"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini:
Salò o le 120 giornate di Sodoma
Tre recensioni di:
ZERO COOL, Roberto Donati, MG l'inesperto cinematografico, (Central do Cinema)
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
1. Recensione di ZERO COOL
E' il film che rappresenta metaforicamente il potere nella società capitalistica. Salò spiega usando allegorie e metafore, il rapporto che ha il potere con le persone che gli sono sottoposte, un rapporto metaforicamente sadista, De Sade è solo un pretesto per esternare tutta la sofferenza di Pasolini per una società irrimediabilmente votata al consumismo piu sfrenato, anche i 3 gironi danteschi sono solo un pretesto, e lo si capisce bene dai nomi dei gironi, quello delle manie, della merda e del sangue, guardando il film sembra di vedere un tg dei nostri giorni, il teatrino del sesso e della morte, una democrazia che sotto la sua maschera nasconde il fascismo dell'era globale, un fascismo non più di stampo politico, dato che la politica è morta, ma di stampo economico, per dirla con Pasolini, nella società capitalistica globalizzata in cui viviamo tutto diventa mercificazione, anche il sesso e la morte, protagonisti numeri uno della televisione che ci rende tutti complici, vittime e carnefici compiaciuti.
Per Pasolini il sesso di questi anni è obbligatorio, brutto e indigeribile, per cui abbiamo il sesso inteso come merda e scatofagia, è la rappresentazione metaforica del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti, di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo, la riduzione del corpo a oggetto attraverso lo sfruttamento.
Il sesso estremo inteso come violenza, tortura e morte, il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana, il più ambiguo, per questo accetta allo scopo di trasgredirle le norme sociali, e infine il piu scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell'atto generativo, ne è la totale derisione. E il sadomasochismo e la sodomia illustrano bene il rapporto del dominante col suo sottomesso, proprio del sistema capitalistico, Pasolini odia i corpi e gli organi sessuali divenuti da gioia e libertà per gli umili in epoche reppressive ad atroce espressione di violenza in epoche permissive.
Nel girone della merda il significato [indicato soprattutto proprio da Pasolini, ndr] e questo: l'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi 'diverso'. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo, mitica e incisiva la metafora della merda servita su vassoi d'argento, tutto ciò che ci propinano non è altro che merda afrodisiaca, merda fatta uscire con un marchio prestigioso a caratteri d'oro. A distanza di 25 anni Pasolini come un veggente aveva capito lo sfacelo a cui stavamo andando incontro, ha pagato il suo sforzo con la vita.
Lo sconsiglio vivamente a coloro che non considerano il cinema come arte, e non potrebbero capire. Lo sconsiglio inoltre ai deboli di stomaco e lo reputo vietato ai minori di 18 anni a piena regola, in quanto si tratta di un film estremo, dai contenuti che superano l'oscenità seppur senza sfociare nel volgare.
Il sesso diventa un mezzo per attuare il potere, arma con cui controllare il popolo, e con cui annientarlo. Non più arma di seduzione o strumento sensuale con cui attrarre, ma solo una consueta forma di violenza; i corpi nudi diventano figure 'normali', oggetti, figure rosa ammassate sui pavimenti; seni, natiche e falli diventano incolori, perdono ogni significato simbolico, si trasformano in insignificanti dettagli privi di pudore abbandonando i loro contenuti erotici o sensuali.
La violenza è estrema, ma non è il fattore che forse colpisce di più, la violenza o il sesso in Salò non sono gli elementi più sconvolgenti, in quanto siamo abituati dai media a vederli all'ora di pranzo, ma colpiscono soprattutto le sequenze escrementizie: questo perché oggi siamo abituati al sesso e alla violenza da un sistema capitalistico", e dai mezzi di comunicazione. E in Salò questo concetto è enfatizzato per sottolineare la violenza che ci circonda, che diventa sempre più "normale". Oggi come allora. C'è chi vede nel suicidio della pianista la coscienza di Pasolini, sconcertata di fronte alla volgarità estrema del periodo, e dai sensi di colpa per il suo maggior delitto, cioé quello di essere omosessuale, mai perdonato dalla società di allora.
Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
2. Recensione di Roberto Donati
Nel 1944/45 quattro gerarchi fascisti imprigionano in una villa alcuni ragazzi e ragazze per soddisfare le loro perversioni psicopatologiche, eccitati dalle fantasie erotiche di tre narratrici. Rielaborando (insieme a Sergio Citti e Pupi Avati non accreditato) i fatti della Storia con i racconti del marchese De Sade e con una struttura a gironi come una sorta di Inferno dantesco, Pasolini non arretra di fronte a nulla e ci consegna una tremenda denuncia del potere e della dittatura come fonti di ogni iniquità e nefandezza dalla quale niente, nemmeno la Chiesa, si salva (uno dei torturatori è un monsignore).
L’uomo, sia vittima che carnefice, ridotto a bestia o peggio, senza possibilità di riscatto. Le scene di coprofagia sono tra le più sconvolgenti mai viste; e pensare che molte altre scene pensate non sono neanche state girate. L’unico episodio della “trilogia della morte” che Pasolini aveva ideato di realizzare, simmetricamente e specularmente alla precedente “trilogia della vita”, è, però, fin troppo estremo ed è sicuramente penalizzato da una visione non piacevole, se non proprio insostenibile – anche se questo era l’intento del sempre provocatorio autore.
Con un soave sottofondo musicale (musica sacra di Carl Orff) che aumenta l’angoscia e l’oppressione. Può piacere o disgustare, ma non può non far discutere e questo gli rende merito. Pasolini fu assassinato da uno dei suoi “ragazzi di vita” poco dopo la lavorazione del film e il produttore Grimaldi, all’uscita nelle sale, fu processato e assolto “per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico”. Aldo Valletti è doppiato per l’occasione dal regista Marco Bellocchio. In confronto, Full Metal Jacket è un film per bambini.
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Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
3. Recensione di MG, l'inesperto cinematografico
Il film mi pare essere una grande e terribile "allegoria", di che cosa però non so, forse della Morte? della Storia? della vita del regista? Sotto il profilo narrativo ho assistito a un fluire di idee, un succedersi di situazioni senza soluzione di continuità, e un ripetersi del male quasi "a oltranza".
Perché tutto questo insistere sulla merda? Merda nei discorsi, merda da mangiare, immersioni nella merda, merda nei vasi da notte, merda sui pavimenti, merda in bocca ...
Perché si vedono solo rapporti anali? Anali uomo-donna, anali uomo-uomo. Sembra che l'unico tipo di rapporto sessuale ammissibile nella "casa" fosse di quel genere. Perché allora il fascista sbeffeggerebbe le due lesbiche? Perché i fascisti ucciderebbero come cani il ragazzo bianco e la ragazza nera sorpresi ad avere un rapporto normale?
La storia di fondo con i 4 fascisti - se poi c'è veramente - mi sembra il mezzo per scatenare all'interno di questa casa "chiusa" le più nefaste energie. Sconvolgente, non ho di che dire, nei contenuti. Straordinario, sotto il profilo cinematografico, almeno sotto l'ottica dell'Inesperto. Ricercatissimo nei particolari (la sedia di Machintosh, gli affreschi murali [Leger?], i quadri alle pareti [il ciclista di Sironi], gli arredi, la disposizione degli attori sulla scena quasi essi stessi facessero parte del mobilio della casa, a volte composti a trittico pittorico, le ragazze nude sulla scala illuminata dall'alto, la sala con in fondo tre porte di cui solo quella centrale aperta su una scala, il ragazzo nudo addossato alla parete in posa manieristico-michelangiolesca, la scena dell'esplorazione dei culi rassomigliante a una performance di arte moderna, moderna accumulazione di corpi senz'anima e senza volto, e sono solo alcune delle cose che mi vengono in mente).
Quasi apocalittico quando le ragazze immerse nella merda (ispirata dalla pena riservata agli adulatori della II bolgia di Malebolge?) gridano una frase del tipo "Dio mio perché ci hai abbandonato?". Spaventoso il finale del film con le sevizie cui vengono sottoposti i ragazzi e le ragazze nel cortile del palazzo, mentre i fascisti a turno osservano la scena dalla finestra con un binocolo. Le scene sono viste da lontano attraverso lo strumento ottico, il campo visivo a volte è ristretto a quello del binocolo. Si alternano inquadrature da lontano e zoom su singoli martiri. Assistiamo alle sevizie ma non udiamo neppure un lamento, perché il regista ha voluto che la scena fosse totalmente muta, affinché noi vedessimo soltanto senza udire (forse perché la finestra è chiusa e i rumori non si possono sentire dall'interno della casa?). I corpi sono nudi come nelle rappresentazione dell'Inferno.
Corpi nudi, sevizie e torture non si vedevano anche nel tableau vivant del Giudizio Universale di Giotto nel "Decameron"? Sono quelli una loro anticipazione e questi uno sviluppo in azione di ciò che sembra assomigliare all'inferno sulla terra, o all'inferno dantesco? Perchè durante le sevizie che si sviluppano in cortile, il gerarca fascista di turno tocca gli organi sessuali del partigiano? Perché durante l'osservazione dalla finestra di questa specie di spettacolo infernale, in sottofondo risuonano le note di Carl Orff? E cosa centra Bach (mi pare) come accompagnamento ai morbosi e schifosi soliloqui della bionda megera di mezza età? Funzionano in questo film i giochi di rimando con precedenti film? Oltre alle torture del Giudizio Universale di Giotto, gli uomini e le donne legate mani e piedi a terra non richiamano quelli destinati a essere sbranati dai cani in "Porcile"? Il banchetto matrimoniale in cui uno dei fascisti sposa un ragazzotto e in cui viene servita la "prelibata delizia" (per usare un eufemismo) non è la caricatura cattiva e perversa del banchetto nuziale di "Mamma Roma", anche come impostazione scenografica e inquadratura?
Fermo qui la mia "immaginazione". E' difficile restare indifferenti di fronte a tanta nefasta genialità...
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Salò o le centoventigiornate di Sodoma (1975)
SCHEDA DEL FILM
Dal romanzo di De Sade Le centoventi giornate di Sodoma
Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini Collaborazione alla sceneggiatura Sergio Citti e Pupi Avati Fotografia Tonino Delli Colli; scenografia Dante Ferretti; costumi Danilo Donati; consulente musicale Ennio Morricone; montaggio Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi; musiche a cura di Pier Paolo Pasolini; aiuto alla regia Umberto Angelucci; assistente alla regia Fiorella Infascelli. Interpreti e personaggi Paolo Bonacelli (Il Duca Blangis); Uberto Paolo Quintavalle (il Presidente della Corte d'Appello); Giorgio Cataldi (il Vescovo, doppiato da Giorgio Caproni); Aldo Valletti (l Presidente Durcet, doppiato da Marco Bellocchio); Caterina Boratto (signora Castelli); Hélène Surgère (signora Vaccari, doppiata da Laura Betti); Elsa de' Giorgi (signora Maggi); Sonia Saviange (virtuosa dì pianoforte). E inoltre: Sergio Fascetti, Antonio Orlando, Claudio Cicchetti, Franco Merli, Bruno Musso, Umberto Chessari, Lamberto Book, Gaspare di Jenno, Giuliana Melis, Faridah Malik, Graziella Aniceto, Renata Moar, Dorit Henke, Antinisca Nemour, Benedetta Gaetani, Olga Andreis, Tatiana Mogilanskij, Susanna Radaelli, Giuliana Orlandi, Liana Acquaviva, Rinaldo Missaglia, Giuseppe Patruno, Guido Galletti, Efisio Erzi, Claudio Troccoli, Fabrizio Menichini, Maurizio Valaguzza, Ezio Manni, Anna Maria Dossena, Anna Recchimuzzi, Paola Pieracci, Carla Terlizzi, Ines Pellegrini. Produzione PEA (Roma) / Les Productions Artistes Associés (Parigi); produttore Alberto Grimaldi; pellicola Kodak Eastmancolor; formato 35 mm, colore; macchina da ripresa Arriflex; sviluppo e stampa Technicolor; sincronizzazione International Recording, Roma; missaggio Fausto Ancillai; distribuzione United Artists Europa. Riprese marzo-maggio 1975, teatri di posa Cinecittà, esterni Salò, Mantova, Gardelletta (Emilia), Bologna; durata 116 minuti. Prima proiezione I Festival di Parigi, 22 novembre 1975.
