"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Tetis
di Pier Paolo Pasolini
in Erotismo, eversione, merce
Cappelli, Bologna 1973
ora in Saggi sulla politica e sulla società
(Saggi sparsi)
a cura di W. Siti e S. De Laude
“Meridiani” Mondadori, Milano 1999
da pp. 257-264
Le forme di un racconto letterario non sono solo tecnico-linguistiche: ci sono anche delle forme non verbali e quindi non visibili nella pagina: per esempio, l’arco dello sviluppo di un personaggio, i tratti in evoluzione della sua psicologia. La critica strutturale, attraverso specchietti e grafici, è in grado di rendere visibili anche questi dati interni: ma si tratta di una visibilità astratta, statistica.
Per il racconto cinematografico vale lo stesso discorso, perché l’autore di un film sceglie e rappresenta alcuni momenti della vita di un personaggio, il resto lo lascia all’interno del film, dentro le giunte.
Tra un personaggio che appare ridendo nella prima sequenza del film, e poi scompare, per riapparire, piangendo, nella terza sequenza, c’è un passaggio psicologico che non è una forma audiovisiva, pur essendo comunque una forma del film.
Lo spettatore tuttavia non acquisisce questo passaggio dal riso al pianto come una forma: ma si comporta con esso esattamente come se si trattasse di un fenomeno della vita. Opera cioè una interpretazione psicologica, simile a quella che egli opererebbe se in un’ora della sua vita si trovasse con una persona ridente, e, dopo qualche tempo, si trovasse con la stessa persona piangente. Egli, nella vita, ha degli elementi «esistenziali» che gli permettono di interpretare la realtà di quel riso o di quel pianto: ma l’autore del film non mancherà certo di fornirgli elementi esistenziali analoghi.
In conclusione: lo spettatore davanti alle «inclusioni» del film, cioè alle forme audiovisive, si comporta come un «ricevente» nella realtà, ma sa che è un’illusione; invece davanti alle «esclusioni», cioè alle forme non-audio-visive, si comporta tout court come un «ricevente» nella realtà: le deduzioni e le conclusioni a cui egli arriva per interpretare il comportamento di un personaggio nel film, seguono lo stesso schema che per interpretare il comportamento di una persona nella realtà.
Se una maggiore vivacità caratterizza l’identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme audiovisive (cioè alle parti di realtà del racconto «incluse»: riprese e montate), l’identificazione del codice del cinema col codice della realtà di fronte alle forme nonaudiovisive (cioè i momenti del racconto «esclusi» dalle riprese e dal montaggio), è un’identificazione assoluta.
Come in quel piano sequenza infinita che è la realtà, nel cinema il racconto consiste in un seguito di «inclusioni» e di «esclusioni». Ora, poiché in un film, la scelta è estetica, si deve dedurre che la prima scelta estetica di un regista è che cosa includere in un film o che cosa escludere.
Una scelta estetica è sempre una scelta sociale. Essa è determinata dalla persona a cui si rivolge la rappresentazione e dal contesto in cui la rappresentazione si svolge. Ciò non significa affatto che la scelta estetica sia impura o interessata. Anche le scelte di un santo sono sociali.
Prendiamo una scena erotica da laboratorio. Una camera, un uomo, una donna. Il regista è di fronte alla solita scelta: che cosa includere e che cosa escludere? Venti anni fa il regista avrebbe «incluso» una breve serie di atti appassionati e nobilmente sensuali, fino a comprendere un lungo bacio. Dieci anni fa il regista avrebbe «incluso» molto di più: dopo il primo bacio sarebbe giunto fino al momento in cui le gambe e, quasi completamente, i seni della donna, fossero scoperti, aggiungendo un secondo bacio ormai chiaramente precedente il coito. Oggi, il regista può «includere» molto di più: può includere il coito stesso (anche se finto dagli attori) e addirittura il nudo completo.
Nessuno di questi tre ipotetici registi può venire accusato di non aver fatto delle scelte estetiche, e di non essere andato fino in fondo al suo assunto espressivo. Di non avere, con uno sforzo personale, allargato lo spazio che — proporzionalmente — il contesto sociale gli concedeva.
