"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Jon Halliday
"La prima volta che vidi Pier Paolo Pasolini..."
Prefazione al libro "Pasolini on Pasolini"
Ugo Guanda Editore
2014
Una domenica sera a fine aprile del 1992, nella mia stanza d’albergo a Mosca, accesi la televisione. Era Pasqua (secondo il calendario ortodosso), ed era anche il primo giorno dall’epoca della Rivoluzione d’Ottobre in cui le campane avevano suonato a distesa – le avevo sentite io stesso in quella stanza – dalla grande cattedrale entro le mura del Cremlino. E quello che comparve sullo schermo televisivo era il pasoliniano Vangelo secondo Matteo.
Mi sembrò del tutto a proposito che proiettassero quel film di Pasolini in quel luogo e in quella circostanza; anche se, paradossalmente, era probabile che ciò avvenisse per ragioni opposte a quelle originali dell’autore. L’apparizione del Vangelo sugli schermi dei televisori moscoviti non rispondeva tanto a un desiderio di mostrare l’interpretazione critico-immaginativa del Vangelo cristiano data da un outsider, quanto piuttosto a quello di fornire immagini critiche del deserto ideologico e morale lasciato da settant’anni di sterile comunismo. Ma immagino che Pasolini ne sarebbe stato contento, e sono certo che avrebbe accolto con disinvoltura il paradosso. In ogni caso, credo che la sua visione del Cristo dovesse esser sembrata radicaleggiante nel mondo posato e financo conservatore (oltre che compromesso col KGB) della Chiesa ortodossa russa, per non parlare di quello degli ex pseudomarxisti del vecchio Partito Comunista Sovietico. Sono certo che gli sarebbe piaciuto moltissimo essere lì per ingaggiare aspri dibattiti con un pubblico che neppure lui avrebbe sognato di poter raggiungere quando aveva fatto il film.
L’inattesa comparsa del Vangelo sullo schermo del mio televisore, a Mosca, era poi un segno della straordinaria capacità di durata dell’opera di Pasolini: una cosa che non mi sarei immaginato all’epoca in cui lo intervistai, nel 1968. Nel meraviglioso libro Retrato de familia con Fidel, lo scrittore cubano Carlos Franqui descrive una scena avvenuta al Palacio de la Revolución, all’Avana, una sera tardi, nel 1964. Franqui è stato convocato per ricevere un duro rimprovero. Entra, e l’interlocutore lo accoglie con la frase: «E che mi dici, Accattone?» Chi gli dice questo altri non è che Raúl Castro, ubriaco fradicio. Il romanissimo personaggio pasoliniano era entrato nel lessico della leadership cubana. (A Franqui, quell’appellativo non preannunciava nulla di buono, perché voleva insinuare che lo si accusava di comportarsi come un mezzano.)
La prima volta che vidi Pier Paolo Pasolini stava uscendo, incespicando, dalla cucina del suo appartamento di via Eufrate all’EUR, nell’aprile del 1968. Aveva la bocca piena di cibo. Mi strinse la mano, si scusò di non essere pronto a ricevermi. Era stato lui a decidere l’orario del nostro appuntamento: le due del pomeriggio, per Roma un orario allucinante. Ma per lui era un buon orario, mi disse, perché era tutto chiuso, tutti stavano mangiando, bevendo o dormendo, mentre lui era irrequieto e non aveva altro da fare.