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Eretico e Corsaro
Ancora su Pasolini e Caravaggio.
Per Pasolini, essenziale e formativo essere stato allievo di Roberto Longhi febbraio 2012
Caravaggio, certamente, vuol dipingere la realtà, ma è molto probabile che - e gli ultimi studi l'hanno ampiamente dimostrato - tutto questo avesse in lui anche una finalità simbolica. Pensiamo alla luce che entra da una finestra ne La vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi; essa è una luce di salvazione, è una luce divina. E ' il raggio della salvezza che arriva sugli uomini per riscattarli dal loro essere uomini. Quindi, anche se noi siamo fatti di carne, non possiamo rinunciare alla speranza che qualcosa arrivi per salvarci e portarci al di là. La luce diviene protagonista con Caravaggio e da questo momento in poi si entra nell'attimo luminoso, in quell'istante di luce dovuto al cambiamento continuo delle condizioni atmosferiche, che sarà caratteristica della pittura impressionista. Si giunge all'idea dell'attimo luminoso, di un attimo quasi fotografico. Non per nulla l'impressionismo è quasi contemporaneo della fotografia. Da qui si entra proprio in quell'idea di attimo fuggente che viene catturato dall’opera pittorica, che sarà la chiave stessa di tutta la raffigurazione del Ventesimo Secolo e che fatalmente è ancora la chiave sia della pittura che del cinema dei nostri tempi.
Parlare di realismo e di tenebrismo non è più sufficiente per definire questo grande e geniale pittore. Infatti i brani di vita popolare e gli effetti dei suoi «notturni» sono caratteristici di tutta la pittura della fine del XVI secolo, e in particolare dell?Italia del Nord, nell'opera di artisti di primo piano quali Bassano e perfino Tintoretto. L'originalità di Caravaggio consiste nell'uso della luce per affermare la pienezza delle forme e dei volumi, ma anche per drammatizzare i personaggi più umili. Soprattutto questo aspetto eroico ha colpito l'attenzione degli storici dell'arte contemporanei: quest'arte plastica, espressiva, diretta, che esprime un sentimento semplice e profondo della vita umana, rispondente alle aspirazioni della Controriforma. Quello del realismo è, da sempre, uno dei grandi problemi della storia dell'arte. La radice del problema sta nella stessa ambiguità e polivalenza del termine, che ne ha permesso l'applicazione alle realtà più disparate. Nel Seicento in particolare, il termine è stato usato per indicare situazioni diversissime, compromettendone in questo modo la comprensione per secoli: realista Caravaggio, realista Vermeer, realisti i fiamminghi autori di nature morte, realisti i pittori di scene di genere.
La spada di Damocle dell'incomprensione ha pesato in maniera particolarmente preoccupante sul capo di Caravaggio e di tutti quegli artisti che hanno saputo coglierne e svilupparne le conquiste più alte: Velàzquez, Ribera, Zurbaràn, Rembrandt, La Tour (per citare solo i nomi più eclatanti). Quanto a Caravaggio il nostro secolo ha ampiamente sfatato il mito dell'artista maledetto, dedito a un realismo fine a se stesso e che si compiace degli aspetti più crudi, violenti e urtanti della realtà. Per restare su un piano divulgativo e accessibile, il Calvesi del primo, mitico Art Dossier, dedicato proprio al Merisi, ha ben evidenziato, forse addirittura cadendo nell'eccesso opposto, il coacervo di simboli e di significati di matrice essenzialmente Oratoriana e Gesuitica che la 'presa diretta' di Caravaggio dissimula e nello stesso tempo potenzia in massimo grado.
E tuttavia non è mai stato messo sufficientemente in rilievo un fatto fondamentale: ciò che, in Caravaggio, conferisce verità e concretezza alle cose, ciò che le rende quasi fastidiosamente vive agli occhi di chiunque si accosti alla sua opera, è la Luce: non una luce puramente fisica, ma La Luce, la luce vera, quella divina. Questo, e solo questo, rende il 'realismo' di Caravaggio così poco 'naturalistico': la Luce, che conferisce verità alle cose, è nello stesso tempo la Luce della Verità, "la luce vera che illumina ogni uomo", e che le tenebre non ricevettero (Vangelo secondo Giovanni). La luce ha sempre avuto un significato mistico-religioso: è una delle più alte manifestazioni del divino, e come tale ha tutti i carismi per essere vista ora come attributo di Dio, ora come mezzo con cui Dio si manifesta, ora come simbolo di Dio stesso. Senza avventurarmi in discorsi teologici di cui peraltro non sarei capace, potrei però ricordare la mistica delle vetrate gotiche, l'oro degli arredi sacri, il rifulgere dei mosaici medievali, i quadri di Van Eyck, il Paradiso di Dante, la Cattedra di San Pietro…(e chi più ne ha più ne metta). Ormai lontane memorie liceali mi ricordano inoltre che il latino Iuppiter, il greco Zeus e quindi il nostro Dio traggono la loro origine da una medesima radice indoeuropea che sta ad indicare il luminoso.
Il Seicento, in modo particolare, è un secolo di estasi e visioni mistiche (S. Teresa d'Avila, S Giovanni della Croce, …); è il secolo in cui si tenta di rendere visibile e spettacolare il Divino: nascono così le creazioni Berniniane, le visioni celesti sui soffitti sfondati, le mistiche geometrie del Guarini; e nasce il realismo: un realismo mai fine a se stesso, un realismo in cui la luce conferisce realtà e fisicità alle cose proprio in quanto non è essa stessa puramente fisica, ma tramite fisico di una realtà meta-fisica. Nel XVII secolo si contrappongono, in pittura, la luce mistica e astratta di Zurbaràn, quella immobile e contemplativa di La Tour, quella fisica e materiale di Rembrandt e, infine, quella calda e sferzante del Caravaggio, che raggiunge il suo apice espressivo ne la vaticana Deposizione di Cristo.
Vediamo di chiarire meglio questo concetto e questo confronto. Zurbaràn è un pittore discontinuo, che ad esiti altissimi accosta risultati men che mediocri: indubbio capolavoro è l'Estasi di S.Francesco, con il santo emaciato e perso in una visione di cui noi possiamo cogliere soltanto la luce che, cadendo dall'alto, inonda la sua figura e riverbera nei suoi occhi lucidi. Georges de La Tour, invece, crea molti capolavori: dalla Natività di Rennes al Giobbe e la moglie, dal Pentimento di San Pietro al Sogno di San Giuseppe al delicatissimo Battista, in cui la luce calda delle candele perde ogni fisicità per diventare 'luce intellettual, piena d'amore' (Dante, Paradiso, canto XXX, v 40), luce mistica e astratta (tanto più astratta quanto più si sofferma su particolari concreti, come la carne macilenta di Giobbe, le rughe di Giuseppe, le lacrime che cadono dagli occhi cisposi di un San Pietro pateticamente ridicolo nel suo pianto da vecchio e nella sua assimilazione al gallo del tradimento). Per Rembrandt, la luce è fisica, che non modella le cose, ma ne costituisce la materia, non le illumina, ma le forma, non viene dall'esterno, ma dall'interno di esse. Una luce alchemica che opera materiche trasformazioni.
In Caravaggio la luce è insieme protagonista fisica e metafisica, portatrice della parola divina e non del reale, cornice mistica in cui compiere la trasmutazione dell’umano che anela al divino. Anzi, il discorso è ancora più complesso per il nostro. La luce ha in Caravaggio una funzione costruttiva e una funzione simbolica, metafora della grazia redentrice, irradiata spesso in modo tangenziale, con un'azione costruttiva sui corpi che spesso emergono da fondi indefiniti.
E questo modo di vedere la luce reale e non naturale, metafisica ed insieme materia, richiama alla mente la maniera "pittorica" di Pier Paolo Pasolini. Non ha caso, Cesare Garboli, l'ultimo dei grandi critici letterari italiani, nel numero di aprile-giugno 1970 della rivista "Nuovi Argomenti", scrive: "Si direbbe che il Pasolini lavorasse, allora, non allo specchio del Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio "romano". Quello, per intenderci, che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita, gli sciolti capelli che si asciugano al sole nella stanzetta smobiliata, o quello dei bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d'osteria, o quello, infine, della Vergine morta e gonfia a gambe scoperte, come una popolana del rione, a dirla gentilmente, o una mignotta agli ultimi rantoli nella stanzaccia spartita dal tendoni".
Ma c'è una cosa ancora, su tutte, che unisce i due, attraverso la luce e l’apparente, complessa, descrizione del reale. La compassione per gli ultimi, per i brutti, gli sporchi ed i cattivi (titolo di un film di Scola, che proprio Pasolini avrebbe dovuto girare). "Qui degli umili sento compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via», scrive Umberto Saba in Città Vecchia. Ma il poeta triestino è solo di passaggio. Nutre la propria coscienza con la visione di quelle vite disperate e gettate via nelle ombre delle strade, ma non si ferma assieme alla "prostituta, al marinaio, al vecchio che bestemmia alla femmina che bega". C'è pietas, ma non compartecipazione.
Pasolini e Caravaggio invece no, loro passano e si fermano. Vivono fino in fondo il mondo che rappresentano. Il pittore perso nel sottobosco delle osterie del Seicento e lo scrittore perso nella Roma delle borgate. Li spinge qualcosa, una necessità, che arriva direttamente dall'anima e dal ventre. L'amore febbrile per la vita. La "strana gioia di vivere" (così ha scritto Sandro Penna) che li pervade.
In entrambi i due grandi autori la vera protagonista a è la luce, atta a farci percepire l’essenza della vita come spirituale, come lascito della parola divina. Essa irradia dalle loro opere e vuole sempre accentuare il significato della fede: la chiamata di Dio è sempre rivolta a tutti gli uomini, ma ciascuno è libero, secondo la propria coscienza, di aderirvi o di respingerla. E, in entrambi, via via che procede la maturazione creativa, la luce si fa ampia ed ingombrante, quasi unica protagonista della tela o delle inquadrature.
L’esempio è, per Caravaggio, La resurrezione di Labaro, che richiama e la Vocazione di San Matteo dipinta qualche anno prima per la chiesa di S. Luigi dei Francesi, ma con una luce più soffusa e guizzante, che crea un effetto di maggiore drammaticità, tendente quasi a "cancellare" i personaggi, come accade a Pasolini da Il fiore delle Mille e una notte in poi.
