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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 6 dicembre 2020

Adriano Sofri e Pier Paolo Pasolini. L'italia che aveva smesso di amare

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




L'Italia che aveva smesso di amare
ADRIANO SOFRI

C'era stata, fino agli anni '60, un'Italia ufficiale bigotta, ottusa e ancora intimamente fascista della quale Pasolini era stato lo scandalo: "Un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni". Poi venne l'Italia del potere consumista ed edonista, "il più violento e totalitario che ci sia mai stato", della cui sventura Pasolini si fece il profeta ascoltato, pieno di rimpianto per l'Italia perduta. Primo paradosso, ma solo apparente. Perché il dopoguerra preservava, secondo Pasolini, l'antica dissociazione fra l'avvicendarsi di regimi e governi, e la forma immutata della vita del popolo. "Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata". S'incaricarono i suoi assassini - uno o tanti che fossero - di dar ragione al rimpianto. Pasolini aveva allora 53 anni: dieci di meno dei miei che oggi ne scrivo, e mi fa impressione, perché dei miei rapporti con lui decisero sempre i suoi vent'anni in più. Il '68 fu una data epocale per Pasolini. Se ne sentì spiazzato e cacciato, e cercò ogni via per rimontare: la provocazione di Valle Giulia e l'accredito a una rinata gioventù. Riprese presto la sua personale extraterritorialità politica e civile, in nome di una irriducibile diversità. Non l'omosessualità, che poteva già allora accordarsi con un conformismo, ma la sua vita. "Io, come il dottor Hyde, ho un'altra vita". Gli ultimi anni scandiscono una rivendicazione sempre più aperta e orgogliosa: lui guarda in faccia il mondo, lui vive quello di cui altri si limitano a parlare. Sentite come lo dice all'indomani dello strazio del Circeo - e alla vigilia del proprio. "La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all'offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - mi insegna che non c'è più alcuna differenza vera verso il reale e nel conseguente comportamento tra borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate".


Contro gli altri, "che non vivono queste cose", Pasolini getta sul terreno, coi pensieri, il proprio corpo - ed è infine il suo corpo martoriato che resta sul terreno. è la prima essenziale qualità del Pasolini ultimo, in cui poesie, testi letterari, film, cedono senz'altro al pronto intervento giornalistico, fino alla tribuna del Corriere; e tutti, poesie e saggi e film e articoli di giornale, cedono alla sua presenza fisica, esposta nella scena pubblica diurna, a testimoniare, ma ancora col filtro di una discrezione residua, della lezione delle sue notti di gatto randagio. "Perché lo vivo. Nel mio corpo. E non gioco su due tavoli (quello della vita e quello della sociologia)...". A leggere i più famosi scritti corsari, sembra che un oltranzismo di sincerità ed esibizione di sé abbia cancellato ogni remora di pudore o convenienza. Ma poi si legge il brogliaccio di Petrolio e si misura, con una stupefazione turbata, quanto fosse ancora distante il Pasolini notturno da quello dei giorni e dei giornali. Perché ciascuno di noi, più o meno, vive le sue cose, e perfino gli intellettuali più avari di sé: ma non così a corpo morto, e non queste cose. è la conoscenza che Pasolini premette alla coscienza, e lo separa dai repertori di tanta anche buona sociologia. Basta confrontare la sua attenzione alle facce e alle cerniere dei calzoni e al linguaggio dei capelli con l'odierno specialismo del look. "Guardate le facce dei giovani teppisti arrestati a Milano: vedrete dai loro tratti somatici che sono privi di pietà" (1975). L'esperto in facce di allora sarebbe oggi, di fronte a lifting e tatuaggi e rinascimenti di capelli e viagra ed etologia umana, come un vecchio mezzadro di fronte a un meteorologo del weekend.