Ora, pare che a questo punto, io sia chiamato in causa direttamente, e che debba testimoniare, oppure illustrare o giustificare, un’esperienza personale e pubblica nel tempo stesso. Infatti come autore di film, in questi ultimi anni, ho indubbiamente compiuto uno di quegli sforzi individuali di cui dicevo, per allargare lo spazio espressivo che la società mi concedeva a rappresentare il rapporto erotico. Sono giunto, per esempio — cosa mai accaduta fino a quel momento — a rappresentare il sesso addirittura in dettaglio. Devo dire anzitutto che io stesso, negli anni precedenti — sia con le opere che con gli interventi esplicitamente politici — e, inoltre, col mio stesso essere e comportarmi — avevo dato il mio contributo perché la società italiana mi concedesse quello spazio entro cui io potessi esercitare lo sforzo necessario per aumentare ancora di più le possibilità del rappresentabile. Sono state le lunghe lotte — ormai arcaiche se non mitiche — degli anni Cinquanta e quelle, ancora ribollenti, dei primi anni Sessanta, a preparare il terreno a questa inclinazione alle riforme e alla tolleranza da parte della società borghese italiana. La censura che un tempo censurava un seno scoperto, ora è giunta a lasciar passare, appunto, il dettaglio di un sesso in primo piano; e la magistratura, che, un tempo condannava per una semplice illazione, oggi è costretta a rendere molto più elastica la nozione sacra del «comune senso del pudore», C’è, in questi mesi, è vero, la minaccia di un ritorno all’ordine (non citerò gli esempi). Ma io penso che ciò che si è stabilizzato si sia stabilizzato, ciò che è passato sia passato. Se non fosse così, ebbene, chi ha lottato, lotterà ancora: ma per difendere le ultime posizioni raggiunte. E ragionevolmente da escludere che si debba ricominciare a lottare per difendere posizioni più arretrate. La minaccia non viene più dal Vaticano né dai Fascisti, che, nell’opinione pubblica, sono già sconfitti e liquidati, anche se ancora incoscientemente. L’opinione pubblica è ormai del tutto determinata — nella sua realtà — da una nuova ideologia edonistica e completamente, anche se stupidamente, laica. Il potere permissivo (almeno in certi campi) proteggerà tale nuova opinione pubblica. L’eros è nell’area di tale permissività. Esso è insieme fonte e oggetto di consumo. La società non ha più bisogno di figli forti e obbedienti e di soldati. Ha bisogno di figli a conoscenza di nuove esigenze, e coscienti quindi dei nuovi diritti che sono stati concessi loro. Ma di questo dirò più avanti.
Perché io sono giunto all’esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura — e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa — mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico — in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo.
Ora, i borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose maschere «primitive» di una nuova specie di iniziazione — fintamente negativa — al rito consumistico.
Il popolo è giunto con un po’ di ritardo alla perdita del proprio corpo. Fino a pochi anni fa (quando io pensavo al Decameròn e alla susseguente Trilogia della vita) il popolo era ancora quasi completamente in possesso della propria realtà fisica e del modello culturale a cui essa si configurava. Per un regista come me, che avesse intuito che la cultura (in cui egli si era formato) era finita, che non dava più realtà a nulla, se non appunto (forse) alla realtà fisica, era naturale conseguenza che tale realtà fisica si identificasse con la realtà fisica del mondo popolare.
Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere.
Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo — e proprio per ragioni stilistiche — non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso. Non sarei giunto in fondo alla rappresentazione della realtà corporea se non avessi rappresentato il momento corporeo per definizione. Il popolo può essere anche casto, e condurre una vita monacale. Ma — almeno fino a pochi anni fa — non era diviso dal proprio sesso. La morale dell’onore, nel meridione, non avviliva o rimuoveva il sesso: anzi, lo esaltava. E così, del resto, la repressione esercitata dalle classi al potere. Castità e violenza sessuale erano viste con naturalezza. I tabù creavano ostacoli, non dissociazioni.
