"ERETICO & CORSARO"
Mamma Roma, di Pier Paolo Pasolini
Con "Mamma Roma", Pasolini continua la sua analisi del sottoproletariato italiano e sopratutto porta a compimento la sua personale riflessione stilistica, che lo porta, qui più che nel precedente "Accattone" (1961) ad elaborare uno stile che può essere descritto con un unico sostantivo: "ambivalenza"; l'ambivalenza era un tema, o per meglio dire "status" ben presente nella figura del compianto regista, sopratutto sul piano personale; cattolico credente (ma laico), tuttavia iscritto al Partito Comunista (dal quale fu scacciato, nei primi anni '60, a causa della sua omosessualità), scrutatore e vivisezionatore della classe più povera e abietta dell'Italia dell'epoca, ma, per forza di cose, esponente della borghesia; e poi accusatore di questa stessa classe cui apparteneva, tacciata di immane stupidità ed ingavia; intellettuale colto e raffinato, esteta provetto, eppure affascinato dal neorealismo e dai toni sporchi e crudi.
"Mamma Roma" rappresenta l'emblema delle pulsioni opposte e complementari che si agitavano nella mente de Pasolini; oltre ad essere il suo ultimo film squisitamente "neorealista", o quanto meno l'ultimo in cui l'influenza del cinema italiano degli anni '40 si avverte ancora prepotente.
Mamma Roma (Anna Magnani) è una prostituta non più giovane che vive nell'estrema periferia della capitale; dopo il matrimonio del suo protettore Carmine (Franco Citti), la donna decide di abbandonare la strada per crescere come si deve il suo figlio sedicenne Ettore (Ettore Garofalo); il suo sogno è quello di trasformare il figlio in una persona rispettabile, ma la legge della strada, sfortunatamente, non fa sconti.
Secondo capitolo di un'ideale trilogia iniziata l'anno prima con il suo esordio "Accattone" (e terminata l'anno seguente con "La Ricotta"), "Mamma Roma" è una moderna tragedia ambientata nei sobborghi romani; Pasolini torna a scandagliare il fondo della società italiana, a ritrarne i volti scavati e la disperazione più nera in cui i personaggi affondano; la protagonista, in questo senso, rappresenta un archetipo del sottoproletariato: una donna sola, che ha vissuto sulla sua pelle le pene dell'inferno per sopravvivere in un mondo oscuro e disperato come il pozzo nero dantesco che viene citato, e che ora cerca in tutti i modi un riscatto; riscatto che ha la forma del benessere borghese, di una casa comoda in un quartiere per bene, in cui "i ragazzi studiano o lavorano", o della motocicletta che regala al figlio, quello strumento che lo stesso Pasolini descriverà come "unico valore dei ragazzi borghesi"; Mamma Roma è, fin nel nome, la figura materna per antonomasia: una donna pronta a tutto per il bene del figlio, perfino a ritornare a "fare la vita" quando costretta o ad impugnare un coltello contro chi minaccia il suo menàge familiare.
Ettore, d'altro canto, è il perfetto esponente della gioventù "de borgata" dell'epoca: scavezzacollo e scansafatiche, si perde subito per le strade polverose della capitale girovagando tra piccoli furti e lavoretti occasionali; Ettore è "il figlio", la creatura da salvare, o per meglio dire da "preservare" dalle sventure del mondo; sventure che vengono incarnate, oltre che dai "ragazzi di vita" suoi compagni, anche dalla bella ragazza di strada Bruna, figura complessa e dal simbolismo plurimo. Bruna è anzitutto una ninfa, che attira con la sua bellezza un Ettore ancora ragazzo e lo trasforma in un uomo; in questo ambito (che coincide con le prime scene in cui appare) è una figura angelica, paragonata alla Madonna con bambino, una sorta di versione più giovane di Mamma Roma e con essa in competizione per l'affetto del ragazzo; Mamma Roma, di fatto, non sopporta le attenzioni della ragazza non tanto perché gelosa del suo ruolo di nuovo polo femminile nella sua vita, quanto a causa della sua estrazione misera, simbolo di una vita di strada e di stenti dalla quale vuole, appunto, preservare il suo pargolo. E qui che il personaggio di Bruna muta e diviene anch'essa, al pari dei compagni, metafora di una vita svenduta, di una sventura da rifuggire e, in senso lato, della tentazione: quella della "vita facile", opposta al lavoro e alla onesta fatica con cui Mamma Roma tenta di emanciparsi lavorando come fruttivendola, e con il quale tenta di far emancipare, invano, anche Ettore.