Non a caso, nel mai realizzato e conclusivo film Porno-Teo-Kolossal (che, secondo quanto da lui stesso dichiarato, avrebbe concluso la sua carriera cinematografica), la luce si sarebbe fatta sempre più viva e avrebbe scolorito gli stessi personaggi, durante il racconto morale e metafisico di un re mago, che insieme al suo servitorello (suo angelo custode travestito) parte per seguire la Stella Cometa, ma giunge in ritardo davanti alla grotta, che ormai è vuota, morendo di dispiacere e di stanchezza.
Qui di seguito, ecco un ampio stralcio di ciò che scrisse Roberto Longhi nel suo "Da Cimabue a Morandi", uscito da Mondadori nel 1973. Un libro che certamente Pasolini, che aveva una vera e propria venerazione per Longhi, conosceva benissimo.
Una lettura di alcuni dei più importanti dipinti del Caravaggio (1571-1610) attraverso le pagine di Roberto Longhi (1890-1970), maestro indiscusso degli studi artistici del nostro paese e figura eminente della cultura europea del Novecento.
Massimo critico d’arte, Longhi fu anche grande scrittore. "Piazza de’ lumi entro il gran fiotto d’ombre": l’invenzione di un verso endecasillabo compendia il metodo compositivo del Caravaggio.
La sua prosa inimitabile riesce a tradurre il fatto figurativo e a renderlo leggibile anche senza l’ausilio del corredo illustrativo. Basandosi proprio su questo assunto, Gianfranco Contini raccolse i principali saggi longhiani sulla pittura italiana e li pubblicò, nel 1973, in un famoso Meridiano Mondadori, Da Cimabue a Morandi, senza note né apparati figurativi, per far conoscere il livello espressivo dello scrittore e diffondere la sua prosa fuori dai canali strettamente specialistici.
La monografia sul Caravaggio (prima edizione, 1952; seconda edizione, Editori Riuniti, 1968) è l’ultimo scritto di ampio respiro licenziato da Longhi prima della morte e il principale fra i tardi lavori longhiani. In quest’opera, l’autore torna, per l’ultima volta, su un argomento appassionatamente indagato in numerosi interventi precedenti, a cominciare dalla tesi di laurea (1911), che già avevano trovato un momento di felice sintesi in una famosa mostra del 1951 a Milano, che stabilì la completa rivalutazione del naturalismo caravaggesco.
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da Roberto Longhi, "Caravaggio", da "Da Cimabue a Morandi", Mondadori 1973. pp. 801-875
[Primi quadri «da lui nello specchio ritratti», p. 810]
Educato in quella cerchia di provincia lombarda di cui si è dato qui un breve abbozzo e giunto a Roma, giova crederlo, già con quel suo chiodo fisso di una pittura fedele alla realtà, era prevedibile che, nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V, egli dovesse sembrare un irregolare, se non proprio un eretico. A Roma non si chiedeva verità alla pittura, ma «devozione» o «nobiltà»; nobiltà di soggetti e di azioni, a qualunque mitologia appartenessero, e secondo un’inventiva che poteva oscillare dalla tetraggine della stretta Controriforma alla volante ma vacua fantasia degli ultimi manieristi: dal Pulzone e dal Muziano, insomma, al Barocci e al D’Arpino.(…)
E, infatti, valga il vero: già il primo biografo competente, perché pittore anche lui, ci asserisce che i primi quadri del Caravaggio furono «da lui nello specchio ritratti». Che mai significa? Si è giunti a proporre che, forse per risparmiare la spesa del modello, egli non attendesse che a dei successivi, continui autoritratti; proposizione assurda, oltre che smentita da tutti gli esemplari restanti, salvo quello del Bacchino malato. Ma allora, perchè ritrarre quei tanti modelli diversi «nello specchio»? (…)
Ogni nuova personale verità nell’arte è una nuova scoperta che gli idoli artistici precedenti miravano a precludere. Che cosa aveva impedito sino a lui di rendere fedelmente ciò che egli chiamò per primo un «pezzo» di realtà, se non l’antica fabula de lineis et coloribus che egli avvertiva ormai come mitologia da lasciare finalmente cadere? Guardava intorno a sé e la realtà gli appariva in «pezzi» bloccati di universo dove non era luogo né a contorni, né a rilievi, né a colori come formule astrattive. E perché la rètina, da sé sola, ha un campo visivo sempre sfocante, svagante, non era meglio stagliarlo come ci appare nel quadro veridico dello specchio che ci dà sempre l’«unità del frammento» immerso nella sua luce: una specie di «realtà-acquario»?
E’ possibile insomma che, naturalizzando l’antica metafora che la pittura deve essere il rispecchiamento della realtà, il Caravaggio, da schietto San Tommaso, provasse di attenersi al sodo dello specchio vero che gli dava finalmente il vano della visione ottica già colmo di verità e privo di vagheggiamenti stilizzanti. Così egli venne a scoprire - e fu quasi una scoperta scientifica, fu in ogni caso un’esperienza – la sua personale, empirica «camera ottica»; ciò che meno sorprende ai tempi del Porta e, ormai, di Galileo. D’accordo che, da grande spirito qual era, egli non poteva che scoprire il senso poetico, la portata sentimentale di una realtà allora tutta sconosciuta, anche non avendone piena coscienza. La sua ostinata deferenza al vero poté anzi dapprima confermarlo nella ingenua credenza che fosse «l’occhio della camera» a guardare per lui e a suggerirgli tutto. Molte volte egli dovette incantarsi di fronte a quella «magia naturale»; e ciò che più lo sorprese fu di accorgersi che allo specchio non è punto indispensabile la figura umana; se, uscita questa dal campo, esso seguita a rispecchiare il pavimento inclinato, l’ombra sul muro, il nastro lasciato a terra. Che cosa potesse conseguire a questa risoluzione di procedere per specchiatura diretta della realtà, non è difficile intendere. Ne conseguiva la tabula rasa del costume pittorico del tempo che, preparandosi gli argomenti in carta e matita per via di erudizione storico-mitologica e di astrazione stilizzante, aveva elaborato una partizione in classi del rappresentabile, che, trasposta socialmente, non poteva idoleggiarne che i gradini più alti. Ma il Caravaggio si rivolgeva alla vita intera e senza classi, ai sentimenti semplici e persino all’aspetto feriale degli oggetti, delle cose che valgono, nello specchio, al pari degli uomini, delle «figure». (…)
Cominciò del resto con dipinti che non erano neppure in grado di intitolarsi. E’ già molto che i biografi scrivano per esteso: «un putto morso da un racano che tiene in mano», un «fanciullo che monda una pera con il cortello» (…). E quando si avvertì ch’essi celavano anche un nuovo contenuto, si cercò di correre ai ripari infliggendo loro una condanna morale. Essa verrà codificata circa mezzo secolo dopo, quando si concluderà che il Caravaggio non aveva dipinto che i «simili»; un gradino appena più in su del Bamboccio che addirittura «dipinse i peggiori»; e cioè, diciam pure, la povera gente che fa soggetto di strada, ma non di «historia».
E perché questo del soggetto feriale fu il pensiero fisso del Caravaggio fin dai primissimi giorni, si può star sicuri che, su quella via, egli non sarebbe mai riuscito a farsi largo, ma soltanto a mettersi in cattiva luce come pittore di novità sospette perchè senza «decoro». Che, avvertendone tuttavia l’innegabile talento pittorico, gli si chiedesse presto ben altro, e ch’egli non potesse rifiutarvisi se voleva crescere e primeggiare come uomo dell’arte, è cosa altrettanto certa, naturale, umana. Guai a dimenticare che a quei giorni quasi non si dipingeva che per soggetti imposti, su commissione, e che questa era appannaggio esclusivo o di ordinatori ecclesiastici o di nobili collezionisti discretamente colti anche in favole antiche. (…)
[Bacco, Galleria degli Uffizi, Firenze, pp. 814-815]
Dopo i primi dipinti di vena lombarda, come il Ragazzo del fruttaiolo e l’autoritratto vagamente arieggiante un Bacchino convalescente, ma che s’incorona per ischerzo non avendo in suo dominio che un rametto d’edera, due pesche duracine e due grappolini d’uva da tavola, il più dichiarato Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse s’ingolfa subito in una polemica palese per chi rievochi nel corso del secolo i Bacchi di Michelangelo o del Sansovino, o persino quelli del Bellini e di Tiziano.
Recuperi, codesti, di un’antichità vista con occhi diversi, se nel primo caso gravano di più sull’apologia del corpo umano e nell’altro sull’accordo corale tra uomo e natura egualmente magnificati, in ciò almeno convengono, nel non aver nulla da spartire con questo torpido e assonnato garzone d’osteria romanesca, incoronato a caso da pampini d’ogni colore, con un calice di lusso (l’unico rimasto nell’osteria?) tenuto leziosamente con la sinistra (da un mancino dunque, ma perchè ritratto dallo specchio!), in contrasto col vassoio di terraglia rustica e con la caraffa comune; a non parlar di quello stramazzo ad uso di triclinio plebeo.
In tanto palese impaccio, l’aspetto del quadro sembra, col consenso ironico del pittore, già pronto a sopportare qualunque pesante motteggio popolare trasteverino («me sembri tal e quale un Bacco in India», o qualcosa di simile); ma, nei punti di sutura più sottile tra tema e visione, il pensiero, per quei tempi, è più moderno che non sia stata, tanto più vicina a noi, la Barista di Manet al banco di zinco delle «Folies Bergère».
[Il suonatore di liuto, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo, p. 818]
Il Caravaggio non mancò di insistere nell’ambito di quel realismo feriale che ebbe un seguito lunghissimo nei seguaci d’ogni nazione e risorgerà, come soggetto pretestuale, nelle tranches de vie della pittura moderna (…). In quest’àmbito rientra anche il ritratto così semplice, ma intimamente episodico, della Sposa romana perdutosi a Berlino nel 1945; e così pure quello che, a detta del Caravaggio stesso, fu «il più bel pezzo, che facesse mai»: il Suonatore di liuto passato dal cardinale Del Monte al Giustiniani ed oggi a Leningrado.
La bilancia di luce, ombra e penombra che avvolge nella stanza il giovane incantato e lambisce il tavolo visto in tralice «nello specchio», rende la perfetta equivalenza mentale tra la figura e la mirabile natura morta di fiori e frutta a sinistra, e il famoso riflesso della camera entro la caraffa (e non già, per malposta e bigotta sottigliezza manieristica, nella pupilla).
Così, meno sorprende che il Caravaggio possa instaurare, negli stessi giorni, la rubrica, per Roma affatto nuova, della «natura morta» per sé sola. Uscito che sia il Bacco dal vano colmo dello specchio, vi restano ancora il vassoio di frutta, il nastro dimenticato; receduto il suonatore o il commensale dal tavolo, vi rimangonon ancora lo strumento di bellezza indecifrata o «Il Postpasto» non consumato: la caraffa smezzata, l’anguria e il melone affettati, la pera intatta e la mela mezza, le mosche che saltellano sulla propria ombra. Seguita così la realtà nella vita di queste cose silenti e ferme sotto il crescere o il diminuire della luce e dell’ombra; una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose lasciate a se stesse, ma che pure riflettono lo sguardo inclinato dell’uomo e, in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto. Un’altra eretica innovazione, insomma, alla quale il pittore teneva moltissimo come dimostrano le sue stesse parole riferite dal più intelligente fra i suoi amici: «e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure». Sorprende che l’amico trascrivesse un motto così fondamentale nel contesto di una lettera critica dove, classificando la pittura in dodici gradi, dal basso all’alto, non poneva la specialità di «fiori e frutta» che al quinto posto.
