"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Orestea, da Eschilo a Pasolini: la parola alla polis*
Anna Banfi
Vorrei partire da una data, il 5 ottobre 1959, e da una lettera che in quella data Luciano Lucignani – regista insieme a Vittorio Gassman dell’Orestiade 1960 – scrive a George Thomson, autore di Aeschylus and Athens.
Lucignani scrive:
“[…] Scartata la soluzione 'archeologica' (che è la sola ad aver ispirato da trent’anni a questa parte tutte le messinscene di opere dell’antichità classica nel nostro paese), e scartata, con altrettanta decisione, quella che impropriamente definiremo 'estetica' (cioè interpretazione della poesia greca senza riferimento ai suoi rapporti con la storia politica e sociale), non resta che una decisa, intransigente, interpretazione 'storica'. Il signor Gassman ed io siamo convintissimi che l’Orestiade
rappresenti, come lei dice in modo così suggestivo, il passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale, che muove da un’epoca lontana e barbara per concludersi con la nascita del regno della legge”
(Luciano Lucignani, lettera a George Thomson,
in Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude,
Milano 2001, p. 1215).
Ho scelto queste parole tra le tante significative scritte da Gassman, Lucignani e Pasolini su questi temi, perché in esse coesistono diversi aspetti: una dichiarazione di poetica, l’intenzione – importante e da non sottovalutare – di mettere la propria opera, il proprio spettacolo in relazione con gli spettacoli e la tradizione precedente e, infine, una affermazione perentoria, inequivocabile sulla lettura dell’Orestea come opera politica.
Lucignani scrive questa lettera quando Pasolini è già al lavoro sull’Orestea: il poeta consegnerà infatti la traduzione di Agamennone circa tre mesi dopo, il 15 gennaio del 1960 (sulla traduzione dell'Orestea di Pier Paolo Pasolini si veda il saggio-documentario di Monica Centanni e Margherita Rubino, Gassman Pasolini e i filologi ). Il compito di tradurre l’Orestea gli era stato affidato – come dichiara lui stesso nella Lettera del Traduttore – da Gassman che aveva imposto la traduzione di Pasolini ai membri dell’Istituto del Dramma Antico: dalle lettere ancora conservate nell’Archivio INDA si ricava che inizialmente l’Istituto aveva proposto di affidare la traduzione di Agamennone a Traverso, di Coefore a Quasimodo e di Eumenidi a Perrotta, ma per non rinunciare alla presenza di Gassman aveva poi dovuto accettare la traduzione di Pasolini per l’intera trilogia: le preoccupazioni dei membri dell’Istituto – non da ultimo di Sammartano, all’epoca commissario dell’INDA – sono moltissime e dovute da una parte al timore di andare incontro a una traduzione 'insolita' per il pubblico di Siracusa, abituato a traduzioni appunto archeologiche, dall’altra, anche alla diffidenza con cui Pasolini veniva guardato in quegli anni in Italia, per le vicende che lo avevano coinvolto sia dal punto di vista personale sia da quello politico, e che ovviamente riguardavano anche la stesura dei suoi romanzi.
Non dimentichiamo infatti che proprio in quei mesi in cui stava lavorando alla traduzione di Eschilo, Pasolini era nel bel mezzo della bufera che si era scatenata intorno alla pubblicazione di Ragazzi di Vita (1955) e Una vita violenta (1959) e che solo un mese dopo la fine delle rappresentazioni siracusane l’onorevole Togliatti invitava, con un comunicato ufficiale, i propri compagni di Partito a non prendere le difese di Pasolini e a stare attenti nel considerarlo un simpatizzante del PCI, visto che per le faccende giudiziarie in cui era stato coinvolto era diventato una cattiva pubblicità per i comunisti (come si evince da una nota dell’Agenzia Fert del 14 luglio 1960).
Insomma Pasolini non era il classico traduttore a cui l’Istituto del Dramma Antico si rivolgeva per le traduzioni dei testi da rappresentare nei propri spettacoli. A questo si aggiunga il fatto che Gassman e Lucignani intendevano mettere in scena uno spettacolo che condividesse le linee essenziali delle teorie marxiste che Thomson aveva espresso nel suo Aeschylus and Athens, un testo che già aveva suscitato diverse polemiche. Dunque all’inizio questo esperimento, questa rivoluzione – anche se Gassman non amava chiamarla così – sembra ai più un salto nel buio, una scelta rischiosa. Ma, convinti da Gassman, i membri dell’Istituto decidono di rischiare, pienamente consapevoli – anche questo si evince dalle lettere conservate nell’Archivio – che molti filologi sarebbero stati pronti a polemizzare, additare e a demolire la traduzione di Pasolini, cosa che tra l’altro in parte avverrà.