Il British Film Institute mi aveva commissionato un libro su un regista, destinato a una nuova collana intitolata «Cinema One». Io ero vissuto in Italia per tre anni, dal 1963 al 1966 (gli ultimi diciotto mesi a Roma), e volevo tornarci. Suggerii Pasolini. Questo autore non era particolarmente noto nel mondo anglosassone, ma il suo nome stava acquistando una certa fama, e la mia idea fu accettata. Proposi di fare un libro di interviste: pensavo che sarebbe stato più facile che non scrivere uno studio critico, e ritenevo, per quanto ne sapevo, che Pasolini fosse un buon parlatore, in grado di spiegare se stesso al pubblico anglosassone (che probabilmente non aveva mai letto i suoi libri di poesia e di narrativa) meglio di quanto non avrei saputo fare io. E infatti non mi deluse. Bastava fargli una domanda, e la risposta arrivava con grande facilità. Una volta, quando gli menzionai un suo brano nel quale aveva affermato che riponeva le sue speranze nel mondo contadino italiano, che era «permeato dal cattolicesimo della Controriforma» (affermazione che a me sembrava alquanto contraddittoria), mi disse che non riusciva a ricordare di averlo detto. Ma non perdeva botta. Dopo la frase riferita ci fu una breve pausa, e quindi le sue parole ricominciarono a fluire: «Ma voglio accettare di averla detta [una cosa simile], perché ora che me ne parla mi rendo conto che potrei averla detta». A questo fece seguito una lunga, articolata risposta. Rileggendola, la trovai piuttosto interessante, anche se un po’ troppo ottimistica. Contiene pure una cosa che mi era sfuggita a quell’epoca, ossia un fraintendimento della Rivoluzione Culturale in Cina. Pasolini giungeva a collegare l’encomiabile attività di don Milani e la violenza della Rivoluzione Culturale. Benché tali fraintendimenti fossero diffusi a quell’epoca fra le sinistre in Occidente, oggi mi sorprende che Pasolini li abbia condivisi, visto che le sue antenne erano più sensibili di quelle di molti altri a proposito della violenza e della crudeltà fomentate o praticate dal comunismo. E tuttavia, rileggendo questa sezione, osservo anche una curiosa, e onesta, ammissione di Pasolini a riguardo della sua passata ingenuità nei confronti di Stalin, ingenuità che vista retrospettivamente sembra quasi incredibile (cfr. p. 40).
Questo libro è il frutto di una serie di interviste che gli feci in circa dieci giorni disseminati nell’arco di un paio di settimane, e che si svolsero tutte fra le due e le quattro del pomeriggio nello spazioso salotto del suo appartamento. Tutta la serie fu condotta in italiano e registrata su nastro. Tornato a Londra, feci sbobinare i nastri e tradussi il testo mentre lo rivedevo. Pasolini mi disse che aveva piena fiducia in me, e acconsentì senza indugio a lasciarmi pubblicare la mia versione senza una preventiva lettura del testo da parte sua. (In seguito mi scrisse per dirmi che avevo fatto un buon lavoro, ne era convinto; senza perdere l’occasione per deprecare – piuttosto ingiustamente, io penso – il fatto che quello era il tipo di cose che, a suo avviso, non capitavano mai in Italia.)
Riguardando le interviste a distanza di ventiquattro anni, noto cose che desidererei avere approfondito, allora. Ma non era mai facile spingere Pasolini da qualche parte. Una volta mi fece un blando rimprovero per aver riesumato certi suoi scritti dal passato: «Lei è proprio come una Furia, a rammentarmi cose che avevo dimenticate» (p. 47). Come tutti gli intervistati di classe, era abilissimo sia nel rispondere alle domande sia nell’eludere gli argomenti di cui non voleva parlare. Inoltre diceva spesso – ed era vero – di non essere un pensatore «sistematico», ma un poeta e, secondo la sua espressione, un pasticheur.
Benché possa dire che ci trovavamo bene insieme, quasi mai Pasolini conversò con me su argomenti che non riguardassero il libro in preparazione. Era molto curioso di sapere come riuscivano le sue opere tradotte in inglese. Io avevo letto e ammirato, già nel 1959, il romanzo Ragazzi di vita. Dato il mio imperfetto italiano di allora, la lettura mi aveva richiesto dieci giorni, ma mi aveva colpito molto. Ci capitò di avere una discussione interessante, ma inconcludente, sulle difficoltà insite nel restituire in inglese il romanesco.