Non intendendo cioè ,(…), che con quel motto il Caravaggio aveva annullata la distinzione tra una natura superiore glorificata nell’uomo e una «inferior natura», come il Rinascimento aveva chiamato queste cose (…) che si andavano dipingendo per bizzarria o svago decorativo; o magari per acrostico figurale come nel passabilmente stupido Arcimboldi a Milano; ma sempre senza presa diretta di verità; e che, del resto, si relegavano in cucina o nelle stanze della servitù. Ai giorni stessi del Caravaggio poi, che pure aperse la nuova strada ma fu inteso da pochi (che oggi stanno lentamente recuperandosi e che vanno da Tommaso Salini al nipote di lui Mario dei Fiori), la natura morta tentò di rimontare di classe almeno con la scelta scrupolosa degli oggetti di pregio: bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi sceltissimi; bocconi, come si diceva, da cardinali.
[La canestra di frutta (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), p. 819]
Il Caravaggio aveva invece dipinto la cestina comune dell’affittacamere colma di frutta a buon mercato; dove, perciò, accanto alla mela sana, non mancava mai quella bacata; così come nei pampini del Bacco, accanto alle foglie virenti, ci sono anche quelle vizze e scolorite, come Dio manda. Proprio quella cestina, finita a Milano nel museo di Federico Borromeo, veniva a trovarsi accanto alle lussuose specialità sul tipo di Flegel o di Jan Brueghel. Il contrasto non poteva essere più schietto. Se però il cardinal Federico lo avvertisse davvero, questa è un’altra faccenda (…)
[La nuova via, p. 829]
Già qualche antico biografo non mancava di avvertire che, in codeste opere, [Giuditta, Santa Caterina], in confronto a quelle trasparenti dell’adolescenza, il Caravaggio cominciava a «ringagliardire gli scuri». La cosa, lì per lì, sorprende anche noi che, versati nei fatti della pittura naturalistica posteriore, quasi ci saremmo attesi che il Caravaggio puntasse subito sulla pittura limpida e obbiettiva degli spagnoli o dei nordici, Velázquez, Hals o Vermeer. La verità è che ogni pittore non dà alla fine che ciò che il mondo gli chiede.(...) La chiesta era allora del quadro di evento sacro e patetico: questo è a spingere il Caravaggio sulla nuova via. Gli scuri che si ringagliardiscono sono dunque pur essi, preventivamente, affare di contenuto: che, fortunatamente, nell’occhio di un grande pittore, porterà con sé anche una forma atta ad incidere rapidamente sul contenuto stesso. Questo è il costante circolo di scambio fra arte e mondo sociale.
Ben vero che l’antico biografo, formalizzante come ogni strenuo idealista, dice che egli escogitò gli scuri gagliardi per «dar rilievo alli corpi»: E che altro poteva dire chi, a spiegare una così ostica rivoluzione, ardua persino per chi la fece, non aveva a disposizione altra grammatica da quella cinquecentesca?
Anche il Caravaggio avvertiva il pericolo di ricadere nell’apologetica del corpo umano, sublimata da Raffaello e da Michelangelo, e persino nel chiaroscuro melodrammatico del Tintoretto. Ma ciò che gli andava balenando era ormai non tanto il «rilievo dei corpi» quanto la forma delle tenebre che li interrompono. Lì era il grumo drammatico della realtà più complessa ch’egli ora intravedeva dopo le calme specchiature dell’adolescenza. E la storia dei fatti sacri, di cui ora si impadroniva, gli appariva come un seguito di drammi brevi e risolutivi la cui punta non può indugiarsi sulla durata sentimentale della trasparenza, anzi inevitabilmente s’investe del lampo abrupto della luce rivelante fra gli strappi inconoscibili dell’ombra. Uomini e santi, torturatori e martiri si sarebbero ora impigliati in quel tragico scherzo. Per restare fedele alla natura fisica del mondo, occorreva far sì che il calcolo dell’ombra apparisse come casuale, e non già causato dai corpi; esimendosi così dal riattribuire all’uomo l’antica funzione umanistica dirimente di eterno protagonista e signore del creato. Perciò il Caravaggio seguita, e fu fatica di anni, a scrutare l’aspetto della luce e dell’ombra incidentali.
Inutile, a questo punto, chiedersi se vi siano stati stimoli particolari al mutamento. Quanto più alti i frangenti, sempre ve ne furono. Dalla vita stessa? Meglio non indagare in quel mare di miseria che gli cresceva attorno, anche doppiato il capo della povertà materiale. Dall’arte? Nel bene e nel male, tanto poteva servirgli riguardare, obtorto collo, un brano di Michelangelo o di Raffaello o qualche modello antico (e concludere che tutto questo era già stato fatto e perciò perento), quanto sbirciare il D’Arpino o i suoi accoliti sui palchi di San Giovanni in Laterano (al solo fine di rinfocolarsi nell’indignazione che è pur un pungolo a fare tutt’altro). O mormorare accanto al Giustiniani sull’arrivo dei primi quadri bolognesi a Roma e poi di Annibale in persona; smozzicando che proprio il meglio di quei dipinti s’era già visto altrove più schietto e che questa verità dimidiata tornava a «macinar colori» e non «carne» com’egli faceva (e come si dice che Annibale stesso gli abbia riconosciuto). Quanto ai quadri veneti, ne conobbe i migliori quando giunsero da Ferrara, nel 1599, forse scortati dal suo rivale D’Arpino; ma a quella data egli aveva già dipinto a San Luigi le tavole a più riprese cancellate, variate e corrette, della sua nuova realtà. Nulla di meglio, perciò, che guardar subito ad esse.
[Dipinti per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, Roma, pp.831-839]
Le vicende dei due famosi dipinti, una volta accertato ch’essi cadono nel cuore dell’ultimo decennio del secolo e, specificando, dopo la fase speculare di adolescenza e prima della «grande maniera personale» che si apre col secondo San Matteo, potrebbe anche omettersi nei particolari così poco decifrabili sulle carte….
Ben presto sentiamo aprirsi la vicenda dei due grandi «pensieri» per San Luigi: la Vocazione e il Martirio di San Matteo.
E per prendersi dalla Vocazione. Che il primo e palese spunto mentale dell’artista sia stato di raffigurarla come una scena di «giocatori d’azzardo» (…) è indice di quasi immediato attacco con le precedenti opere di soggetto feriale, coi Bari soprattutto; mentre è del pari segno di giovanile e spregiudicata esperienza (o inesperienza) che il Caravaggio ardisca cimentarvisi proprio in un’opera di gran mole e di pubblica destinazione chiesastica. E’ stata anche rievocata, e opportunamente, la preziosa indicazione di un biografo germanico (il Sandrart), che il Caravaggio, per il suo dipinto, avesse tratto qualcosa dall’incisione dello Holbein con i Giocatori e la Morte; indicazione assai più portante che non fosse stata sul finire del Cinquecento quella di Federico Zuccari quando tacciava il Caravaggio di plagio da un’improbabile opera di Giorgione: calunnia presto rinforzata, in quella stessa cerchia ostile, con il disegno «alla giorgionesca» (oggi agli Uffizi) insidiosamente atteggiato a guisa di modello per il dipinto di San Luigi, dal quale invece desume; e con tali refusi da svelare subito l’inganno. Giovi insistere che la incisione holbeiniana è ben altrimenti significativa, proprio per la concezione poetica di un tema di vita dissoluta che si cangia ad un tratto per forza di un destino che sopravviene: la Morte nello Holbein, il Cristo salvatore nel Caravaggio; due simboli di eternità nel senso di quei tempi e per due diverse nazioni. Restò fermo anche per il Caravaggio (da quella stampa) che il più dello svolgimento del tema era nella tavolata dei giocatori; e così ne provenne al Cristo un che di citazione iconografica suppletiva; e non pienamente risolta finché egli non intese quanto più risolutivo, anche come struttura di luce e di ombra, fosse l’appello creato dalla folata di luce radente che penetra, nello stanzone, col Cristo, e con la velocità del suo raggio lo precede. Ed è in questa parte, infatti, che l’esame radiografico ha rivelato le corretture più forti.
Su questo punto, insomma, il Caravaggio dovette meditare in un secondo tempo, quando cioè, su quell’iniziale impianto di scena mondana che anche la scelta dei colori vividi mostra legato allo spirito dei primi anni (il giovinetto piumato visto di fronte è probabilmente lo stesso modello della Buona Ventura), procedette a rinforzare via via ombre e luci fino a un colmo drammatico che richiama l’immagine poetica dello Eliot … (rispondenza significativa, anche se casuale, tra un pittore della fine del Cinquecento e un poeta neoelisabettiano…) (…).
Ma che il pittore, rinforzando con gli strati successivi della esecuzione il quadrante della partitura tra la luce e l’ombra, venisse sempre più a gravare sulla fatale rilevanza dell’evento, questo è il segno di una nuova capitale esperienza che succede a quella dello «specchio» degli anni adolescenti; ed è l’esperienza ad uso pittorico (leggi poetico) della «camera oscura».
Questa nuova esperienza del Caravaggio non disdice al costante avvicendarsi delle idee artistiche; anzi, come già la prospettiva ai tempi del Brunelleschi, essa costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Non maraviglierebbe che il Caravaggio dichiarasse d’intendere ormai con le sue ricerche a una specie di «magia naturale» che era, fin dal 1558, il titolo di un libro famosissimo di Giambattista Porta. E quando, sul 1620, leggiamo in un biografo questa descrizione dello studio, dell’atelier del Caravaggio: «Un lume unito che venga dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza con le pareti colorite di nero che così avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto oscure, vengano a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto né pensato da altro secolo o pittori più antichi», non sorprende che la definizione sia molto simile a quella della «camera oscura», che negli anni quasi del Caravaggio il Porta ci descriveva come sua propria invenzione. (…)
[p.837] Nel Caravaggio, invece, è la realtà stessa a venir sopraggiunta dal lume (o dall’ombra) per «incidenza»; il caso, l’incidente di lume ed ombra diventano causa efficiente della nuova pittura (o poesia). Non v’è vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo.
In effetto, l’artista stagliò questa sua descrizione di luce, questo poetico «fotogramma», quando l’attimo di cronaca gli parve emergere, non dico con un rilievo, ma con uno spicco, con un’evidenza così memorabile, invariabile, monumentale, come, dopo Masaccio, non s’era più visto. La luce che rade sotto il finestrone, spartita dall’ombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nell’aria greve la mano del Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: «Vuol me?» (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità.
Concepita dunque, di seguito alle cose più giovanili, come evento di costume moderno (…), la scena non poteva non intoppare nell’ostacolo del Cristo e dell’apostolo che pur bisognavano di figurarvi ma che, in quel costume, non si ritrovavano; e il Caravaggio si ridusse, su quel punto, a concedere alquanto a una storica drappeggiatura, non senza soffrire di un contrasto che, soltanto nel corso del lavoro, la sopraggiunta unità drammatica di luce-ombra riuscirà, otticamente, a velare; ma che non è ancora il modo in cui il pittore saprà risolvere il problema più tardi, dopo ben altre meditazioni di «contenuto».