Credo sia inutile soffermarsi sugli errori filologici nella traduzione di Pasolini: essi sono stati evidenziati, ci sono senza dubbio, alcuni sono di evidente fraintendimento, altri sono di consapevole allontanamento dal significato del testo greco. Credo sia invece più utile tentare di comprendere in che modo Pasolini traduce, elabora e riscrive l’Orestea di Eschilo per veicolare quella che è la propria lettura della realtà politica, quello che è il suo sentire pubblico e privato di quegli anni, in che modo – potremmo dire – attualizza l’attualità di Eschilo.
Voglio infatti partire dalla considerazione che, essendo il testo dell’Orestea un testo politico, esso rivive con maggior forza, con maggior 'fedeltà' se conserva l’intenzione politica di raccontare il processo storico che porta alla partecipazione della città alle decisioni che la riguardano. Questo è un tema che evidentemente c’è nel testo di Eschilo, ma che viene palesato e reso comprensibile al pubblico solo se tradotto con parole che il pubblico può comprendere. E la traduzione di Pasolini fa questo: utilizza le parole di Eschilo, le riscrive, per esprimere un concetto di Eschilo con parole che sono però vicine e chiare al pubblico degli anni Sessanta.
Nel 1959 Pasolini scriveva che non voleva, non accettava di diventare un caso letterario, un oggetto di attualità e di superficialità giornalistica e si auspicava – veramente lo diceva con forza, lo pretendeva – che della propria opera non venissero messi in primo piano – sono parole sue – “solo gli aspetti secondari come quelli del linguaggio o della crudezza che c’è nella mia verità”, e aggiungeva:
“Questo è solo un modo elegante per non indugiare invece sulla questione sociale, che è per me, nelle mie intenzioni d’artista la più importante”
(Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude,
Milano 2001, pp. LXXXIII-LXXXIV).
Ora, queste sono parole che evidentemente non si riferiscono alle sue traduzioni, ma ai suoi romanzi, e che io per certi versi non mi sento di condividere, perché credo fermamente che il linguaggio non sia un aspetto secondario, ma anzi primario della comunicazione. Ho citato però queste parole, perché ritengo che – soprattutto per un autore e un poeta quale era Pasolini – non sia affatto corretto concentrarsi solo sull’aspetto linguistico fine a se stesso (e in questo rientra quindi anche il tema della traduzione), ma sia invece più interessante indagare l’ideologia che si trova nella sua opera e l’uso – questo sì – del linguaggio come mezzo per esprimere un concetto che, come un tassello di un mosaico, va a comporre l’armonia dell’opera.
Prendiamo ad esempio una delle idee di fondo della lettura che Pasolini fa dell’Orestea: le Erinni sono elementi primitivi, irrazionali, che caratterizzano la società arcaica; nel processo di trasformazione verso la società moderna, esse devono mutare ma sopravvivere ed essere inglobate nella nuova realtà, che deve essere quindi in grado di valorizzarle. Pasolini dà dunque grande forza e importanza a questi elementi primitivi: ma non sono solo le Erinni a rappresentare queste forze arcaiche, prima di loro lo è Clitennestra. Quale mezzo migliore ha allora un poeta, un traduttore, per esplicitare questo pensiero, se non quello di intervenire sul testo utilizzando espedienti linguistici che diano concretezza alla propria idea? Un esempio su tutti è l’uso che Pasolini fa del discorso diretto: esso rafforza il concetto espresso, lo rende immediato; le ragioni sostenute ricevono più forza, diventano più chiare: ecco allora che Pasolini ne fa uso, anche quando nel testo originale greco si trova invece il discorso indiretto, per rafforzare l’immagine e le ragioni di Clitennestra.
In Agamennone, alla fine del dialogo tra il Messaggero e Clitennestra, la Regina si rivolge all’araldo chiedendo che riferisca al Re che la sua sposa attende, fedele, il ritorno dell’eroe vincitore (Ag. vv. 604-14): Pasolini traduce questo passo costruendolo in modo tale che Clitennestra immagini di rivolgersi direttamente ad Agamennone: l’impatto è molto più forte, le parole della Regina sono enfatizzate e il tono diventa ancora più convincente.
Dall’altro lato, l’atteggiamento di Pasolini nei confronti di Agamennone sembra di segno opposto: le parole piene di dolore e di angoscia che il Re pronuncia quando si trova a dover decidere se sacrificare la vita della figlia Ifigenia o tradire la flotta, nel testo greco sono riportate dal Coro in forma diretta, a dare voce al dubbio straziante di Agamennone (Ag. vv. 205-217). Pasolini invece traduce riportando queste parole in forma indiretta, svilendo le ragioni che portano il Re a scegliere di uccidere la figlia e togliendo forza all’immagine del padre distrutto dalla Necessità di compiere l’omicidio.