Nel periodo in cui conobbi Pasolini, ero da poco entrato a far parte del comitato di redazione di una rivista pubblicata a Londra che si chiamava «New Left Review», comitato da cui in seguito mi dimisi. «Addirittura!» fu la reazione di Pasolini quando lo informai che facevo parte del comitato, perché la rivista a quei tempi era piuttosto prestigiosa. Quando nell’appartamento venivano suoi amici – Alberto Moravia, ad esempio, o Alberto Carocci, condirettore di «Nuovi Argomenti» – mi presentava come membro del comitato di redazione della «New Left Review». Era sempre cortesissimo, ma un po’ distante. Non ero né escluso, né accettato. Non mangiammo mai insieme. Una volta che vennero Franco Citti e Ninetto Davoli per aiutarlo ad appendere un nuovo quadro alla parete, notai che si rilassava soprattutto con Davoli, il quale aveva una cosa in comune con Moravia: entrambi amavano stuzzicare Pasolini e scherzare con lui. Una visitatrice con la quale mi sembrò molto in confidenza era Elsa Morante, che un giorno venne a vedere uno dei film brevi (Che cosa sono le nuvole?) di cui lui aveva organizzato la proiezione per me. Fu quella l’unica volta che vidi un film di Pasolini in sua compagnia. Uscimmo di fretta dall’appartamento dell’EUR per andare alla proiezione, con lui al volante della sua Mini, lanciata a forte velocità. Elsa Morante osservò che somigliavo un pochino a un cugino di Pier Paolo. Pasolini reagì all’istante. «No, non è vero» affermò reciso dopo aver lanciato un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Non somiglia affatto a mio cugino. Ha un tipo di faccia totalmente diverso.» (Pasolini non mi rivolse mai alcuna domanda sulla mia estrazione sociale o etnica, anche se io gli dissi che ero stato allevato nella religione cattolica, nel Sud dell’Irlanda.)
Adesso rimpiango di non aver cercato di scavare più in profondità a proposito del rapporto di Pasolini con il Partito Comunista Italiano; anzi, con tutta la tradizione del socialismo italiano. Vi furono molti campi in cui le cose non furono captate né da lui né da me. Pasolini menzionò la morte del fratello, Guido, solo con le parole: «Mio fratello morì combattendo con i partigiani». E, per quanto ricordo, dalla sua voce non trasparì alcuna emozione. Non sapevo allora che suo fratello, il quale combatteva in una formazione partigiana, era stato ammazzato da un’altra formazione partigiana per un tragico – e ingiustificabile – incidente.
Le interviste si svolsero agli inizi dell’aprile del 1968, poco prima che Pasolini scrivesse Il PCI ai giovani!! La poesia offese molti, e portò ad alcune strane interpretazioni (ad esempio il sociologo americano Seymour Lipset ne trasse la conclusione che una parte della sinistra italiana aveva molto a cuore la polizia). Un amico mi spedì una copia del numero dell’«Espresso» (16 giugno 1968) contenente il testo di Il PCI ai giovani!! e una discussione fra Pasolini, Vittorio Foa, Nello Ajello e Claudio Petruccioli. Erano riportate anche le magniloquenti e presuntuose dichiarazioni (una delle quali in gran parte formata da una lunga, e non pertinente, citazione da Lenin) lette da due rappresentanti del movimento studentesco. A quell’epoca pensai che Pasolini era stato troppo duro nei confronti degli studenti ma adesso, rileggendo quelle dichiarazioni, mi domando se non avesse ragione.
L’ultima volta che vidi Pasolini fu verso la fine del 1971, in un tranquillo e abbastanza triste albergo nella cittadina di Rye, sulla costa meridionale inglese, dove stava girando I racconti di Canterbury. Nella tetra sala da pranzo aveva un aspetto dignitoso, anche se un po’ sconsolato, mentre piluccava un tipico e per nulla appetitoso pranzo da provincia inglese. Il cameriere, che evidentemente aveva rinunciato a imparare quel nome impronunciabile, gli si rivolgeva chiamandolo soltanto «Mister Pas». Lo stesso Pasolini venne a parlare di quella sua poesia del 1968, senza che io avessi accennato all’argomento. Disse: «Per un certo tempo mi ha reso estremamente impopolare presso le sinistre italiane. Posso essermi espresso male, ma quello che dicevo si è dimostrato vero, purtroppo».
Aveva l’aspetto stanco ed emaciato. Io allora non sapevo che si trovava nel mezzo di una profonda crisi personale (descritta da Enzo Siciliano in Vita di Pasolini alle pp. 332 sgg.), cosa che mi fu quasi svelata da una sua frase con cui mi spiegò che ormai era in grado di fare la sua trilogia in quanto «era improvvisamente diventato molto libero sessualmente».