Di fronte alla Vocazione, il Martirio del Santo. (…) Così com’è, inutilmente sorretta nei primi piani dai nudoni retorici dei manigoldi scamiciati, l’opera non va immune da alcuni odiosi ricordi manieristici che non mancano di riconfermare precocità e relativa immaturità d’invenzione, respingendo ancora di alquanto l’abbrivio del dipinto.
E non che occorra trascurare, neppure in questo caso, la controparte più geniale del giovine rivoluzionario. Sebbene si trattasse di una leggenda situata in Etiopia (…), ..il Caravaggio (…) ha l’ardire di trasformarlo in un fattaccio di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni. Violata la santità del luogo, vi è entrata da più parti la squadraccia dei bravi e il santo, già trafitto, è ora rovesciato sotto i gradini dell’altare dal manigoldo che sta per finirlo. Degli astanti, venuti per la messa, oltre il signorotto insolente che con un gesto fatuo sull’elsa ribatte nel fodero la lama ormai inutile, taluni sembrano assistere attoniti; altri più timorosi (e fra questi, strano a dirsi, il Caravaggio stesso che s’è fatto ora crescere baffi e moschetta come uno studente spavaldo) tirano a scampare come da una comune rissa di strada; altri ancora, nella luce di spiraglio (forse dalla porta laterale lasciata aperta dall’irruzione), levano le mani in gesti di stupore o di orrore. Nell’aria bruna che ancora grava sul centro della scena quasi galleggia il nudo fortemente inciso d’ombre del carnefice (memore sempre di quello del Moretto nel San Pietro Martire di Bergamo): fiorisce come un petalo grasso la cotta del chierichetto che, fuggendo sulla destra, ancora ripete la reazione fisica, momentanea del Giovinetto morso dal ramarro, della Maddalena, dell’Isacco «che grida»; poi, nella «ingegnosa descrizione dell’oscurità» che invade l’abside, il Caravaggio trova ancora modo d’indugiarsi sull’angelotto nudo, mentre si flette, dalla nube densa, a sporgere la palma del martirio; di osservare come si torca per la ventata dell’ala la fiamma della candelina; di perlustrare sulla destra, in penombra, la preziosa «natura morta» delle ampolline da messa nel bacile di peltro; un altro smorzato ricordo della fase «speculare» di adolescenza.(…)
[Secondo San Matteo e l’angelo, p. 854]
Siamo al punto in cui il Caravaggio, quasi affatto risolta la lunga crisi, può sorridere dell’ingenuo San Matteo «che prima aveva fatto per l’altare di San Luigi» e chiede egli stesso, c’è da credere, di poterlo sostituire con una seconda invenzione che meglio accompagni, anche di proporzione, le due storie finalmente collocate sulle pareti della cappella Contarelli.
Che il formato della tela dovesse, così, crescere assai più d’altezza che di larghezza, non fu l’ultima ragione che suggerì al Caravaggio di concedere, e per la prima volta, che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare. E sia pure che la sua solita dialettica lo stimolasse a immaginarne uno sorretto in aria dallo schiocco dell’enorme accappatoio, quasi a guisa di paracadute. Ma in tal forma, almeno secondo il «decoro» dell’epoca, l’angelo poteva dar le sue spiegazioni ab alto e il santo, non più duro di cervice come nella prima versione, semmai d’orecchio, doveva, per sentir meglio quel che trascrivere nel registro aperto sul tavolo d’architetto, rizzarsi dallo sgabello; poggiandovi un ginocchio però e, ad ogni attacco di frase, prillandolo verso di noi fino a farlo sbandare nel vuoto, oltre il dipinto stesso.
Questo forte effetto illusionistico, rinforzato dal punto di vista dal basso, trovò poi un magico accordo sia con l’adozione di un costume aulico, ma immanente, e cioè che indossa bene ogni tempo e quasi non si può datare, sia con l’invenzione di un colore inedito, quasi fluorescente sull’oscurità, e che accozza i due toni, affini e pur distinti, di giallo e arancione che si scorzano dall’alto nella tunica e nel mantello del santo; per questa parte, una rivelazione già rembrandtiana. Nell’insieme, tuttavia, non è da negare che il quadro fa più che una concessione al «decoro» richiesto dai tempi e dal luogo. Il manto ricade in basso con una falda lunga, lanceolata, elegante quasi come, più tardi, nel Mochi; e di nuovo sboccia con eleganza di sèpali attorno alle mani ch’eran già moderne; naturali, «senza disegno», tutte a incisi tonali, a tacche, a tasselli, a cordelle di vene, tra rughe e pelle. In questo innegabile contrasto v’è riflessi dell’ambiente pittorico a quei giorni? Non polemica, come per l’innanzi, ma discussione pacata con Annibale Carracci; nel «maneggio del colore», una comprensione maggiore dei classici veneziani appena giunti da Ferrara.
Del resto, un biografo ci avverte ch’egli «usò ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro»; e lo sforzo era palesemente anche di cultura. Non è indiscreto, insomma, ammettere che il Caravaggio voglia qui provarsi in una sua propria «maniera grande», quasi una «classicità» inclusiva al proprio «modo naturale». Ma ciò non era senza pericoli, ché la classicità aveva una storia e una autorità troppo lunghe e fondate.
[Dipinti per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, Roma, p. 856-859]
Come egli evitasse quei pericoli subito dopo, si rileva, tra il 1600 e il 1601, vedendolo all’opera nei due quadri commessigli da monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere papale, per le pareti laterali della sua cappella in Santa Maria del Popolo, con la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. E quando, dalla premessa del contratto, si colleghi l’elogio dello «egregius in urbe pictor» con il fatto che il quadro dell’altare era stato invece commesso ad Annibale Carracci, non è dubbio che la duplice scelta stia ad indicare i due più famosi pittori di Roma.
I due dipinti, che il committente voleva condotti su tavola di cipresso e anticipati da modelli, ebbero, com’è noto, una prima redazione, subito passata in altre mani e ciò non già perché non piacessero al committente, come pure si è voluto insinuare (ché anzi chi li vide li dichiara quasi identici agli odierni), ma perché, è da credere, fu il pittore stesso a volerli sostituire con altri nella sua tecnica preferita ad olio su tela.(...)
Il Caravaggio, dopo le esperienze nella «stanza con le parete tinte di nero», è ormai signore delle tenebre e le disserra quel tanto che occorre a non diminuire mentalmente il suo tragico, virile pessimismo. Anche per gli uomini, ora a grandezza naturale per maggior certezza del fatto, non v’è quasi altro al mondo che la sopportazione della fine o una incondita, quasi incidentale, rivelazione.
Sopita ogni polemica, il pittore sa che per una Crocefissione di San Pietro non è ora più bisogno di misurarsi con i giochi di forza massicci svolti circa sessant’anni prima dall’altro Michelangelo nella cappella Paolina e neppure di gravare sulla crudeltà degli aguzzini o, tanto meno, di aggiungerne di bercianti e scamiciati come a San Luigi. Le cose accadono con un’evidenza incolpevole dove ognuno attende all’opera sua. La desolazione insomma è nel fatto stesso su cui sta allo spettatore di giudicare. Sulle rocce brune che saranno (con quella luce negli occhi) l’ultimo ricordo del martire, presso la cava di pozzolana o la calcara di San Pietro in Montorio, il pittore, impassibile, «gira» la fatica dei serventi (il cui gesto, è doveroso riconoscerlo, è di operai che si affaticano e non di carnefici che incrudeliscano nella bisogna), tutti in giubboni e brache frusti, baveri sgualciti (e pur rifiorenti nel lume), piedi fangosi e con i pochi attrezzi: E riprende da vicino il santo, forse notissimo modello buono di via Margutta, che, già infitto alla croce, ci guarda calmo, cosciente come un moderno eroe laico; mentre il mantello bigioazzurro va scivolando in angolo sotto l’ombra del badile brunito, accanto al pietrone friabile e caldo come un pane ancora impolverato dalla cenere del forno.
Anche nella Conversione di San Paolo, fattasi inutile ogni disputa con Michelangelo (o magari con Taddeo Zuccari), il pittore si limita a sorridere di se stesso che tanti anni prima (otto o dieci, chi se ne ricorda più?) aveva pensato così confusamente sullo stesso argomento. Gli ritorna semmai il più antico, toccante ricordo del suo Moretto «a Sant Cels», così spinto, così ingenuo; ma pur caro ricordo per chi ora intenda che si può far di più e più semplicemente. Mettersi, cioè, come spettatore, dalla parte dello scavalcato che si ritrova a terra, e non sa come, tra i finimenti e le redini che spazzano al suolo; e si veda addosso la massa enorme del cavallone pezzato, la bava che cola dal morso e quell’intrigo indecifrabile, tra quadrupede e servente, di vene nodose e varicose; tutto stampatogli in mente d’un tratto da quel fascio di lume spiovente (ma non era forse la lanterna della scuderia?) che ora sigilla nelle sue palpebre richiuse l’aspetto delle pupille cieche nei busti romani.
Con questo sottinteso discreto che sta per sommessa ironia dell’erudizione corrente e che, eliminando fino all’osso la tradizione iconografica del tempo, non manca di fermare un punto nell’immenso percorso mentale del maestro, questi licenzia il dipinto forse più rivoluzionario in tutta la storia dell’arte «sacra».
Non fosse che qui si trattava di un dipinto «laterale», potrebbe anzi sorprendere che il Caravaggio riuscisse a «pubblicarlo» senza incorrere in un rifiuto o almeno in serie censure. E quasi si amerebbe sapere se, nel ceto dei dilettanti, mancò chi, usando il titolo nel senso cinetico, galileiano, chiamasse il quadro «la conversione di un cavallo»; resta però lo stupore del biografo più famoso nel rilevare che «la storia è affatto senza azione». Lo stupore verrà corretto più tardi dall’elogio per «il cavallo pomellato che è simile al vero» o, addirittura, «mirabile». Ma queste sono già frasi di amatori. Nella vicenda comune.
