- Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
- ma nazione vivente, ma nazione europea:
- e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
- governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
- avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
- funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
- una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
- Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
- pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
- tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
- Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
- proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
- E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
- che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Pier Paolo Pasolini
(da La religione del mio tempo,
1961, ora in Tutte le poesie)
Così Pasolini ai lettori di "Vie Nuove":
"I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi - nei casi migliori - perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che é stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia... Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana. [...] Per esempio, un epigramma intitolato Alla bandiera rossa. In esso delineo una tragica situazione di regresso nel sud (come si sa, coincidente con il progresso economico, almeno apparente, del nord) e concludo augurandomi che la bandiera rossa ridiventi un povero straccio sventolato dal più povero dei contadini meridionali. Forse per questo Salinari mi chiama, senza mezzi termini, senza appello, 'populista'".
Vittorio Gassman:
«[…] È certo che, almeno per noi, Pier Paolo rappresenta forse l’assenza più pesante nel tessuto della cultura contemporanea. Ci mancano, sì, la sua sterminata vitalità, il suo coraggio irriducibile.
Per quel tanto, non tantissimo, che era possibile credo di averlo conosciuto abbastanza bene. Capii per esempio la sua iniziale riluttanza quando ai tempi del Teatro Popolare Italiano, che dirigevo insieme a Lucignani, gli chiedemmo di tradurre per noi l’Orestiade di Eschilo. Disse, brutalmente, che il teatro non rientrava nei suoi interessi; disse e scrisse che lo disgustavano sia il teatro della magniloquenza retorica sia quello della futilità, della chiacchiera, diceva.
Bene, dopo poco più di di mesi mi telefonò, e mi disse che aveva già terminato la traduzione – primo suo lavoro per la scena – che noi rappresentammo a Siracusa nel ’60 e che per la sua potenza e modernità entusiasmò il pubblico almeno quanto scandalizzò i professori e i critici pecoroni.
Con la stessa rapidità e lo stesso fervore creativo Pasolini scrisse, non molto tempo dopo, tutto il suo teatro, e devo dire, fra i ricordi più belli della mia carriera, restano le due rappresentazioni che feci a distanza di anni della sua Affabulazione Per quel tanto, non tantissimo, che era possibile credo di averlo conosciuto abbastanza bene. Capii per esempio la sua iniziale riluttanza quando ai tempi del Teatro Popolare Italiano, che dirigevo insieme a Lucignani, gli chiedemmo di tradurre per noi l’Orestiade di Eschilo. Disse, brutalmente, che il teatro non rientrava nei suoi interessi; disse e scrisse che lo disgustavano sia il teatro della magniloquenza retorica sia quello della futilità, della chiacchiera, diceva. Bene, dopo poco più di di mesi mi telefonò, e mi disse che aveva già terminato la traduzione – primo suo lavoro per la scena – che noi rappresentammo a Siracusa nel ’60 e che per la sua potenza e modernità entusiasmò il pubblico almeno quanto scandalizzò i professori e i critici pecoroni. Con la stessa rapidità e lo stesso fervore creativo Pasolini scrisse, non molto tempo dopo, tutto il suo teatro, e devo dire, fra i ricordi più belli della mia carriera, restano le due rappresentazioni che feci a distanza di anni della sua Affabulazione […]»
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