Dall’altro lato, l’atteggiamento di Pasolini nei confronti di Agamennone sembra di segno opposto: le parole piene di dolore e di angoscia che il Re pronuncia quando si trova a dover decidere se sacrificare la vita della figlia Ifigenia o tradire la flotta, nel testo greco sono riportate dal Coro in forma diretta, a dare voce al dubbio straziante di Agamennone (Ag. vv. 205-217). Pasolini invece traduce riportando queste parole in forma indiretta, svilendo le ragioni che portano il Re a scegliere di uccidere la figlia e togliendo forza all’immagine del padre distrutto dalla Necessità di compiere l’omicidio.
L’uso splendido, poetico, che Pasolini fa della parola nella sua Orestiade è evidente anche nella traduzione dei versi meravigliosi che Eschilo dedica alla realtà della guerra, guerra che porta sofferenza e morte ai soldati, e angoscia e dolore infinito a chi rimane in patria. Questi versi attuali nel V sec. a.C., sono attuali oggi, ed erano attuali in Italia anche nel 1960, nel secondo dopoguerra. Con la realtà della guerra Pasolini si trova a dover fare i conti in prima persona, quando ha poco più di vent’anni, e a causa della guerra perde il fratello Guido. Credo che Pasolini abbia tradotto questi versi, facendoli suoi, rivivendoli alla luce della propria tragica esperienza personale: questo traspare in diversi punti del testo.
Ad esempio molto di ciò che in greco è impersonale, universalizzato, Pasolini lo fa diventare personale, intimo, come i bellissimi versi del I stasimo dell’Agamennone, che Pasolini traduce: “Tutti li ricordiamo i volti / di coloro che sono partiti / ora ritornano in patria / ma sono urne e cenere” (Ag. vv. 432-436). Pasolini qui sembra dire: tutti noi – e io con voi – condividiamo il ricordo – personale, ma che diventa collettivo, nel momento in cui è stato il destino di molti – della morte in guerra di un parente o di un amico.
Pasolini fa sua anche l’immagine meravigliosa che Eschilo restituisce di Ares cambiavalute (Ag. vv. 437-444), che da dio della Guerra diventa dio della Morte: un dio che – questa è un’immagine di Pasolini, non di Eschilo – è “un mercante che ha messo il banco nel campo di battaglia”.
Questi sono solo alcuni esempi che possono contribuire a chiarire la lettura e la traduzione che Pasolini fa di alcune immagini dell’Orestea: Pasolini le re-inventa, le ricostruisce in modo da farle proprie e veicolarle così – con più forza, con più determinazione - al lettore-spettatore.
Quando un poeta, un traduttore riesce a vivere il testo che traduce, a condividerne lo spirito più profondo e a conoscere di esso premesse e obiettivi, allora credo che la versione che consegna al pubblico – siano essi lettori o spettatori – non corra il rischio di essere un tradimento, un fraintendimento dell’originale. E così si può dire della versione di Pasolini, che rimane un’opera di grande poesia.
L’Orestiade di Pasolini non è la prima Orestea ad essere rappresentata al Teatro Greco di Siracusa: già nel 1948 l’Istituto del Dramma Antico aveva scelto di mettere in scena la trilogia di Eschilo, con la traduzione di Manara Valgimigli. Anche nel 1948, a fare da sfondo alla rappresentazione dell’Orestea, c’è l’attualità dell’Italia di quegli anni.
Il 19 settembre del 1948 – a pochi mesi dalla conclusione delle Rappresentazioni Classiche – un giornalista de "Il Popolo Italiano" scrive: “La conoscenza nasce dalla sofferenza. Le parole di Eschilo dovettero risuonare nella pietra nuda del teatro siracusano come la conferma di una consapevolezza ormai acquisita e condivisa tra chi aveva sperimentato gli orrori della seconda guerra mondiale: il 16 aprile 1914 ciò non lo capimmo e non lo potevamo capire, ma oggi è tutto manifesto". L’Orestea di Eschilo è sentita quindi anche in questo caso vicina, attuale, interprete del sentimento di un popolo che vuole lasciarsi alle spalle la distruzione provocata dalla guerra ma che al tempo stesso vuole riflettere su essa e forse rileggersi nelle parole alte di un poeta, non per consolarsi, ma per prendere coscienza di ciò che è stato.