Naturalmente al fatto che io scegliessi come protagonista dei miei ultimi film la realtà fisica del popolo, e la rappresentassi nella sua interezza, hanno contribuito anche altre ragioni, oltre a quella generale e profonda che ho detto. Per esempio, la ragione che i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio ultimo cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico piccolo-borghese e benpensante (che peraltro non si è lasciato affatto provocare, e ha semplicemente, e finalmente, riconosciuto nel cinema una sua realtà — naturale per il pubblico popolare, liberatoria per parte del pubblico borghese). Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. Provocazione contro il moralismo gauchista, le cui Vestali si sono indignate e hanno gridato allo scandalo esattamente come le Vestali della tradizione («Potere operaio» ha usato in proposito lo stesso linguaggio, anzi, le stesse parole, dei Pubblici Ministeri). Sì, non ho voluto fare del cinema politico d’intervento, non ho voluto fare neanche della politica romanzata. Infatti, fra non molto, molti si vergogneranno dei loro film degli anni Sessanta (vergogna condivisa dai loro destinatari). Io no, non mi vergognerò. Già — tanto per cominciare — la responsabilità, che mi veniva vergognosamente attribuita, di aver creato un genere cinematografico volgare e commerciale, si è stinta, e si è rivelata per quel fatto passeggero e irrisorio che era. Posso invece vantarmi, se mai, di aver costituito il necessario precedente per i film di Bertolucci e di Ferreri. E, inoltre, potrei anche vantarmi di aver inciso coi miei film sul costume italiano e sulla sua evoluzione; sulla liberalizzazione dell’opinione pubblica e sulla decongestione del «comune senso del pudore». Di questo, invece, non mi vanto. Anche se ne Il Fiore delle mille e una notte e nel prossimo film, che avrà per tema esplicitamente la «ideologia», continuerò a rappresentare anche la realtà fisica e il suo blasone, Tetis, mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il consumo di tutto il superfluo considerato necessario a una coppia moderna. Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani — borghesi, e soprattutto proletari e sottoproletari — se tali distinzioni sono ancora possibili — l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L'obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli «incapaci» o dei «diversi»: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformistica di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici. Così l’ultimo luogo in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso. Nel proprio corpo i giovani del popolo vivono la stessa dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che i giovani della borghesia. Se volessi continuare con film come Il Decameròn non potrei più farlo, perché non troverei più in Italia — specie nei giovani — quella realtà fisica (il cui vessillo è il sesso con la sua gioia) che, di quei film è il contenuto.
Pier Paolo Pasolini
Nota al testo “Tetis”
Da Note e notizie sui testi
in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p.1756
TETIS (1973)
Intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna (15-17 dicembre 1973) con il proposito di «analizzare teoricamente la funzione sociale e quindi politica dell’Eros». Il volume, a cura di Vittorio Boarini (Cappelli, Bologna 1973), comprende, fra gli altri, interventi di Félix Guattari, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Fernanda Pivano, Gianni Scalia, Elémire Zolla. Dattiloscritto in AP, originariamente inserito nella cartella approntata da Pasolini Descrizioni di descrizioni 1974.
Il titolo del saggio è legato alla convinzione, più volte riaffermata da Pasolini (cfr. Dal Laboratorio, in EE), che “tetis” in greco significhi «sesso, sia maschile che femminile». Dalla stessa convinzione deriva anche il nome di Carlo di Tetis per una delle due personificazioni del protagonista di Petrolio.
Il 4 febbraio 1973, nella rubrica Tribuna aperta del «Corriere della Sera» (Libertà e sesso secondo Pasolini), Pasolini si era lamentato delle imitazioni subite dai suoi film della “Trilogia della vita“, ma rivendicava ancora senza pentimenti la rappresentazione del sesso come forma della libertà d’espressione. Riportiamo qui un brano di quell’articolo (il resto, specificamente dedicato ai Racconti di Canterbury, verrà pubblicato in appendice alla sceneggiatura, nei volumi dedicati al cinema).