La contaminazione nel cinema di Pier Paolo Pasolini: la sequenza della rissa in "Accattone" di Alessandro Cadoni
"Il segno sotto cui lavoro è sempre la contaminazione. Infatti se voi leggete una pagina dei miei libri noterete che la contaminazione è il fatto stilistico dominante, perché io, che provengo da un mondo borghese e non soltanto borghese […], io lettore degli scrittori decadenti più raffinati […] sono arrivato a questo mondo. Conseguentemente il pastiche, per forza, doveva nascere. E infatti in una pagina dei miei romanzi sono almeno tre i piani in cui mi muovo: cioè il discorso diretto dei personaggi che parlano in dialetto, … nel gergo più volgare, più fisico direi; poi il discorso libero indiretto, cioè il monologo interiore dei miei personaggi e infine la parte narrativa o didascalica che è quella mia. Ora questi tre piani linguistici non possono vivere ognuno nella sua sfera senza incontrarsi […] e così avviene anche nei film […]. Ora, mentre nella pagina di un romanzo questa contaminazione estremamente complessa e raffinata può sfuggire, nel cinema, il cui linguaggio è più elementare, più rozzo di quello letterario […] viene fuori con maggior violenza. Così che mentre gli elementi dannunziani che possono essere in un romanzo spariscono - soltanto un diagnostico, un critico riesce a rintracciarli - gli elementi invece di sublime religiosità che io ho cercato di tradurre con la musica di Bach sono immediatamente avvertibili." (1) Nel corso di un incontro con gli studenti del C.S.C., (2) Pasolini interviene (come spesso gli accade di fare) sulla componente stilistica della sua poetica cinematografica, e parla dettagliatamente di quello che può a buona ragione essere considerato l'elemento base del suo linguaggio cinematografico, cioè la contaminazione, il pastiche.(3) Nel farlo egli ricorre a esempi tratti dal linguaggio letterario, che ritiene più articolato di quello cinematografico, definito "più elementare, più rozzo". Tuttavia mi pare opportuno considerare queste valutazioni con precauzione. Pasolini, infatti, appare qui (siamo nel 1964) ancora legato ai moduli del linguaggio letterario, rispetto al quale quello filmico viene relegato in secondo piano. Nello stesso momento, però, inizia ad avvertire le influenze provenienti dal mondo del cinema, (4) allora in pieno fermento, con il propagarsi di una nuova ondata autoriale e con la nascita di nuove discipline, come la semiologia del film. (5) Egli comincia così a elaborare le sue teorie linguistiche e semiologiche sul mezzo cinematografico, che costituiranno una parte fondamentale della sua produzione saggistica della maturità. (6) Il fattore che prontamente emerge, parlando di contaminazione nel cinema, è la verticalità immediata del meccanismo. Il cinema, con il suo "potere di unificare", (7) grazie alle sue potenzialità sinestetiche (la sintesi di linguaggi diversi) raggiunge istantaneamente un grado di verticalità, in cui è possibile unire elementi linguistici di stile opposto, ma anche appartenenti a sfere sensoriali e percettive differenti. Pasolini dunque ritiene grossolano il linguaggio filmico poiché forse troppo diretto; in esso la contaminazione non è raffinata, astratta più che reale, evocata come nella letteratura. Insomma, la sua inferiorità è dovuta all'immediatezza, al minore grado di "elitarietà". Eppure le potenzialità espressive del cinema sono molteplici, e lo stesso Pasolini non faticava a applicare, già nei suoi primi film, molti degli espedienti formali tratti dal suo stile letterario, per giungere a una formulazione del pastiche ancora più pregnante di quella sperimentata con carta e penna. I moduli nei quali egli riconosce i principi espressivi di questo stile misto sono assai prossimi a quelli che Erich Auerbach evidenzia in molti passi di Mimesis. (8) Il filologo tedesco traccia una linea diacronica attraverso tutte le letterature occidentali, antiche e moderne, individuando nella mescolanza degli stili un principio fondamentale della rappresentazione realistica e proponendo diversi esempi, affascinanti e convincenti.
L'analisi di Auerbach parte dalle origini della letteratura occidentale, con il raffronto fra un brano omerico e uno biblico, individuandone i tratti caratteristici e mettendone in risalto funzioni e finalità dello stile. (9) Egli subito nota come nei due racconti possano coesistere stile sublime, tragico e stile umile, quotidiano: "nel nostro episodio della cicatrice si vede come la pacifica scena familiare della lavatura dei piedi s'intrecci con il grande, importante e sublime fatto del ritorno" (lo stesso accade, con le dovute proporzioni, in Accattone, dove temi più o meno apertamente ispirati al tema della Passione si uniscono ai fatti della misera quotidianità dei protagonisti), mentre dall'altro lato osserva che "nei racconti del Vecchio Testamento il sublime, il tragico, il problematico prende forma nell'ambito familiare e quotidiano". (10) La mescolanza degli stili è un elemento costitutivo dei due testi, che sfuggono alle regole della retorica classica, dove vige invece una netta separazione. (11) Di ciò si trova testimonianza anche in Aristotele, che fa notare come lo stile del discorso debba essere conforme e proporzionato al soggetto trattato; (12) è una norma che però può essere restrittiva in un tentativo di rappresentazione realistica, poiché allontana dalla sintesi degli elementi eterogenei da cui è formata la realtà. (13) A questo proposito Auerbach nota, in diversi luoghi del suo saggio, come le norme della retorica classica rappresentino un ostacolo al realismo; a modelli di classicismo sublime, come, ad esempio, il teatro di Racine, ne contrappone altri in cui la contaminazione degli stili è uno dei tratti costituitivi, che permette di divenire oggetto di rappresentazione letteraria a "ogni e qualsiasi persona con tutta la sua complessa vita giornaliera". (14) Esiste poi un filone letterario i cui principî sono sempre stati alieni alle norme di separazione degli stili, ed è quello che - non a caso - interessa maggiormente la nostra analisi: si parla, naturalmente, delle Sacre Scritture e della letteratura cristiana, con i generi da esse derivati. Immediatamente, parlando dell'episodio biblico di Abramo, Auerbach evidenzia l'essenzialità dello stile, la semplicità della narrazione che procede, spesso in maniera ellittica, per sottrazione. Eppure l'effetto è quello di trovarsi di fronte a un'opera grandiosa e sublime, nella quale il vigore dello stile paratattico emerge come una componente indispensabile, tipica delle manifestazioni del Trascendente. (15) Egli scrive in un passo molto interessante:
Il vero fulcro della dottrina cristiana, l'Incarnazione e la Passione, fu […] del tutto inconciliabile col principio della separazione degli stili. Cristo era tutt'altro che un eroe o un re, era un uomo invece uscito dall'infimo gradino sociale, i suoi primi discepoli erano stati pescatori e artigiani, egli si muoveva entro la vita ordinaria del popolino palestinese, parlava con pubblicani e con prostitute, con poveri, con ammalati, con fanciulli, e tuttavia ogni suo atto e ogni sua parola erano di somma dignità e più importanti di qualsiasi altra cosa che mai accadesse; nello stile in cui tutto ciò veniva raccontato non entrava la più minima sapienza oratoria nel senso antico, esso era sermo piscatorius, e ciò nonostante oltremodo commovente e più efficace che la più sublime opera d'arte retorico tragica; e più di tutto commovente era in quei racconti la Passione. Il re dei re, beffeggiato, sputacchiato, flagellato e inchiodato sulla croce come un volgare delinquente - oh il racconto di queste cose, non appena penetra nel cuore degli uomini, annienta completamente l'estetica della separazione degli stili, produce un nuovo stile sublime, che non disdegna affatto il quotidiano e accoglie in sé […] la bruttezza, l'indecenza, la miseria fisica. (16)
È assai evidente il debito che Pasolini contrae nei confronti di questo passo, e dell'opera di Auerbach in generale; basti pensare, a proposito, ad alcune sue affermazioni:
Cristo è un sottoproletario, che va con i sottoproletari. Il rapporto storico fra Cristo e il proletariato esiste, egli non avrebbe fatto nulla se non fosse stato seguito dai proletari […]. E il proletario sarebbe rimasto immerso nelle tenebre della sordità, se non fosse intervenuta la predica rivoluzionaria di Cristo. (17)
E ancora la definizione di stile piscatorius, che Pasolini adotta per definire i modi in cui prende forma il pastiche nel Vangelo, è un altro tratto comune alle analisi stilistiche del filologo tedesco. (18) Altri spunti di riflessione nascono dai temi finora affrontati, e la vicinanza di Pasolini ad Auerbach si nota ulteriormente. In altri passi di Mimesis l'autore rileva come, nei testi cristiani e nei generi da essi derivati, un motivo ricorrente sia il fatto di elevare a protagonisti di vicende letterarie tragiche personaggi umili, che, secondo le norme poetiche tradizionali, mai avrebbero potuto essere oggetto di profonde osservazioni o protagonisti di intere vicende. È l'esempio di Pietro, "che era un pescatore della Galilea, d'umilissima origine e cultura", un personaggio che "da una vita qualunque […] viene chiamato a un compito enorme". (19) E ancora, Auerbach racconta come in una sacra rappresentazione, (20) nel XII secolo in Francia, il personaggio di Adamo fosse rappresentato da un popolano, che parlava con accenti e modi non certo aulici; questa contaminazione era necessaria per rendere fruibile al pubblico, che non possedeva altra cultura se non quella popolare, una materia sublime come quella biblica. Assai evidente, questo procedimento lo ritroviamo in Pasolini, che fa parlare molti dei personaggi del suo Vangelo con uno spiccato accento del sud, siano essi popolani, apostoli o alti sacerdoti. Ma, ancor più, è la scelta stessa degli attori ad assumere un significato particolare. Franco Citti, Ettore Garofolo, ragazzi di borgata presi dalla strada e catapultati di fronte a una macchina da presa, diventano i soggetti di inquadrature che spesso sono vere e proprie composizioni pittoriche di ispirazione sublime, con riferimenti (più o meno evidenti) a Giotto, Masaccio, Piero della Francesca o Pontormo; nello stesso modo si comportava Caravaggio, i cui Santi, soggetto di molte sue opere, erano in realtà, come brillantemente racconta Roberto Longhi, persone normali o di basso strato sociale, umili, analfabeti, persone del popolo. (21)
Contaminazione verticale: la sequenza della lotta in Accattone.
Risulta chiara, dunque, la profonde stima di Pasolini per Auerbach, che spesso cita nelle sue discussioni e nei suoi saggi su argomenti stilistici e teorici. (22) Osservando con attenzione alcuni passi dell'opera pasoliniana si ha spesso la sensazione di rinvenire la volontà da parte dell'autore di porre in pratica i refrain stilistici che Auerbach mette in luce. Nei romanzi romani, ad esempio, partendo dal principio primo, tutto aristotelico, di imitazione della realtà, l'autore interviene, a posteriori, con la propria cultura e la propria sensibilità; emerge così un'architettura che si articola su un doppio piano linguistico, dove il primo, umile, volgare, compie spesso incursioni nell'altro, raffinato, di derivazione "alta", "joissiana o proustiana". (23) È stato scritto a proposito che "lo stile di Ragazzi di vita e Una vita violenta nasce […] dalla nuova formula, o sintesi, tutta pasoliniana di mimesis + contaminatio (di lingua del parlante più nuova lingua del narratore, di mondo oggettivamente reale del parlante più mondo ricreato dal narratore)". (24) Una formula adatta più che mai al cinema, dove il "linguaggio scritto della realtà" si mescola con linguaggi altri, creando un impatto sinestetico istantaneo, sintesi estrema di lingua umile (popolare) e musica sublime, immagine (reale, mimetica) povera, ma allo stesso tempo tragica, di ispirazione anch'essa sublime. Vediamo ora, nel dettaglio, come questo tipo di contaminazione prenda forma nel linguaggio filmico pasoliniano, con riferimento alla celebre sequenza della lotta col cognato in Accattone. (25)
La sequenza è disposta su "una triplice dislocazione": (26) A) spiazzo delle bottiglie: Accattone aspetta la moglie che tira dritto senza degnarlo di uno sguardo; A) Accattone cammina dietro Ascensa, cercando di parlarle, nella speranza di essere aiutato. È un lungo piano sequenza costituito da una carrello frontale a precedere.
C) i due giungono nello spiazzo della casa di Ascensa, che chiama in aiuto al padre e al fratello. Nasce un violento litigio fra quest'ultimo e Accattone (la C è la sezione che prenderemo in considerazione).