Lo stesso Raffaele Cantarella, allora Presidente dell’INDA, scrive al Presidente della Regione Sicilia: “Dopo la tragica parentesi della guerra, le amarezze degli anni successivi, l’Italia comincia a riprendere il suo posto nel mondo. L’Istituto, forte della ormai più che trentennale sua tradizione, intende anch’esso portare il suo contributo in questa rinascita di tutte le forze operanti della Nazione e in un campo che ha una importanza grandissima per la nostra affermazione nel mondo: il campo della cultura”; e ancora Cantarella, sulla scelta dell’Orestea, in un’intervista aggiunge: “Il nome di Eschilo, dopo una parentesi di circa dieci anni, si presenta naturalmente. Eschilo è rimasto primo e solo a mostrare che cosa possa la tragedia, non pur attuata come altissima forma d’arte, quanto concepita come visione ed essenza, insieme, della vita. Scelto per queste ragioni Eschilo, si propone ovviamente alla nostra attenzione la maggiore opera di lui, l’unica trilogia superstite del teatro greco, il capolavoro della tragedia di tutti i tempi: l’Orestea” (intervista rilasciata alla rivista "Camene di Catania", maggio 1948).
L’Orestea del 1948 e l’Orestiade del 1960 sembrano quindi intessute – quasi naturalmente, senza strappi o forzature – nella realtà politica degli anni in cui vengono rappresentate: esse, molto più di altre messe in scena al Teatro greco di Siracusa, sono profondamente legate alla realtà contemporanea. Specchio dell’attualità o punto di partenza per una seria riflessione sulla storia recente, le Orestee siracusane sono in sintonia con il ruolo che il Novecento europeo – si potrebbe dire anche extraeuropeo, ma il discorso temo diventerebbe lungo – ha dato alla trilogia di Eschilo: un ruolo politico, di riflessione collettiva su eventi storici, fasi di passaggio e di fratture profonde.
E ora arriviamo all’Orestea del 2008, diretta dal Maestro Pietro Carriglio con la versione di Pier Paolo Pasolini. Ho avuto la fortuna di collaborare con il Maestro Carriglio, con i suoi assistenti e con gli attori nella realizzazione di questo spettacolo e di vedere, ancora una volta, come il testo di Eschilo si riveli straordinariamente adatto a interpretare e a raccontare la realtà, stimolando una riflessione politica costante in chi mette in scena il testo, in chi interpreta i ruoli dei personaggi e, mi auguro, anche in chi assiste allo spettacolo.
L’Orestea ha molte facce: una di esse è il racconto del cammino dell’uomo dallo stato primitivo in cui – per dirla con le parole di Pasolini - “a parola di odio risponde parola di odio” e “per sangue sparso si spande altro sangue” a uno stato di cose nuovo, in cui alla Vendetta si sostituisce la Legge, del cui rispetto devono farsi garanti gli uomini stessi: il principio secondo cui il compito di punire un assassino spetta ai congiunti dell’assassinato viene superato dall’istituzione di un tribunale, il cui compito consiste appunto nel giudicare con giustizia l’accusato.
L’Orestea diventa quindi il racconto tragico del percorso – lungo e difficile – dell’uomo-cittadino verso la legalità: quale altro testo antico può rappresentare così bene la realtà che vive oggi la Sicilia? In un momento storico in cui dalla società civile siciliana, anche grazie al lavoro svolto da associazioni come “Addio Pizzo”, viene con forza espressa la necessità di lasciarsi alle spalle l’immagine di una Sicilia connivente con la mafia, di una Sicilia che paga il pizzo, e di costruire invece un percorso comune verso la legalità, la messa in scena dell’Orestea a Siracusa diventa di un’attualità evidente.
Nel 1991, poco tempo prima di venire assassinato, Libero Grassi scriveva: “La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la 'protezione' ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo è stato legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. […] Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. […] Ora più che mai le associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo fronte vanno messe al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per spersonalizzare al massimo la vicenda” (dalla lettera di Libero Grassi pubblicata dal "Corriere della Sera" il 30 agosto 1991). Sedici anni dopo, nel 2007, nasce "Libero Futuro", la prima associazione antiracket fatta di imprenditori e commercianti palermitani.
Un lungo cammino, dunque: e perché questo cammino porti davvero a un cambiamento reale che trovi respiro nei fatti e non nelle parole soltanto, è necessario l’impegno di tutti, dei cittadini, delle istituzioni.
Anche il teatro – ne sono convinta – può fare molto, può svolgere un ruolo serio e determinante. Dice Ariane Mnouchkine: “Il peso politico di uno spettacolo non fa alzare la gente dalla sala per andare a fare la rivoluzione il giorno successivo. A mio avviso, ci saranno – può essere – tre o quattro persone che, alla fine dello spettacolo, saranno un po’ meno barbare nella loro esistenza. S’interrogheranno su qualche problema, saranno più compassionevoli o più attenti o più fraterni verso il genere umano. Il teatro ha dunque un ruolo pedagogico civilizzatore, ma tutti sanno che la civilizzazione non si costruisce da un giorno all’altro” (da un’intervista ad Ariane Mnouchkine, 1998).
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