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lunedì 16 giugno 2025

Enzo Siciliano, Pasolini il 68 e Cari studenti... - Tratto da Enzo Siciliano, Vita di Pasolini - Giunti

 "Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Enzo Siciliano
Pasolini il 68 e Cari studenti...

Tratto da Enzo Siciliano, Vita di Pasolini

Giunti


Sessantotto


     Si trascinò per l’Europa un carrozzone che faceva scoppiare con le ruote i petardi che incontrava sul cammino: fumo di candelotti lacrimogeni, poliziotti in difesa dietro scudi di plastica. Vecchie barricate, fantascientifici costumi. L’antico vento della rivolta soffiò forte a Torino, a Roma, a Berlino, a Parigi, dove gli studenti gridarono «L’imagination au pouvoir».

   L’idea era che la rivolta dovesse essere anzitutto spettacolo di se stessa, azione che metteva il proprio manifestarsi fra virgolette. L’azione si scollava dall’agire e si citava.

   L’epidemia dei metalinguaggi era arrivata a tal punto, nei sacelli universitari, da occultare elementari esigenze politiche.

   A tutto ciò non mancava verità, non mancavano ragioni: vi fu una febbre di travestimenti, e la verità sparì sotto la nebbia dei lacrimogeni.

   La ventata di giovinezza che il Sessantotto fece respirare all’Europa parve una rigenerazione.

   La permissività fu la bandiera - non che il mondo non bisognasse di permissività. Ma bisognava di riappropriazioni. Il freudismo invitava l’individuo a riappropriarsi del proprio corpo - ma le individualità sociali avrebbero dovuto riappropriarsi della propria storia. Tale compito, e tale obbligo, in una società che rendeva latitante ogni tradizione bollandola in fascio come oscurantista, avrebbero dovuto esser valutati per quel che erano: passi necessari alla sopravvivenza antropologica.

   Ciascun Sessantotto, in Francia, in Germania, in Italia, ebbe la sua specifica soluzione.

   La società permissiva, denominatore comune della affluent society, volle negarsi a qualunque fondata critica storica di se stessa, e si risolse, nel tempo, regressivamente. Motivi politici, schematizzati su linee di vendicativo conservatorismo, seppero imporsi. La febbre nuova si mostrò per quel che era: giovanile malattia che porta rischi gravi con sé, se non ben curata.

   L’Italia rischiò, pertanto, gravemente.

   Ma il “caso italiano” - allora all’alba - era complesso. Le ragioni del suo movimento studentesco erano: reale partecipazione alla vita del paese da parte delle nuove generazioni; riduzione del potere discrezionale per tradizione connaturato ai ceti dirigenti. Significava questo, sul terreno propriamente politico, promozione di una efficace politica di riforme.

   Il boom economico, il miracolo degli anni Sessanta, aveva mostrato immediatamente il suo volto “povero”, impotente a mutare un paese squilibrato (il Nord e il Sud, vecchia cancerosa questione), e il cui squilibrio produceva effetti morali, sociali preoccupanti (emigrazione interna di proporzioni impensate, depauperamento del patrimonio agricolo).

   Le fondate ragioni del dissenso politico furono sconvolte, travisate da un mancato loro possesso culturale.

   La teatralizzazione della rivolta, l’iscrizione di essa all’interno di una figurazione pop - contano più i manifesti, la mitizzazione di un’immagine, che le idee - sventò, dissolse ogni ragionato progetto culturale. E di cultura diversa c’era una folle esigenza.

   Ma questa esigenza, come un’ondata che si fiacchi sulla sabbia, andò a spegnersi sulle labbra enigmatiche e ascettiche di Ho Chi Minh o, ancor di più, sul volto bello, bellissimo, del Che Guevara.

   Nasceva un nuovo romanticismo. Pareva che i borghesi italiani, piccoli borghesi per censo, a null’altro pensassero che a sofisticare la figura di un nuovo Santorre di Santarosa attraverso le foto di quel Cristo lievemente fiorito di pelo sulle gote.

