi strumenti del potere. Non c’è più un partito, un governo, un’ideologia. C’è un sistema che agisce ovunque, senza dichiararsi, senza assumersi la responsabilità delle sue azioni.
Pasolini non si è mai tirato indietro. Ha denunciato, provocato, scritto con rabbia e lucidità. In uno dei suoi Scritti corsari, afferma:
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale.”
Questa frase è diventata un manifesto. L’intellettuale, per Pasolini, ha il dovere di vedere ciò che gli altri non vedono, di dire ciò che gli altri tacciono. Anche a costo di essere scomodo, isolato, inascoltato.
Lo sguardo di Pasolini sul potere e la sua “anarchia” ha suscitato sin da subito aspre contestazioni, accuse di reazionarismo, estetismo, paranoia e moralismo. I critici più attenti, come Pasquale Voza, hanno sottolineato come la sua critica non vada letta come una difesa statica della tradizione, ma come una denuncia della “dittatura del presente”, vale a dire di un’epoca che – tramite gli strumenti del mercato, della televisione, della scuola – uccide la possibilità stessa di resistere, privando i soggetti della memoria e della diversità originaria.
Le sue diagnosi apocalittiche hanno diviso l’intellettualità: da un lato chi – come Maurizio Ferrara e Ferrarotti – lo accusa di irrazionalismo estetizzante, dall’altro chi vi riconosce la potenza di una vera profezia critica, oggi riscoperta da pensatori anticonformisti tanto della sinistra radicale quanto della nuova destra.
Critici esteri (tra cui Michel Foucault) hanno colto nella riflessione pasoliniana un’intuizione della “biopolitica”, cioè della trasformazione delle società disciplinari (basate sulla sorveglianza e sulla punizione) in società della governamentalità (controllo mediante il consenso e la produzione di soggettività). Tuttavia, Foucault critica anche la visione “morale” di Pasolini, che tende a ridurre il potere alla sola funzione negativa della repressione, mentre secondo Foucault la modernità produce soggettività, norme e strategie di produzione sociale e non solo morte o privazione.
Altri studiosi hanno evidenziato il valore letterario e metaforico della formula “anarchia del potere”, che fa da pendant occidentale al tema della “decivilizzazione” e della violenza cieca che abita le istituzioni moderne. In alcune letture, si percepisce una parentela tra il pessimismo di Pasolini e gli ultimi scritti di Sade, Pessoa, Kafka, nonché con la critica post-strutturalista al potere come insieme di relazioni fluide e incontrollabili.
Critici come Massimo Recalcati hanno sottolineato come la diagnosi pasoliniana individui nel potere consumistico la capacità di «distruggere l'esperienza e rendere impossibile la memoria», tema centrale nella dissoluzione contemporanea dell'identità storica e del rapporto tra le generazioni.
Nel dibattito filosofico attuale, autori come Roberto Esposito e Carlo Galli tra gli altri hanno riletto l’anarchia del potere di Pasolini come profezia della società del controllo e della “tolleranza repressiva”, ancora attualissima nella società digitale globale.
L’impatto della riflessione pasoliniana sulla politica italiana fu tanto dirompente quanto isolato. Pasolini, già inviso alle destre per la sua critica anticlericale e le tematiche “scandalose”, divenne progressivamente inviso anche a settori della sinistra: la sua denuncia della “borghesizzazione” delle masse e della fine delle culture popolari venne letta come conservatorismo, quando non come tradimento dei valori progressisti.
La sua figura pubblica di intellettuale scomodo provocò una vera e propria sistemica ostilità trasversale all’arco politico, in una spirale di discredito che però non fece che accrescere il suo mito postumo. Col tempo, soprattutto dopo la morte violenta di Pasolini e il successivo disvelamento di molte verità su stragi di Stato, corruzione partitica e crisi della rappresentanza, la sua “profezia” sull’anarchia del potere iniziò a essere riconosciuta anche dagli avversari storici (vedi le “riabilitazioni” di figure come Giulio Andreotti negli anni Novanta e Duemila).
La nozione pasoliniana si è progressivamente trasformata in un "grimaldello" critico utilizzato da forze politiche tra loro avverse: da una parte dal pensiero neoconservatore e reazionario – che la rivendica come critica della rivoluzione sessantottina e dell’ingenuità progressista – dall’altra dalle nuove sinistre radicali, che vi scorgono una anticipazione della critica al neoliberismo globale, all’ipocrisia delle democrazie post-ideologiche e al controllo sociale mediante l’omologazione e la governance tecnologica.
In sintesi, l'anarchia del potere secondo Pasolini è una diagnosi tragica e profetica della società italiana (e occidentale): essa indica il successo del potere nell’imporsi come nuova norma “anonima” e onnipervasiva, capace di annientare – attraverso l’illusione della libertà, la seduzione consumistica e la cancellazione della memoria – ogni resistenza umanistica, minoritaria e popolare. Poche categorie critiche hanno, come questa, influenzato il linguaggio del dibattito italiano e internazionale, restando ancora oggi un riferimento imprescindibile per comprendere la crisi della democrazia, del pluralismo e della diversità nella modernità e nel post-moderno. La critica pasoliniana, pur radicata nel suo tempo, conserva una straordinaria attualità, invitando a riflettere sul rapporto tra potere, cultura e libertà nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione digitale. Nell’epoca della rete, degli algoritmi, della comunicazione digitale, il potere è ancora più invisibile, diffuso, impersonale. E la mutazione antropologica continua: non siamo più cittadini, ma utenti. Non siamo più soggetti, ma target.
Bruno Esposito
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