Emancipazione, come accennato, del tutto vana; Ettore, nel corso della pellicola, muta anch'egli il suo ruolo; da ragazzo ingenuo, che commette piccoli furti solo per la bella Bruna, egli diviene un ragazzo di strada vero e proprio, che schiva (e schifa) il lavoro, che rinnega più volte la madre a prescindere dall'affetto e dalla bontà che gli dimostra e che sopravvive con furtarelli e truffe, come una sorta di "Accattone" ancora imberbe; l'emancipazione dalla strada, ci dice Pasolini, è impossibile: il riscatto benevolmente imposto dalla figura materna viene rifuggito in favore di una dannazione; anzi, di un martirio catartico: Ettore, nel finale, viene trascinato in una spirale distruttiva che culmina nella sua morte; una morte che il grande regista ritrae come un rituale, con uno splendido movimento che disvela il corpo idealmente crocefisso del personaggio per tre volte. Ettore è dunque, in quest'ultima parte, una "vittima sacrificale", un agnello che si condanna da solo al macello e che solo negli ultimi istanti di vita si pente invocando il nome della madre, che miracolosamente lo ascolta e corre da lui, in un finale in cui è impossibile trattenere le lacrime. E se la dannazione del ragazzo è auto-imposta, quella della madre viene invece "dal di fuori", da cause estranee e imperscrutabili, che coincidono con il ritorno del protettore Carmine, il ritorno in strada (che Pasolini incornicia in una monocromia ancora più scura e buia) e con l'invocazione all'eterno, la questione posta a Dio, ossia la preghiera come ultimo baluardo contro la perdizione.
L'ambivalenza stilistica è avvertibile per tutta la durata della pellicola; l'influenza del neorealismo viene qui unita dall'autore a esigenze del tutto contingenti e personali; ecco dunque che ai volti "da strada" che popolavano, in via esclusiva, l'esordio di Pasolini, si affianca, in veste di protagonista, Anna Magnani; l'attrice, all'epoca all'apice della fama, introduce nell'opera una vitalità unica, una carica dirompente che gonfia a dismisura tutti gli elementi di commedia e tragedia presenti; ecco dunque che il prologo, con il matrimonio di Carmine, diviene un vero e proprio pezzo da antologia della commedia all'italiana, ossia quel filone nato dallo stesso neorealismo ora massificato; la Nannarella urla a squarciagola, canta, si strugge, cade e si rialza nella sua interpretazione più sfaccettata ed incisiva; ed è anche merito suo se il finale riesce davvero a commuovere; e dagli albori del neorealismo Pasolini rievoca un altro volto storico, quello di Lamberto Maggiorani, indimenticato protagonista di "Ladri di Biciclette" (1945) che qui compare in un ruolo piccolo ma significativo.
Ambivalenza che si sostanzia ancora maggiormente nella messa in scena; agli ambienti spogli e sporchi Pasolini giustappone una musica classica per ricreare un'atmosfera sacrale e ai limiti dell'onirico; i volti e i corpi degli attori non professionisti vengono incorniciati in inquadrature ancora più "pittoriche"; l'influenza della formazione artistica dell'autore si palesa ancora più esplicitamente in questa sua seconda opera, in cui abbonda il gusto per la frontalità; da antologia le carrellate all'indietro che anticipano le "passeggiate" della Magnani sui viali, il già citato finale con Ettore novello Cristo del Mantegna, o, ancora e sopratutto, l'ultimissima inquadratura, con il volto in lacrime della Magnani attorniato dai compagni, come una novella Madonna dei reietti. Ambivalenza che si palesa, in ultimo, anche nella fotografia volutamente "bipolare" del maestro Tonino Delli Colli, che immerge in una luce accecante i "ragazzi di strada", come arsi vivi dal sole, ed adotta una monocromia più contrastata e controllata per ritrarre la protagonista, a simboleggiarne la lotta continua e disperata contro il fato.
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