   La foto correva per il mondo, e ognuno poté leggerla come poté: non contava saper qualcosa di quell’eroe; contava che egli fosse un martire, e che i martiri avessero quell’espressione sul volto, quella barba.

   Il Sessantotto italiano, nato nelle università - Torino, palazzo Fontana; Roma, facoltà di Architettura a Valle Giulia -, chiedeva alla cultura di farsi l’esame: ma, a quell’esame, impose la conclusione. Rinasceva il politicismo: l’attività culturale doveva «servire il popolo».

   Questa formula, inizialmente, non ebbe altro senso che estetico: un estetismo voltato al basso. Passò poco, e si rivelò una reviviscenza stalinista. Il piccolo borghese italiano mutava in repressione i propri freschi ideali di permissività.

   Apparve nelle case di alcuni intellettuali romani un gruppetto di ragazzi: si definivano “uccelli” - pigolavano, saccheggiavano i frigoriferi, evitavano metodicamente la parola, sporcavano pareti, se la prendevano con gatti e cani. Alla fine, la loro invasione, che pretendeva probabilmente di essere “festa”, situazionistica festa, disegnò il volto ottuso, inespressivo della violenza: li muoveva un istintivo, penoso squadrismo.

   Costoro non vivevano alcuna felicità: erano vissuti da una rabbia cui precludevano ogni sorte espressiva.

   Quale la radice di quella rabbia?

   Forse in una generalizzazione di bisogni e desideri, mutuati da proposizioni ideologiche invece che da necessità di vita. Quella rabbia, quella mutuazione erano confortate da un assetto sociale dove le richieste, qualsiasi fossero, slittavano sul piano inclinato del consumismo. Cosicché nessuna risposta poteva dirsi soddisfacente - perché immediatamente bruciata al suo profilarsi.

   La radice della rabbia era anche nella fisiologia della società. La crescita incontrollata degli agglomerati urbani, le università trasformate in contenitori di apprendisti intellettuali, promossero forme di massificazione dai connotati del tutto nuovi: una massificazione che alimentava crisi esistenziali e sociali. Che sbocco pratico si preparava, ad esempio, per i tanti apprendisti stipati nelle diverse facoltà universitarie?

   Il Sessantotto italiano, da questo punto di vista, non somigliava a nessun altro. Se in esso dominavano, come altrove, inclinazioni anti-istituzionali e di critica a ogni supposta forma di autoritarismo, la questione sociale sottintesa era specifica, e a essa fu posta scarsa attenzione anche da parte di chi avrebbe dovuto.

   I partiti politici, il governo per la sua responsabilità non solo amministrativa, si mostrarono non allertati alla cosa.

   Si parlò di una generica rivolta dei figli contro i padri - periodica manifestazione generazionale -, ma non si cercò di comprendere il senso pericoloso, socialmente pericoloso, che nella psicologia collettiva avrebbero potuto radicare i diffusi sentimenti di frustrazione.

   Rivolta, e non rivoluzione. Un tale distinguo ebbe qualche efficacia, ma dalla parte della rivolta si leggeva in positivo un’intrapresa “selvaggia” di cui, come un salasso, la civiltà occidentale, non solo l’Italia, aveva bisogno urgente.

   Nei partiti politici, anche in quelli marxisti che avrebbero dovuto più di altri esser sensibili culturalmente ai rischi impliciti nel concetto di ‘‘rivolta” (come opposto a “rivoluzione”), il libertarismo venne preso per buono, obliterando la considerazione che l’euforia anarchica, con gesti anche generosi, copre fantasmi regressivi.

   Alla lunga, quei fantasmi sono venuti in ribalta, e hanno lasciato luogo a interpretazioni del leninismo tutte azzerate al connotato della violenza e della sua programmatica sperimentazione.

   Il progetto - deliberato, oscuro: non facile decifrarlo, poiché la superficie ha tramiti insondabili col profondo - era quello, metodico nella piccola borghesia, di indebolire il peso politico del proletariato e dei suoi partiti, anche appropriandosi del loro linguaggio, sfruttando la loro ideologia.

   Fra i comunisti vi fu acquiescenza, o adesione, come altrove.