Al Decameron è seguita una lunga serie di film che non soltanto lo imitavano, ma cercavano (e ci riuscivano, presso il grande pubblico) di esserne delle perfette contraffazioni; di passare per i suoi «seguiti»; di riprodurne, insomma, l’autenticità. Si trattava dunque di vere e proprie truffe o sofisticazioni. La stessa cosa è successa ai Racconti di Canterbury (e addirittura alle Mille e una notte, che devo ancora girare, per esempio, con un Finalmente le Mille e una notte). Insomma la concorrenza è stata ed è continua, sleale, sfacciata, brutale. Una torma di sciacalli ha seguito il Decameron e segue ora i Racconti di Canterbury, valendosi di metodi che dovrebbero essere inconcepibili in una società appena civile. E, del resto, sono inconcepibili: nessuno di noi potrebbe concepire infatti che uscisse un prodotto chiamato «Agip n. 2», oppure «Finalmente Fiat» (col «finalmente» in caratteri molto piccoli). Ma questo è il lato puramente commerciale o concorrenziale della faccenda.
C’è molto di peggio, ai danni non solo dell’autore dei prodotti primi — del Decameron, dei Racconti di Canterbury — ma naturalmente anche del pubblico. Infatti l’equivoco non riguarda solo la autenticità, ma anche la qualità dell’opera.
La gente — e purtroppo era molta — che, incontrandomi per strada mi chiedeva del Decameron n. 2 o del Decameron proibito attribuendomene la paternità, credeva anche che la «qualità» delle opere fosse la stessa (benché, magari, le opere inaugurali gli paressero «riuscite meglio»). Ciò è umiliante per me, ma anche per quegli innocenti. Non si può pretendere dai singoli spettatori che formano il grande pubblico nessuna forma di correttezza e di autonomia di giudizio. Ormai la gente — tutta — ha perduto il senso della forma. Il giudizio è brutalmente contenutistico. E questo vale non solo per coloro che confondono il Marito cornuto del Boccaccio con quello delle barzellette, ma anche per le élites dei privilegiati (come per esempio i critici cinematografici) che credono che un film sia politico perché ha un contenuto politico, mentre la sua forma è quella dei più orrendi e approssimativi prodotti televisivi.
Comunque è un dato di fatto che creare in uno spettatore indifeso una confusione di valori che identifichi la «qualità» di un’opera di autore con la «qualità» della più volgare e infame contraffazione commerciale è delittuoso.
Ebbene, non una voce in Italia si è levata a protestare contro tutto questo. Non c’è stato un prete o un magistrato che abbia protestato contro l’indegnità morale e giuridica di una concorrenza sleale che — sia ben chiaro — non è eccezionale ma tipica della vita italiana. Non c'è stato un prete o un magistrato che abbia protestato contro l’indegnità morale e giuridica — ai danni di una singola persona e dell’intero pubblico — della confusione di valori creata da tale concorrenza. Non c’è da meravigliarsi, certo. È ben nota l’indifferenza dei moralisti italiani ai reali problemi morali, quelli su cui si fonda una realtà nazionale.
A compensare questo colpevole silenzio dei nostri moralisti, si è avuta però, un’altra, vibrante, generale protesta per la libertà della rappresentazione sessuale del Decameron e dei Racconti di Canterbury (non delle loro contraffazioni, però). A questo punto il discorso si restringe e si allarga nel tempo stesso. Si restringe perché un discorso sul sesso è meno vasto, civilmente e politicamente, di quello sulla «produzione» e sugli annessi «valori»; si allarga, perché il discorso sul sesso è, moralmente, per definizione, più vasto e profondo di ogni altro.
La prima cosa da dire è questa: è un dovere per ogni cittadino provare ed esprimere una indignazione morale verso coloro che, per puro interesse, creano «prodotti» contraffatti con gli impliciti «valori» mistificati. Insomma è giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei vini dei Castelli o degli olii lombardi; e sarebbe giusto indignarsi per la contraffazione e la mistificazione dei film romani (oltre tutto il giro di miliardi non è inferiore).
E invece ingiusto — anzi stupido e malvagio — indignarsi per ogni forma di libertà sessuale nel momento in cui essa è libertà d’espressione.
Pier Paolo Pasolini
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
Curatore, Bruno Esposito
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dei Racconti di Canterbury?
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