La scena, a partire dal momento in cui Accattone e Ascensa sono in prossimità dello spiazzo, si compone di 34 inquadrature, e ha una durata di circa tre minuti e mezzo.
Inq. 1 - CV (colonna visiva). La MDP inquadra Accattone e Ascensa di spalle, ormai prossimi alla casa di lei. Lo spiazzo si riconosce dall'edificio più alto, un rudere che ha un aspetto vagamente medievale, una sorta di torrione romanico in rovina. - CS (colonna sonora). ASCENSA: sì, io te credo…è stato lo sbajo della vita mia crederte! ACCATTONE: che c'entra, un uomo può pure cambià…
Inq. 2 - CV. PP di Iaio, che si alza e corre verso i genitori, seguito dalla MDP che allarga l'inquadratura. - CS. ACCATTONE: allora, Asce'? Decìdete prima che arrivamo a casa tua… nun lo vojo vedè quell'ignorante de tu' padre e de tu' fratello…allora?
Inq. 3 - CV. PP di Ascensa, che si allontana, seguita da un breve movimento laterale della MDP.
Inq. 4 - CV. PA di Accattone (ha un'espressione preoccupata per le parole della moglie) che, chinatosi per prendere in braccio il figlio, continua a seguire Ascensa. Cammina parlando al figlio, fra le sue braccia. - CS. ASCENSA: (FC, urlando) Ah Giovanni, ah papà! ACCATTONE: 'A regazzì, (a Iaio) an vedi quant'è acida tu madre… manco un po' de coscienza cià… quella te vò proprio fà cresce senza padre.
Inq. 5 - CV. CM, davanti alla bicocca di Ascensa. Escono il padre e il fratello, Giovanni, inquadrati in FI, lateralmente. È da notare la composizione dell'inquadratura: le due figure stanno in piedi, sul primo livello. Dietro di loro, fa da sfondo la misera casa. La bassezza dell'edificio e la prospettiva falsata rendono i personaggi alti quasi quanto l'elemento architettonico che fa da sfondo. Il piano assume così un aspetto pittorico, vicino a composizioni del periodo gotico, ad esempio di Giotto. (27) - CS. ASCENSA: (FC, urlando) ah papà! GIOVANNI: che va cercando questo, che vole?
Inq. 6 - CV. Ascensa cammina verso il padre e il fratello, seguita dalla MDP. Si ferma accanto a loro. Giovanni prende atto della situazione e si avvicina minaccioso verso Accattone, con parole non certo amichevoli. - CS. ASCENSA: che vole, che vole! Vò fa er mantenuto! Mo' è rimasto senza più nessuno, e viè qua, hai capito, co' la speranza de magnà sulle spalle nostre! GIOVANNI: (avanzando verso Accattone) senti, a trucidone, bisogna che la pianti pe'sempre da venì qua, a disgraziato […] questo non è il Circolo San Pietro.
Inq. 7 - CV. Stacco della MDP su Ascensa e il padre, che guardano da dietro la scena. - CS. GIOVANNI: va' a lavorà se voi magnà!
Inq. 8
- CV. Accattone e Giovanni, uno di fronte all'altro, divisi da qualche metro di distanza. Accattone posa Iaio per terra. Anche questa inquadratura ha una composizione spiccatamente pittorica. L'incrocio di sguardi fra i due personaggi, che obliquamente taglia in due il piano, richiama indirettamente le linee direttrici create dagli sguardi che attraversano molti quadri di Giotto. Sullo sfondo dell'immagine si staglia un misero edificio, che tuttavia, come composizione architettonica, ricorda una chiesa romanica (per gli spioventi laterali, la grande porta centrale con arco a tutto sesto, l'edificio adiacente che ricorda un campanile). - CS. SUOCERO: (FC) mo'ce vuoi mette paura te?
Inq. 9 - CV. Movimento panoramico della macchina sull'ambiente. - CS. SUOCERO: (FC) chi se crede da esse [...]
Inq. 10 - CV. PP del padre di Ascensa. - CS. SUOCERO: farabutto, mascalzone, che aspetti, vattene via!
Inq. 11 - CV. PP frontale di Accattone, che alza la testa e si rivolge ai familiari della moglie (con tono forzatamente ironico, in realtà tragico). (28) - CS. ACCATTONE: come siete carucci, ahò! La riscossa dei burini!
Inq. 12 - CV. MPP di Giovanni, il busto è leggermente obliquo. È visto dunque dalla prospettiva di Accattone. La differenza nella posizione e nel punto di vista dell'inquadratura fra i due personaggi può essere un elemento interessante. Accattone, infatti, visto frontalmente, ha un contorno più labile, una presenza meno delineata, rispetto alla figura più plastica di Giovanni. (29) Può trattarsi di un richiamo indiretto alla frontalità tipica delle immagini sacre. - CS. GIOVANNI: ah, te la piji scherzando, eh? Avanzo de galera…giusto la faccia tua ce vuo' a presentatte qua! Vattene!
Inq. 13 - CV. La MDP stacca su tre persone che guardano in piedi la scena. - CS. GIOVANNI: (FC) e ricordate…
Inq. 14 - CV. La macchina stacca ancora, questa volta su tre ragazzini che si avvicinano, richiamati dalle urla. Dietro di loro dei ruderi "romanici". (30) - CS. …nun presentatte più da 'ste parti, nun vojo che la faccia tua…
Inq. 15 - CV. MPP di Giovanni (v. inq. 12). - CS. …la veda tu' fijo! Nun vojo che se vergogni d'avecce avuto un padre così!
Inq. 16 - CV. PA di Accattone, che chiude gli occhi, abbassandoli a terra. L'umiliazione per le parole rivoltegli contro è troppo amara da mandare giù. (L'inquadratura ha un angolo di 45 gradi. Lo sfondo è costituito dalle solite case, semplici, misere, dal tetto basso. Ormai l'impianto pittorico della sequenza si è pienamente delineato. Le fonti di ispirazione sono quelle che Pasolini non ha mai nascosto: Giotto, Masolino e soprattutto Masaccio. La frontalità in alcune inquadrature, il punto di vista laterale o obliquo in altre, e soprattutto, in una visone prospettica globale del quadro, la predominanza del punto di fuga decentrato, proprio della grande pittura italiana fino a buona parte del Quattrocento, sono gli stilemi adottati da Pasolini nel girare la scena). Infatti "perde di colpo la testa: ha inghiottito troppo.
Urlando e sbavando, come preso dalle convulsioni, si butta sul cognato, prima che questi se ne renda conto, prima che la gente se l'immagini". (31) I due si avvinghiano in quello che sarà un lungo, violento abbraccio. - CS. per quanto riguarda i dialoghi, d'ora in poi si parla poco. Predominano, come "quinta sonora", le voci, le urla di spavento della gente, assai numerosa, che assiste alla lite. Sul piano musicale invece, nel momento esatto in cui Accattone "abbraccia" il cognato, interviene il coro n. 68 Wir setzen uns mit Tränen nieder dalla Matthäus Passion di Johann Sebastian Bach. (32) Entra dalla battuta 13, dal primo intervento vocale del doppio coro. L'impatto emotivo è fortissimo, la presenza delle voci rende il tono della musica ancora più espressivo. Lo stile della musica è elevatissimo, sublime. Si tratta, a detta di molti, di una delle pagine più alte del repertorio bachiano, all'interno del quale la Matthäus Passion ricopre un ruolo di primo piano. Le parole del brano riportano alla fine della Passione bachiana, e descrivono il pianto ai piedi della croce, quando il destino di Cristo si è ormai compiuto, conformemente alle Scritture: è il momento in cui il dramma è ormai consumato, resta solo la tragedia.
Inq. 17 - CV. La MDP inquadra Accattone e Giovanni in figura intera, in piedi. "Il cognato, più forte, si divincola, ma non riesce a liberarsi dalla stretta disperata". (33) Alcuni ragazzi cercano, invano, di dividerli, ma i due cadono per terra e mantengono con forza la loro stretta disperata. - CS. Coro n. 68, batt. 13 (II tempo) - 15 (I tempo).
Inq. 18 - CV. Breve PA del suocero, "con gli occhi iniettati di sangue". (34) - CS. Coro n. 68, batt. 15 (II).
Inq. 19 - CV. Accattone e Giovanni si dimenano e si rotolano per terra, in mezzo alla polvere. Un giovane cerca di dividerli, ma demorde immediatamente, e si allontana, interdetto. Ora sono soli, la loro lotta continua. Si muovono meno, e a scatti regolari. Il loro è davvero un "violento abbraccio", un abbraccio nella miseria e nell'emarginazione. La MDP, in piano fisso, li segue in CM. L'obiettivo montato è probabilmente un 50. - CS. Continua il Coro 68 [batt. 15 (III) - 18 (I)]. L'effetto straniante, l'impatto ossimorico immagine-suono si fa sempre più evidente: la musica è altissima, tende al cielo. Il coro della Passione piange la morte di Cristo, ma nello stesso tempo attende con fede la resurrezione. Di contro le immagini, già misere, povere, essenziali, si fanno ancora più umili: la MDP si abbassa a terra, per seguire i due protagonisti che lottano in mezzo alla polvere. Si crea, dunque, una linea, ai cui vertici (alto-basso) stanno musica e immagine. Ma i vertici sono più vicini di quanto si possa credere, la linea diviene quasi un cerchio. Accattone e Giovanni non strisciano per terra come vermi (a tratti il loro movimento sembra quello), combattono come due eroi epici. (35)
Inq. 20 - CV. È il piano più lungo della sequenza. L'immagine è la stessa dell'inq. 19, ma la MDP stringe di più sull'intrico dei corpi. Si muovono a scatti, come in un'assurda danza, la morsa delle braccia è fortissima, si allacciano anche con le gambe. L'avvicinamento della macchina (che probabilmente monta ora un 75) dà una maggiore profondità e plasticità ai corpi. - CS. La musica scorre sino al termine dell'intervento corale, con un breve taglio [18 (II) - 20 (I) […] 22 (II) - 24].
Inq. 21 - CV. CM che riprende Ascensa con il figlio in braccio e il padre davanti alla casa. Quest'ultimo entra all'improvviso, e Ascensa, lasciato il figlio, lo segue. - CS. Lo stacco dell'inquadratura accompagna, con sincronizzazione quasi perfetta, l'inizio del II intervento degli strumenti solisti, modulato in tonalità di Mi b maggiore. [Batt. 25 - 26 (I)].
Inq. 22 - CV. Dettaglio eizensteiniano del coltello (brandito dal padre, entrato in casa a prenderlo, mentre Ascensa tenta di fermarlo). - CS. Frammento della batt. 26 (II) del coro. Grida di aiuto di Ascensa.
Inq. 23 - CV. CM. Ascensa si aggrappa disperatamente al padre, urlando aiuto, per tentare di farlo desistere dal suo feroce proposito. - CS. Frammento della batt. 26 (III).
Inq. 24 - CV. Breve stacco sui due "combattenti" (v, inq. 20). I corpi non si distinguono quasi più, stretti in una contorsione di dolore. Non si muovono quasi più, ormai stremati (in una sorta di contegno classico). Dietro si intravedono sei gambe, tre persone che assistono dall'alto. (36) - CS. Altro breve frammento musicale [III batt. 26 - 27 (I)]. Inq. 25 - CV. CM. Davanti alla casa intervengono alcuni giovani a fermare il suocero. - CS. Batt. 27 (II e III).