   Senza dubbio, nel ’68, durante quello che fu chiamato l’anno degli studenti, lo sbandamento finì per verificarsi un po’ dappertutto, e riconosco che nemmeno noi ne fummo pienamente immuni. In altri termini, la nostra colpa fu di dare nei confronti di quella irruzione giovanile un apprezzamento eccessivamente positivo, senza comprendere che la classe operaia era estranea a simili fenomeni, specie quando mettevano a capo a casi di degradazione, di intolleranza, di violenza vera e propria(1).

   Sono parole di Giorgio Amendola, pronunciate a dieci anni di distanza, e sottintendono con chiarezza il problema che il PCI, nel suo complesso, accantonò.

   La fallita “primavera di Praga” costituì un colpo alla coscienza comunista dell’Occidente pari, se non più grave, a quello infertole nel 1956, con l’autunno di Budapest. La ragion di stato sovietica stabiliva di liquidare ogni speranza per le cosiddette “vie nazionali al socialismo”.

   Nei partiti comunisti occidentali si reagì enfatizzando lo spirito libertario - ma un conto è praticare quello spirito a Praga, un conto verificarlo a Roma, o a Parigi. E, per quel che riguarda Roma, non bisognava dimenticare un carattere del piccolo borghese italiano: esso, coi suoi valori irrinunciabili, è «ubiquo», come ha scritto Paolo Sylos Labini.

   Negli strati più colti della piccola borghesia possono essere frequenti coloro che si sentono solidali con gli operai non tanto per ragioni economiche, quanto per ragioni ideali o di progresso civile; e si comprende allora perché vi sono persone che appoggiano anche provvedimenti dannosi per i propri interessi economici immediati. La scelta dei piccoli borghesi che si dedicano alla vita politica o sindacale può essere determinata da motivazioni ideali, ma può essere anche (e contemporaneamente) determinata dalla più o meno consapevole considerazione che andando dalla parte degli operai essi possono divenire leaders, mentre volgendosi verso la grande borghesia essi diverrebbero ufficiali subalterni (2).

   Sylos Labini pare descrivere quella generazione di figli di preti, di sottufficiali, di mercanti, di nobili decaduti, di contadini inurbati descritta da Trotzkij: gli studenti russi d’oltre un secolo fa che fra dense nebbie ideologiche partorirono il rivoluzionarismo nihilista con l’idea di impugnare le sorti del paese.

   Tale scontentezza sociale, le sue richieste di ricambi generazionali, avrebbe potuto essere riscattata solo con oculate scelte politiche: la classe dirigente del paese non mostrò lungimiranza.

   I partici, la DC, il PCI, i socialisti, si trovarono fessurati al proprio interno: rapiti dal desiderio di non mancare allo spirito di rinnovamento - il richiamo accelerante della gioventù - e, insieme, rapiti dalla necessità di non mutar niente. La fiammata della rivolta fu una lusinga per la sinistra: gran parte del ceto intellettuale si lasciò coinvolgere da quel fuoco.

Le università bruciavano i libri di testo: gli studenti indicevano “controcorsi” sulla guerra del Vietnam: sembrava percorrere le coscienze un’ansia di totalità non provata mai con simile ampiezza.

   Il turbamento era grande, ma esplodeva quella che Alberto Ronchey ha chiamato la «rivoluzione sperimentale»: questa rivoluzione «di tipo nuovo» si realizzò «secondo varianti non previste da Marx né da Gramsci o da chiunque». La sua caratteristica fu la parcellizzazione:

   Come nella produzione industriale, i vari atti sono parcellizzati. Come nella letteratura sperimentale, i tempi sono scomposti. Come nel cinema e nelle arti figurative, si vedono spezzoni d’immagini che vanno ricostruite. Come nella musica sperimentale, ogni gerarchizzazione sonora è abolita. Ma di fatto, dal ’68-’69 in poi è avvenuta la sistematica e graduale distruzione di tutti i poteri politici o economici, delle podestà di decisione e direzione sulle fabbriche e sui rapporti di produzione, sulle scuole, sugli apparati amministrativi, sui grandi servizi e sui mezzi di informazione o di acculturazione, mentre il legislativo legiferava in realtà senza oggetto certo e conoscibile (3).