Desiderava soprattutto parlare dei vari accenti e dialetti inglesi con riferimento ai Racconti di Canterbury. Scoprii solo in seguito che aveva scritto la sceneggiatura in Romania, dove era andato in una delle cliniche per il ringiovanimento che fiorivano in quel Paese sotto i Ceauseşcu, narcisisti e ossessionati dalla paura della vecchiaia. Pasolini sembrava un po’ confuso dall’Inghilterra. A dispetto – o forse a causa? – del fatto che suo padre era stato prigioniero di guerra degli inglesi (in Kenya), era sempre stato piuttosto anglofilo, ma mi ero già accorto che la sua anglofilia aveva subito qualche rude colpo. Benché il suo inglese fosse rudimentale, aveva già individuato nello humour britannico delle differenze di classe, e sembrava aver capito, o quasi, che la borghesia inglese non era poi così illuminata come aveva pensato. Poco tempo dopo, scrisse parole abbastanza dure sull’ipocrisia britannica in una critica al Maurice di E.M. Forster. A Rye discorremmo per un paio d’ore, e fu l’ultimo contatto che ebbi con lui.
I racconti di Canterbury ricevettero un’accoglienza cauta in Inghilterra. In questo Paese, il film di Pasolini che sembra aver richiamato il pubblico più numeroso è stato Edipo re, insieme con Accattone, il Vangelo e Medea. Sempre in Inghilterra, la persona che si espresse con me nel modo più curioso circa Pasolini fu uno psicanalista d’origine sudafricana di nome David Cooper (autore di libri come La morte della famiglia e altri). Avevo progettato di scrivere in collaborazione con lui un libro sul tema della psicologia del gioco d’azzardo. Ma Cooper si dimostrò estremamente inaffidabile, per dirla con garbo, tanto che finii col fare quel libro col critico d’arte Peter Fuller (cfr. Jon Halliday e Peter Fuller, The Psychology of Gambling, edito in Inghilterra da Allen Lane e negli Stati Uniti da Harper & Row nel 1974). Cooper voleva esplorare i limiti esterni (e interiori) dell’estremo, ed era ossessionato dal film di Pasolini Porcile, in particolare dal ruolo che vi svolgono i maiali. Parlava di attrazione sessuale verso poliziotti (cui a quell’epoca era di moda affibbiare l’epiteto di «porci», specialmente da parte della gente di sinistra americana). Cooper mi infastidì ripetutamente perché lo presentassi a Pasolini.
Dal 1974 al 1976 insegnai nella nuova Università della Calabria. Era un buon punto di osservazione dal quale sottoporre a verifica la reputazione di Pasolini. La prima cosa che mi colpì, quando arrivai in Italia nel 1974, fu il constatare che la sua fama perdurava. Pasolini era una stella di prima grandezza nel firmamento culturale, forse il più letto fra tutti i commentatori e critici della cultura italiana. Gli studenti in Calabria ne parlavano spesso. Attendevano con impazienza l’apparizione della sua rubrica sul «Corriere della Sera» (che arrivava a Castiglione Cosentino Scalo, a pochi chilometri dall’Università – con sede ad Arcavacata – verso le cinque del pomeriggio quando andava bene).
Il 2 novembre del 1975 ero migliaia di miglia lontano, a New York, in attesa di un aereo per Montreal dove dovevo tenere una conferenza alla McGill University, quando lessi la notizia che Pasolini era stato assassinato. Non la lessi sul «Corriere della Sera», o sul «Giornale di Calabria», ma sul «New York Post». Tornato in Calabria, notai quanto spesso gli studenti usavano espressioni come «Che cosa ne avrebbe detto Pasolini?» (che credo possa essere stato il titolo di un articolo dei «Quaderni piacentini»). Di rado gli studenti erano stati delusi dalla sua rubrica. Quasi sempre c’era nei suoi scritti cibo per la mente, anche quando, come accadde per un articolo sull’aborto che scrisse poco prima della morte, suscitavano urla di adirata disapprovazione.