La metamorfosi dei tempi evoca un'altra qualità essenziale: una sensibilità rabdomante per l'influenza fatale delle date. Più facilmente negli interventi giornalistici, e ancora di più nell'ambizioso progetto di Petrolio, Pasolini è un annalista. Le fisionomie delle persone, e le loro anime, e i viali di città e le campagne e i loro odori, durano e cambiano secondo un calendario lento e d'improvviso brusco, fino a segnare un passaggio di civiltà nel giro di una stagione, di una mattina. La pagina più famosa è anche la più esemplare - l'Articolo delle lucciole. Ci sono le lucciole, poi la rarefazione, e poi d'un tratto non ci sono più, e chi deve governare la terra non se ne è nemmeno accorto. Le date, dunque. A Isfahan, nel 1972, si vedono "i ragazzi che si vedevano in Italia una diecina di anni fa". "Fino a pochi anni fa... gli analfabeti erano però in possesso del mistero della realtà". "Si può parlare per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Solo fino a dieci anni fa bastava uno sguardo...". "In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968". "In pochi mesi, i potenti democristiani sono diventati delle maschere funebri". O, in Petrolio: "Ma in quel maggio del 1960 il Neo-capitalismo era ancora una novità troppo nuova...". In questi due connotati, il vivere queste cose, e un legame spasmodico e autistico con il tempo, sta l'enormità mai cicatrizzata della morte di Pasolini. Perché in nessuno vita e linguaggio erano stati così trasfusi, opera e corpo, il corpo vestito di abiti "forse un po' troppo giovanili", "un po' troppo vistosi", e il corpo straziato che le televisioni di questi giorni si sono compiaciute di mostrarci. E perché c'è un crescendo dello sbaraglio di Pasolini, dal 1972 a quel novembre 1975, che ne fa insopportabilmente un culmine fatale. Ho detto del divario fra gli scritti pubblici e quello destinato bensì alla pubblicazione, anzi con l'impegno di una summa definitiva, ma così parziale e informe, che è Petrolio (1972-75). In quella farragine il competente in facce e capelli degli scritti corsari diventa senz'altro l'esperto in grembi: in una devozione esclusiva al sesso, una sottomissione sacra al cazzo. ("La purezza della sua guancia giovanile... La perfezione del suo corpo era quella di chi possiede un gran cazzo". "Lo scopo altro non è che il piacere dei sensi, del corpo, anzi, per essere precisi e inequivocabili, del cazzo". O, nella più svelata delle immagini, l'apparizione dei giovani operai sui camion che cantano una canzone partigiana. "Era la fine di novembre del 1969. Tutti quei giovani parevano rinati in una nuova forma... Vestivano di poveri abiti da lavoro, ma di una foggia nuova; i calzoni erano più stretti del solito. Tutti avevano un fazzoletto rosso al collo... Una novità che gettava chi non era più un giovane uomo nel panico... / Un camion si ferma così vicino che il protagonista non può vedere le facce, ma solo una fila di gambe e grembi/. L'umido rendeva anche più grigi e poveri i panni che coprivano quelle gambe e quei sessi in fila: le sdruciture, le abbottonature dei calzoni allentate, oppure suggellate da povere cerniere, i punti della stoffa lisa, consunta o livida sui ginocchi o sui grembi, dove sporgeva il gonfiore del membro..."). L'anello di congiunzione fra i due generi, gli editoriali e il romanzo "di duemila pagine", sta nel paio di articoli in cui, "contro una lotta trionfalistica per la legalizzazione dell'aborto", Pasolini mise esplicitamente in causa "il coito" e la sua conformistica necessità.


Con un argomento d'occasione e dunque debole (di fronte alla tragedia demografica, è il rapporto eterosessuale a mettere in pericolo la specie, mentre quello omosessuale la assicura). Ma con un fondo meno esplicito e più radicale: il rifiuto di associare la sessualità con l'amore e la maternità, come qualcosa che ne riduca la potenza tirannica e autonoma. In questo Pasolini, così adolescentemente serio e permaloso, l'eros e la morte sono padroni gelosi ed esclusivi. Non sono affatto un ammiratore della caricatura cui oggi eros è avvilito, da gente che muore dal ridere. Ma mi turba la sensazione di un legame indicibile fra il Pasolini che spiegò il Circeo (gridando che i criminali non erano solo fascisti, e che lo erano allo stesso modo e con la stessa coscienza i proletari o i sottoproletari: "Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno che l'universo popolare romano è un universo odioso... non c'è più alcuna differenza vera verso il reale e nel conseguente comportamento tra borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate") e la ripetizione a trent'anni dell'assassinio di donne, corredato da memorie abiette, di uno di quei bravi. In Salò, o le 120 giornate di Sodoma, 1975, che fu proiettato postumo, si trattava di giovani sequestrati in una villa e torturati e degradati e costretti a una infame complicità. In un appunto di Petrolio c'è la schiavizzazione sessuale e sadica di una bambina, con una evocazione impietosa dei Demoni. è il legame, s'intende, che non unisce ma oppone il carnefice alla vittima. Non è vero però - qui Pasolini sbagliava gravemente - che "non c'è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima": ci sono vittime infinite che non riconoscono il loro carnefice e non gli concedono niente di sé. Pasolini gli fissava un appuntamento: ogni notte, ogni giorno. Per l'autore della sua opera incompiuta, "il preambolo di un testamento", aveva immaginato che fosse "morto ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l'anno scorso". Un piccolo errore di luogo, e di data.

fonte: Diario di Repubblica



Pier Paolo Pasolini, Eretico e Corsaro
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1 commento:

  1. Sofri non ha mai "sopportato" Pasolini per le sue critiche al sessantotto, per la sua purezza intellettuale Del resto per quelli che oggi sono diventati (tutti inseriti nel sistema, tranne rare eccezioni) aveva ben capito di che panni vestissero.

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