   Questa «parcellizzazione» significava volatilizzare qualsiasi finalità conclusiva: nessuna immagine unificante di società. La rivolta naufragava tra le insidie più lampanti che lo spirito piccolo borghese usa porre in atto: il corporativismo.

   Le battaglie sindacali dell’autunno 1969 - anch’esse giustificate da sclerotizzate e penose situazioni di fatto - furono viziate da un mancato equilibrio fra consumi privati e spesa pubblica. Il corporativismo, pur vestito di un drappo rosso, rendeva problematica ogni reale prospettiva rivoluzionaria. Per la psicologia di massa, la politica dei “sacrifici” risultava offensiva; e offensiva lo era naturalmente, per tutti coloro che non potevano tacersi le evasioni fiscali dei ceti abbienti, le fughe di capitali all’estero. L’interrogativo fu: chi paga i sacrifici?

   Soltanto il legislativo avrebbe potuto risolvere in positivo tante contrastanti spinte. Ma il legislativo si pose in aspettativa riottosa, ottenendo il risultato di una rissa che diventò sempre più oscura.

   Nel dicembre 1969, con la strage della Banca nazionale dell’agricoltura a Milano, piazza Fontana, si aprì la lunga e losca stagione destabilizzatrice.

   Il 1968 significava, fra le sue ambiguità, bisogno di una partecipazione larga delle masse alla vita dello Stato. Contro questa richiesta si mise in moto un disegno ostile, dapprincipio coi colori della destra estremistica, quindi della sinistra clandestina, le cui implicazioni sono tuttora non chiarite.

   Stragi e attentati, assassinî e drammatiche compromissioni politiche: il carissimo prezzo di un’Italia diversa.

   Pasolini soffrì di queste ambiguità collettive: aveva deciso di essere insieme razionale e irrazionale, aveva istituzionalizzato dentro di sé la libertà di contraddirsi. Egli sperimentava alla luce del sole quanto l’io fosse “diviso”, sia nel suo volto pubblico sia nel suo volto privato.

   Disponibile a contraddirsi, disponibile a un’opposizione radicale contro qualsiasi preconcetto politico o etico, Pier Paolo intuì il contenuto regressivo, piccolo borghese della “rivolta” del Sessantotto.

   La borghesia, da ragazzo, nel momento più delicato della mia vita, mi ha escluso: mi ha elencato nelle liste dei reietti, dei diversi: e io non posso più dimenticarlo. Ne è rimasto in me un senso di offesa, e appunto, di male: lo stesso che deve provare un negro di Harlem quando passeggia per la Quinta Strada. Non è una pura coincidenza, il fatto che io abbia trovato consolazione, cacciato dai centri, nelle periferie (4).

   Scrisse queste parole, dedicandole al Sessantotto: il sentimento di quel «male» lo aveva reso sensibilissimo a avvertire dove si annidasse il rimosso di intolleranza e disgregazione che il borghese, e il piccolo borghese, coltiva dentro di sé.

   Pasolini intuì in anticipo su moltissimi che il “maggio” studentesco italiano era una cifrata rivolta della borghesia contro se stessa.


Cari studenti...


   Una bellissima mattina di precoce primavera - il primo di marzo 1968, a Roma. Quasi per caso: scontri gravissimi fra polizia e studenti universitari sui viali di Valle Giulia. Cariche di camionette, spari di candelotti: le rampe che portano in via Antonio Gramsci, dove ha sede la facoltà di Architettura, furono invase da una battaglia vera e propria. Se ne sparse la notizia in città come di un evento inusitato, cui non c’era confronto nel passato - ed era vero.

   Quella mattina di marzo entrò a buon diritto nella mitologia del Sessantotto.