Inq. 26 - CV. La MDP, con un CL, mostra una visione d'insieme della scena. Al centro dell'inq. continua la lotta. Accattone, con un colpo di reni, riesce a ribaltare Giovanni. Come animati da un'improvvisa forza della disperazione, i due riprendono forza e si agitano furiosamente. Sullo sfondo si vede ancora un edificio diroccato, una sorta di torre romanica. Il punto di fuga del quadro è decentrato. - CS. Coro 68, dal mi b della batt. 27 al do della batt. 28 (I).
Inq. 27 - CV. La macchina si avvicina. Ora i due sono nuovamente abbracciati, fermi. Alcuni giovanotti riescono a dividerli, portando lontano Giovanni che si dimena furiosamente, urlando. Questi riesce a liberarsi e si getta nuovamente su Accattone che, rimasto in ginocchio, tentava di rialzarsi. - CS. Coro 68, dal do della batt. 28 a tutta la batt. 31.
Inq. 28 - CV. Breve inq. laterale in CM. Giovanni si getta su Accattone. - CS. batt. 32 (sol).
Inq. 29 - CV. La MDP stringe: Accattone si avvinghia di nuovo a Giovanni, "disperatamente come una sanguisuga. Restano di nuovo stretti, come prima". (37) Sono circondati dai giovanotti che tentano di dividerli una volta per tutte. - CS. La frase compresa fra il si della batt. 32 e il sol della 33. A metà dell'inq. il brano riprende da capo, nella tonalità di Do minore (batt. 1).
Inq. 30 - CV. MF di Ascensa col neonato in braccio. Sullo sfondo alcune donne e bambini osservano in disparte. È una Maestà povera, espressionista: Ascensa urla, contratta in una smorfia di dolore, il bambino piange disperato. Il punto di fuga è decentrato. - CS. Musica: frammento della batt. 2. Parole di ASCENSA: Corete! S'ammazzeno!
Inq. 31 - CV. Accattone e Giovanni vengono divisi definitivamente. Giovanni continua a urlare, imbestialito. - CS. Batt. 2-3. Urla di GIOVANNI: lassateme che l'ammazzo!
Inq. 32
- CV. Accattone si rialza e si allontana, seguito lateralmente (45 gradi) dalla MDP.
- CS. Frammento dalla batt. 3 al la della batt. 4. Continuano le urla minacciose di Giovanni.
Inq. 33
- CV. Giovanni si agita infuriato, e, trattenuto a stento dagli amici, continua a inveire contro Accattone.
- CS. Urla minacciose di Giovanni.
Inq. 34
- CV. Accattone si allontana, inquadrato prima in FI, poi in PA (si è avvicinato alla MDP). Guarda per terra, umiliato, sottomesso. Anche le parole della sceneggiatura difficilmente possono rendere l'idea del suo sguardo, la sua espressione. (38) Il punto di vista della MDP è leggermente decentrato, l'effetto chiaroscurale del quadro è accentuato più che mai: mentre Accattone si allontana, la sua maglietta e i suoi capelli neri (e - metaforicamente - la sua faccia, nera per l'umiliazione) si stagliano sullo sfondo sovraesposto, davanti al sole accecante che riverbera sulle povere case e sul miserabile spiazzo di polvere bianca. Questo elemento, a mio avviso, dà risalto ai contorni reali della sofferenza di Accattone, umiliato e sconfitto, sempre.
- CS. Scorrono le ultime note (dal Fa della batt. 5 al Fa della batt. 8) del brano, che accompagna dunque la sequenza dallo scoppio della lite fino alla fine. Parallelamente, a completare il quadro sonoro, le parole di GIOVANNI: scordatela mi' sorella! 'A pappone! Pappone! Papponeee! (quest'ultimo urlato con rabbia e disperazione).
Abbiamo compiuto quest'analisi dettagliata, piano per piano, per fornire un quadro sinottico degli eventi visivi e sonori della sequenza, cercando di renderne l'effetto finale, il modo in cui emerge in primo piano la contaminazione "verticale", sinottica appunto, degli elementi diversi, che può riassumersi, schematicamente, in questo modo:
L'essenzialità del linguaggio adottato; la ratio che regola il montaggio; il rigore simmetrico nei sintagmi adiacenti (l'uso del campo e controcampo fa pensare alla scomposizione in tanti quadri di un'opera pittorica); tutti questi elementi rendono lo stile di Pasolini marcatamente paratattico, assimilabile, letterariamente, allo stile delle Scritture, come si è accennato sopra. È, in sostanza, la "sacralità tecnica" di cui parla il regista nelle sue Confessioni tecniche: (39) uno stile "religioso", "tecnicamente sacro", appunto. (40) Uno stile composto dal parlato gergale e dialettale dei personaggi, dalle architetture romaniche e dall'ispirazione pittorica, da un tragico coro di miserabili borgatari, da una musica, sublime per eccellenza, quella di Bach.
Dall'analisi di questa sequenza emergono dunque, in maniera paradigmatica, i moduli della contaminazione, attraverso la quale Pasolini costruisce il proprio stile cinematografico, ricollegandosi a forme espressive della grande tradizione artistica occidentale, in attesa del processo che lo porterà, più avanti, alla scoperta degli universi espressivi extraeuropei, sempre e in ogni caso in un'ottica da pasticheur.
Note
(1) PPC 2: 2871-2873. (2) Il testo del dibattito (dal titolo Una visione del mondo epico-religiosa), tenutosi nel 1964, già ospitato tra le pagine della rivista Bianco & Nero, è leggibile ora anche in PPC 2: 2844-2879. (3) Questi i due termini che Pasolini adotta per definire la mescolanza degli stili, negli innumerevoli luoghi in cui si sofferma a parlarne. (4) Segue con attenzione, nel 1965, la I Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, per la quale tiene il discorso d'apertura sul tema "Critica e nuovo Cinema", presentando il saggio Il cinema di poesia (EE 1461-1488), v. SLA 2: 2962. (5) Come scrive in LE 2: 618, egli è in contatto diretto con Roland Barthes e Christian Metz, pionieri della disciplina. Con Metz ingaggia un'amichevole polemica sul concetto di cinema di poesia, criticato in parte dallo studioso francese, v. METZ 1966 e EE: 1549-1550. (6) I suoi saggi sul cinema sono in buona parte raccolti in EE. (7) Cfr. POIRIER 2001: 623-624. (8) AUERBACH 1956. (9) Si tratta del racconto della cicatrice di Ulisse (Od. XIX: 386-475) e della partenza di Abramo per il sacrificio di Isacco, AUERBACH 1956 I: 3-29. (10) AUERBACH 1956 I: 27. (11) A meno che non sia normalizzata in una licentia, v. LAUSBERG 1969: 79; 258-259. (12) Aristot. Ret. III, 7. (13) In questo modo anche episodi tratti dal Satyricon di Petronio dalla forte connotazione espressionistica giungono ai limiti - secondo lo stilcritico - di una rappresentazione davvero realistica, senza riuscire a entrarvi pienamente (o senza volerlo), per il loro "carattere puramente comico", AUERBACH 1956 I: 37. (14) È la tendenza che darà luogo all'affermazione del romanzo realista francese, AUERBACH 1956 II: 244. (15) Lo stile paratattico è anche uno dei tratti riscontrabili nel cinema di Pasolini, che lo applica, a momenti, in maniera quasi scritturale. (16) AUERBACH 1956 I: 81-82. (17) RI: 114. (18) Cfr., a tal proposito, RI: 106: "Come sempre si mescolano nelle mie opere - direbbe un critico stilistico - lo stile sublimis e lo stile piscatorius. Bach rappresenta lo stile sublimis e i canti di mendicanti negri, oppure i canti popolari russi e la messa cantata dei congolesi rappresentano lo stile piscatorius, lo stile umile". (19) AUERBACH 1956 I: 48-49. (20) Si tratta del Mystère d'Adam. (21) V. LONGHI 2001: 801-875. (22) Ad es. v. SDC: 108, SLA: 1079, 2020-2021 etc. (23) CPP: 36. (24) FERRI 1996: 140. (25) ACC: 51-56. (26) MICCICHÉ 1999: 64. (27) Uno dei pittori che Pasolini amava molto. (28) Cfr. ACC: 54: "(cantando, però molto forzatamente)". (29) Che peraltro, anche nella costituzione fisica, è più imponente, scultoreo, muscoloso come una statua classica, coperto solo da una minuta canottiera. (30) In queste due inquadrature, e in altre ancora, sullo sfondo, dietro i personaggi in PP, le persone si accompagnano in gruppi di tre. Tre, il numero della perfezione, della Trinità. È forse possibile che Pasolini abbia tenuto conto di un tale elemento, desunto ancora da fonti letterarie sublimi (ad esempio Dante). (31) ACC: 54. (32) È uno dei quattro brani del Kantor di Lipsia presenti nel film. Bach è il musicista "classico" più amato da Pasolini, che infatti adotta frequentemente per il commento sonoro di diverse sequenze dei suoi film. Per quanto riguarda la componente musicale di Accattone rimando a CALABRETTO 1999: 347-351; 371-376 e MAGALETTA 1997: 215-230. (33) ACC: 54. (34) ACC: 54. (35) Cfr. SDC: 108-109 e PSP: 54-55. (36) V. nota 30. (37) ACC: 55. (38) V. ACC: 56: "A quest'ultimo insulto, pur sotto il bianco della polvere e il rosso del sangue la faccia di Accattone è piena i vergogna, rabbia e dolore. Ma continua a camminare senza voltarsi indietro, trafitto alle spalle dagli sguardi della gente". (39) In PPC 2: 2768-2781. (40) V. PPC 2: 2768-2770.
OPERE DI P. P. PASOLINI CITATE PIER PAOLO PASOLINI, "Accattone", in Pier Paolo pasolini, "Per il cinema", a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, vol. 1, pp. 5-142 (I ediz. "Accattone", prefazione di C. Levi, Roma, FM, 1961). "Con Pier Paolo Pasolini", a cura di Enrico Magrelli, Roma, Bulzoni, 1977. PIER PAOLO PASOLINI, "Empirismo eretico", in PIER PAOLO PASOLINI, "Saggi sulla letteratura e sull'arte", a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1245-1642, vol. I (I ed. Milano, Garzanti, 1982). PIER PAOLO PASOLINI, "Lettere.1955-1975", a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988. PIER PAOLO PASOLINI, "Pier Paolo pasolini. Per il cinema", a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, 2 vol. "Pasolini su Pasolini. Conversazioni con John Halliday", Parma, Ugo Guanda, 1992 (tit. orig. "Pasolini on Pasolini", Oswald Stack, 1969). PIER PAOLO PASOLINI, "Le regole di un'illusione", a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, Roma, Associazione "Fondo Pier Paolo Pasolini", 1991. PIER PAOLO PASOLINI, "Il sogno del centauro", a cura di Jean Duflot, Roma, Editori Riuniti, 1993 (I ediz. 1983. Ediz. orig. "Les derniers paroles d'u impie", Pierre Belfond, 198). PIER PAOLO PASOLINI, "Saggi sulla letteratura e sull'arte", a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, 2 vol. BIBLIOGRAFIA GENERALE
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