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sabato 9 agosto 2025

Pier Paolo Pasolini, I campi del Friuli - Officina, numero 2, luglio 1955, da pag. 59 a pag. 66

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
I campi del Friuli

Officina
numero 2
luglio 1955
da pag. 59 a pag. 66

(nel volume "Le ceneri di Gramsci, con il titolo: Quadri friulani)





Senza cappotto, nell’aria di gelsomino
mi perdo nella passeggiata serale,
respirando – avido e prostrato, fino

a non esistere, a essere febbre nell’aria –
la pioggia che germoglia e il sereno
che incombe arido su asfalti, fanali,

cantieri, mandrie di grattacieli, piene
di sterri e di fabbriche, incrostati
di buio e di miseria...

Sordido fango indurito, pesto, e rasento
tuguri recenti e decrepiti, ai limiti
di calde aree erbose... Spesso l’esperienza

espande intorno più allegria, più vita,
che l’innocenza: ma questo muto vento
risale dalla regione aprica

dell’innocenza... L’odore precoce e stento
di primavera che spande, scioglie
ogni difesa nel cuore che ho redento

con la sola chiarezza: antiche voglie,
smanie, sperdute tenerezze, riconosco
in questo smosso mondo di foglie.
Le foglie dei sambuchi, che sulle rogge
sbucano dai caldi e tondi rami,
tra le reti sanguigne, tra le logge

giallognole e ranciate dei friulani
venchi, allineati in spoglie prospettive
contro gli spogli crinali montani,

o in dolci curve lungo le festive
chine delle prodaie... Le foglie
dei ragnati pioppi senza un brivido

ammassati in silenziose folle
in fondo ai deserti campi di medica;
le foglie degli umili alni, lungo le zolle

spente dove le ardenti pianticine lievita
il frumento con tremolii già lieti;
le foglie della dolcetta che copre tiepida
l’argine sugli arazzi d’oro dei vigneti.

Ti ricordi di quella sera a Ruda?
Quel nostro darsi, insieme, a un gioco
di pura passione, misura della nostra cruda

gioventù, del nostro cuore ancora poco
più che puerile? Era una lotta
bruciante di se stessa, ma il suo fuoco

si spandeva oltre noi; la notte,
ricordi?, ne era tutta piena nel fresco
vuoto, nelle strade percorse da frotte

di braccianti vestiti a festa,
di ragazzi venuti in bicicletta
dai borghi vicini: e la mesta,

quotidiana, cristiana, piazzetta
ne fiottava come in una sagra.
Noi, non popolani, nella stretta

del popolo contadino, della magra
folla paesana, amati quanto
ci ardeva l’amare, feriti dall’agra

notte ch’era loro, del loro stanco
ritorno dai campi nell’odore
di fuoco delle cene... uno a fianco

all’altro gridavamo le parole
che, quasi incomprese, erano promessa
sicura, espresso, rivelato amore.

E poi le canzoni, i poveri bicchieri
di vino sui tavoli dentro la buia
osteria, le chiare facce dei festeggeri

intorno a noi, i loro certi occhi sui
nostri incerti, le scorate armoniche
e la bella bandiera nell’angolo più
in luce dell’umido stanzone.

Ora, lontano, diverso, nel vento quasi
non terrestre che smuovendo l’aria
impura, trae vita da una stasi

mortale delle cose, rivedo i casali,
i campi, la piazzetta di Ruda;
su, le bianche alpi, e giù, lungo i canali,

tra campi di granoturco e vigne, l’umida
luce del mare. Ah, il filo misterioso
si dipana ancora: e in esso, nuda,

la realtà – l’irreale Qualcosa
che faceva eterna quella sera.
L’aria tumefatta e festosa

dei tuoi primi quadri, dov’era
il verde un verde quasi di bambino
e il giallo un’indurita cera

di molle Espressionista, e le chine
spigolatrici, spettri del caldo sesso
adolescente – brulicava al confine

di quel luogo segreto, dove oppresso
da un sole eternamente arancio,
dolcissimo è il meriggio estivo, e in esso

arde una crosta di profumi, un glauco
afrore d’erbe, di sterco, che il vento
rimescola...