   Pasolini scrisse dei versi, a caldo - li disse «brutti versi», voltati al consumo di una polemica, un pamphlet. Li aveva preparati per «Nuovi argomenti». La rivista, con uno sforzo critico, cercava di seguire gli avvenimenti: aveva commentato nel primo fascicolo dell’anno i fatti torinesi e le polemiche “culturali” di «Quaderni piacentini»; proseguì, col fascicolo successivo, in un’analisi di quanto era accaduto a Roma (5).

   I versi di Pasolini uscirono, in anteprima, su «L’Espresso», e non per intero - comunque, anche se trascelti (e la cosa suscitò protesta in Pier Paolo), accesero un dibattito (6).

Titolo del pamphlet era Il PCI ai giovani!! (7).

   È triste. La polemica contro

   il PCI andava fatta nella prima metà

   del decennio passato. Siete in ritardo, figli.

   In questione non vi era soltanto il rapporto, di confronto duro e irrisolto, fra i giovani e il Partito comunista, ma il contenuto politico, e sociale, della “rivolta”.

   Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte

   coi poliziotti,

   io simpatizzavo coi poliziotti!

   Perché i poliziotti sono figli di poveri.

   Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

   In queste parole - dichiarative e silicizzate - c’era l’esca di un incendio. Nelle polemiche della sinistra la polizia era stata considerata sempre come l’arma della repressione: la polizia era la divisa indossata, e la divisa indossata era mero segnale.

   Pasolini, quasi in uno scoppio di furore, metteva a nudo psicologia, antropologia, storia. I poliziotti «figli di poveri» appartengono, per lui, alla galassia spersa dei «dannati della terra» di cui aveva scritto Frantz Fanon. Erano, quei poliziotti, i figli di un sottoproletariato povero, emarginato dalla società borghese nella polizia.


   E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,

   con quella stoffa ruvida che puzza di rancio

   fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,

   è lo stato psicologico cui sono ridotti

   (per una quarantina di mille lire al mese):

   senza più sorriso,

   senza più amicizia col mondo,

   separati,

   esclusi (in una esclusione che non ha uguali);

   umiliati dalla perdita della qualità di uomini

   per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

   Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.


   Di contro, chi erano gli studenti? «Figli di papà», animati da «sacro teppismo (di eletta tradizione / risorgimentale)»: erano «i ricchi» che avevano «bastonato» - «benché dalla parte / della ragione» - «i poveri».

   Questo il contrasto che, ritagliato sulle pagine di un rotocalco, dette letteralmente fuoco alle polveri. Da Vittorio Foa a Johannes Agnoli si rimproverò a Pasolini di aver risuscitato argomentazioni da «stampa fascista e moderata» (8). Gli studenti, in dibattiti, eternarono la polemica per anni; e fu l’ostinazione di Pasolini, il suo non sottrarsi mai all’interlocutore, a scardinare in alcuni il convincimento schematico che il testo - non si era mai letto in versi qualcosa di più ostico alla poesia - aveva accreditato.

   Il convincimento di Pasolini era altro: prendeva le mosse da quel pensiero che, latente, lo aveva accompagnato nei conflitti con la neoavanguardia. La neoavanguardia aveva dato aspetto pratico alle proprie polemiche prendendo a bersaglio un supposto, sclerotizzato establishment letterario - anch’essa si poneva sul filo di una lotta fra generazioni. Pasolini aveva già risposto, quanto a questo, che la vera presa del potere non andava condotta per redazioni di case editrici o per stalli universitari: andava condotta sulla storia, sui contenuti morali di una letteratura, sui processi delle forme espressive.

   Stavolta, Pasolini estendeva l’argomento alla politica. L’esortazione agli studenti diceva:


   Smettetela di pensare ai vostri diritti,

   smettetela di chiedere il potere.

   Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,

   e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,

   l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo

   a Bob Kennedy.


   In questa idea del «potere», o della sua distruzione - come di una anchilosante eredità psicologica -, stava il veleno del pamphlet.

   Se c’era un «potere» da prendere, era quello «di un Partito che è tuttavia all’opposizione».


   Anche se malconcio, per l’autorità di signori

   in doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,

   borghesi coetanei dei vostri stupidi padri,


   il Partito comunista ha per lo meno «come obiettivo teorico la distruzione del Potere».