È durata, la sua fama, e non soltanto in Calabria. Non solo è durata, ma semmai è cresciuta: forse più in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti che in Gran Bretagna. Ma anche qui, nell’insulare Britannia, i suoi film vengono spesso riproposti alle platee, e si traducono con maggiore frequenza i suoi scritti. Nel 1968 ero fortemente critico verso certe sue opinioni. Ma quello che allora interpretavo come passatista, e perfino «reazionario», oggi mi accorgo che era spesso il tentativo di esprimere un senso di perdita. Quando lo incontrai a Rye, quell’ultima volta, sottolineò il suo «rimpianto [...] per la perdita del mondo di una volta». «Sono un uomo disincantato» mi disse. Ora capisco che spesso vedeva lontano. Dopo la sua morte, ogni volta che guidavo lungo la rovinata costa calabrese, un tempo così bella, mi venivano in mente i suoi reiterati appelli a favore di un equilibrio cultural-ecologico.
Questo libro fu tradotto in giapponese nel 1972. Un commentatore lo descrisse in questi termini: «Regista italiano pseudomarxista forzato a strane interviste da un teorico della Nuova Sinistra». Un’osservazione che mi piacque non poco a quell’epoca, benché fosse del tutto imprecisa. In primo luogo, Pasolini non era uno «pseudomarxista», o un quasi-marxista; era propriamente un eclettico, ma sapeva il fatto suo e non si lasciava influenzare. A parte ciò, io non ero un teorico, e non avevo «forzato» Pasolini a quei colloqui.
L’editore giapponese mise una fascetta rossa attorno al volume con una frase che paragonava Pasolini a Mishima, il noto romanziere e cineasta che si era ucciso nel 1970 facendo seppuku (il suicidio rituale compiuto squarciandosi il ventre con la spada, seguito dalla decapitazione da parte di un amico o servo fedele – quello che in genere è chiamato a torto harakiri). Io avevo scritto una nuova prefazione per l’edizione giapponese, accostando i due scrittori, che effettivamente avevano molto in comune: entrambi erano uomini di lettere passati in seguito, con successo, al cinema e in genere alle arti visive; due persone che si erano avvicinate come poche altre al traguardo della poliespressività proposto da Marinetti. Erano entrambi omosessuali, entrambi assillati dalle preoccupazioni per la perfetta salute e vigoria del corpo, entrambi attenti a un passato che poteva essere impossibile da recuperare, o solo da ricostruire. Entrambi erano stati uomini di sinistra spostatisi a destra (Mishima all’estrema destra, proteso verso un passato irrealistico). La fascetta rossa dell’editore giapponese domandava: «Pasolini era il Mishima italiano, vissuto nella frattura tra il mondo del mito e la rivoluzione?»
Nella prefazione all’edizione giapponese, azzardai qualche ipotesi sulla fine che avrebbe potuto fare Pasolini, istituendo un paragone con il destino violento, profondamente tradizionalista e reazionario di Mishima (che si era ucciso per invocare un più profondo affetto della nazione per l’imperatore, e a favore di un pronto riarmo). Ricordai ai lettori che molti critici occidentali che avevano commentato la morte di Mishima avevano cercato di spiegare il suo gesto rifacendosi agli ideali dannunziani. Scrissi che, nonostante le molte analogie fra Mishima e Pasolini, «è molto improbabile che Pasolini si tolga la vita, in quanto il suo romanticismo e masochismo non sembrano assumere questa forma (al contrario, sembrerebbe aggrapparsi con ogni forza alla vita)». E tuttavia, mi rendo conto che c’era nella sua opera qualcosa, una sorta di atroce disperazione, che lasciava adito alla possibilità di una fine «strana».
Nel 1969, dopo aver descritto i frenetici spostamenti di Pasolini tra i diversi modi e mezzi di espressione, avevo concluso la mia prefazione all’edizione inglese con queste parole: «È difficile pensare che l’irrequietezza pasoliniana sia giunta alla fine». Se mai un suo film avrebbe irradiato inquietudine e angoscia, sarebbe stato il successivo Salò.
Mi dispiace di non aver mai avuto l’occasione di discuterne con lui, e che lui non sia più qui a fare l’enfant terrible settantenne, a provocare e a deliziare il pubblico, e a concentrare il suo potente disincanto creativo sui mali e sui sogni degli anni Novanta.
Jon Halliday
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
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