Tu lo sai quel luogo, quel Friuli
che solo il vento tocca, ch’è un profumo!
Da esso scende sopra i tuoi oscuri

suonatori di flauto, il dolce grumo
dei neri e dei violetti, e si espande
da esso iridescente il bitume

sui tuoi Cristi inchiodati tra falde
di luce franata dai transetti d’Aquileia,
e reduci da esso, nelle calde

sere riverberanti della Bassa o nei
bianchi mattini gelati nei canali,
vanno i tuoi pescatori verdi di veglie,

a cui arrossa le rozze rughe il sale,
o giovanili nereggiano i braccianti
sulle scarpate del traghetto serale,

appoggiati ai manubri, stanchi,
bruciati, mentre la notte già s’annuncia
nel triste borgo con le luci e i canti.

E il vento, da Grado o da Trieste
o dai magredi sotto le Prealpi,
soffia e rapisce dalle meste

voci delle cene, qualche palpito
più puro, o nel brusio delle paludi
qualche più sgomento grido, o qualche

più oscuro senso di freschezza nell’umido
deserto degli arativi, dei canneti,
delle boschine intorno ai resultumi...

Sono sapori di quel mondo quieto
e sgomento, ingenuamente perso
in una sola estate, in un solo vecchio

inverno – che in questo mondo diverso
spande infido il vento. Ah quando
un tempo confuso si rifà terso

nella memoria, nel vero tempo che sbanda
per qualche istante, che sapore di morte...
Non ne stupisco, se a questi istanti

di disfatta e di veggenza, mi portano
anni consumati in una chiarezza
che non muta il mondo, ma lo ascolta
nella sua vita, con inattiva ebbrezza...

Felice te, a cui il vento primaverile
sa di vita; se hai scelto un’unica vita
e, insieme più adulto e giovanile

del tuo amico, sordo all’infinita
stagione di cui così imbevuto vivi,
sordo al Qualcosa che ti invita

a ritornare ai tristi, ai sorgivi
sogni dell’esistenza – alla coscienza
squisita che svela il mondo in brividi

non umani – credi nel mondo senza
altra misura che l’umana storia:
nei colori in cui fiammeggia la presenza

di un Friuli espresso in speranze e dolori
d’uomini interi, se pur fatti da orale
rozza esperienza uomini, se pur con cuori

duri come le mani, e spinti a non parlare
altra lingua che il troppo vivo dialetto,
persi in albe e vespri a lavorare

la loro vigna, il loro campetto,
quasi non fosse loro, a festeggiare
le lucenti domeniche col petto
pieno del buio delle vecchie campane.

E quale forza nel voler mutare
il mondo – questo mondo perduto
in malinconie, in allegrie pasquali,

giocondamente vivo anche se muto!
Quale forza nel vederne le sere
e i mattini, chiusi nel rustico

lume, quasi sere e mattini di ère
future, ardenti più di fede che d’affetto!
È floridezza e gioia, questo volere

violentemente essere espresso
che, in roventi vampe d’evidenza,
gonfia di spazio ogni umile oggetto.

Ne avvampano le incolori biciclette
di Cervignano, ammassate ai posteggi
delle sagre, lungo i poveri muretti

scottati dal sole, o ai tarlati ormeggi
dei traghetti sui turchini canali;
ne avvampano le camicie di tela, i greggi

calzoni degli allegri manovali
di Snia Viscosa, a file sugli asfalti
dello stradone...

E il polverone del sole e della pula
che ammassa e sfregola arancio e giallo
in un cantone perso nell’arsura

tra smunti salici, come in un ballo
domenicale, confinato sulle rive
del Tagliamento, o tra le arse valli

delle bonifiche, o sulle risorgive
lattee di magri fusti: dove assordante
la trebbia scuote col massiccio brivido

tettoie e stalle, in un ringhio osannante,
impastato di luce, di sudore umano,
del puzzo del vecchio e innocente branco

dei cavalli ammassati in un fulgore di rame...
L’amore di Ruda, gridato dal rosso
palco di povere casse, rimane

puro nella tua vita. E chi, scosso
dalla paura di non essere abbastanza puro,
aspira nel vento di primavera lo smosso

sapore della morte, invidia il tuo sicuro
espanderti nei solenni, festanti colori
dell’allegria presente, del sereno futuro.

Pier Paolo Pasolini




@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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