Il contrasto fra generazioni era ricondotto da Pasolini al suo perno, orrendo marivaudage che ha per fine non la «liberazione dalle catene del capitale», ma una nuda sostituzione di pedine sulla scacchiera dell’economia borghese.

   L’invito di Pasolini era - Il PCI ai giovani!! - dialettico: spostava i fini in un orizzonte diverso, tenendo conto che «buona razza non mente», il borghese non cambierà, nel mutare d’abito, cervello e strategia.

   La polizia. Non considerata come garanzia dell’ordine costituzionale, ma come espressione di un potere repressivo: indice di una distanza fra paese reale e Stato. Non era considerata altrimenti, al tempo, fra gli stessi partiti di sinistra che, pure, dell’osservanza costituzionale si facevano garanti.

   Polizia come residuo «fascista» nello Stato. Anche per Walter Benjamin essa ha aspetto «ignominioso»: in essa sarebbe «soppressa la divisione fra violenza che pone e violenza che conserva la legge». Per Benjamin, lo Stato medesimo, «vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico», si trova davanti a essa scoperto. Le ragioni di sicurezza per cui la polizia può intervenire, quando e come vuole, a giudizio di Benjamin, fanno sì che lo Stato veda fallire «gli scopi empirici» che si pone9.

   Una concezione, questa, attinente a immagini statuali prebelliche - quelle che avevano favorito e consentito i fascismi diversi dominanti l’Europa dagli anni Venti fino al secondo conflitto mondiale.

   Tutto, però, cambiava - ed era cambiato in Italia. La concezione benjaminiana della violenza poliziesca andava integrata con idee che contemplassero i mutamenti politici e antropologici in corso.

   Quando Pasolini segnava che il conflitto fra studenti e poliziotti era quello fra due bande che, arcaicamente e en poète, chiamava dei «ricchi» e dei «poveri», svolgeva un’argomentazione tutta in favore di un’ottica avvertita delle dinamiche sociali e non irretita da idola fori.

   Parlo di mutamenti in corso - e sono gli anni oscuri degli attentati, per i quali alcune responsabilità della polizia vennero additate.

   Restava che i poliziotti, «figli di poveri», figli delle periferie, e dannati della terra, erano altro dagli schemi: e lo erano proprio perché il boom economico, con errori e successi, aveva rotto ogni schema avanti che l’intelletto critico potesse rilevarlo.

   Pasolini era convinto che la borghesia tentasse di «trasumanare» - è questo il tema sottinteso di Teorema. Questo anche il tema del pamphlet in versi Il PCI ai giovani!!

   Ma tali intenzioni - in tempi di pronunciamenti univoci, volutamente non sfumati - fu difficile chiarirle. E, se anche furono chiarite - Pasolini, ancora su «L’Espresso», scrisse: «Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese»10-, non c’era voglia di comprenderle.

[...]



Note:

1 Arturo Colombo, Anche noi sbagliammo nel ’68, «Corriere della sera», 12 aprile 1978.

2 Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Bari, 1976, p. 61.

3 Alberto Ronchey, Accadde in Italia, 1968-1977, Milano, 1977, pp. 5-6.

4 Empirismo eretico, cit., p. 162.

5 Cfr. in «Nuovi argomenti», gennaio-marzo 1968, i testi anonimi, ma di pugno di Alberto Moravia, dal titolo Napalm LDT e Da non leggere, e Il rifiuto dei libri a Palazzo Fontana di Enzo Siciliano. Cfr. tutti i testi a firma di P.P. Pasolini in «Nuovi argomenti», aprile-giugno 1968, e Impegno e integrazione di Alberto Moravia, Lettera a Pasolini di Enzo Siciliano, e Roma: Le due linee del Movimento Studentesco di Giorgio Manacorda.

6 Cfr. «L’Espresso», 16 giugno 1968.

7 Empirismo eretico, cit., pp. 155 e sgg.

8 Cfr. «L’Espresso» sia del 23 giugno 1968, sia del 30 giugno 1968.

Enzo Siciliano

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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