"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Il background pasoliniano
Tratto da Pasolini su Pasolini
Conversazioni con Jon Halliday
Ugo Ganda Editore
1992
Jon Halliday – Lei ha scritto parecchio circa l’importanza della famiglia per lei: mi direbbe qualcosa circa le sue origini e l’educazione che ha ricevuto?
Pier Paolo Pasolini – Le mie origini sono, in modo abbastanza tipico, quelle dell’italiano piccoloborghese: sono un prodotto dell’Unità d’Italia. Mio padre era di antica nobiltà romagnola, mentre mia madre proviene da una famiglia contadina friulana trasformatasi col tempo in piccoloborghese: il mio nonno materno era padrone di una distilleria; la madre di mia madre era piemontese, ma aveva parenti siciliani e romani. Per cui in me c’è qualcosa di ogni parte d’Italia: ma dell’Italia piccoloborghese, vorrei precisare, nonostante il sangue nobile di mio padre. Anche la mia infanzia e la mia fanciullezza presentano la stessa caratteristica: non ho una città che possa chiamare mia. Ho vissuto qua e là, un po’ in tutta l’alta Italia. Dopo la nascita (a Bologna), ho passato un anno a Parma, poi ci siamo trasferiti a Conegliano, poi a Belluno, Sacile, Idria, Cremona e in vari altri centri del Nord.
È piuttosto difficile parlare dei rapporti con mio padre e con mia madre in quanto conosco un po’ di psicanalisi, per cui sarei indeciso se parlarne semplicemente in termini di memoria poetica, aneddotica, o invece in termini psicanalitici, ciò che in ogni caso mi riuscirebbe piuttosto difficile. Come sa, si è gli ultimi a conoscere se stessi. Quello che posso dire è che avevo un grande amore per mia madre. Potrà verificarlo in una serie di mie poesie, a iniziare dal 1940, più o meno, per finire con l’ultimo libro che ho scritto tre o quattro anni fa (quando ho rinunciato a fare poesia). Per molto tempo ho pensato che l’insieme della mia vita erotica ed emozionale fosse il risultato del mio amore eccessivo, quasi mostruoso verso mia madre. Ma abbastanza di recente mi sono reso conto che anche il rapporto con mio padre è stato importantissimo. Avevo sempre pensato di odiare mio padre, ma in realtà non era così; avevo con lui un rapporto conflittuale, nei suoi confronti ero in uno stato di tensione permanente e addirittura violenta. Per questo c’erano molti motivi. Il principale: che era prepotente, egoista, egocentrico, tirannico e autoritario, anche se allo stesso tempo straordinariamente ingenuo. Inoltre, era un militare, un ufficiale, e pertanto nazionalista; aveva simpatie per il fascismo, e questa era un’altra ragione obiettiva che giustificava pienamente lo scontro. Per giunta, aveva un rapporto molto difficile con mia madre. Lo capisco soltanto ora, ma forse lui la amava troppo, e forse non ne era pienamente ricambiato, cosa che lo teneva in uno stato di perenne tensione. E io, come tutti i bambini, il più delle volte prendevo le parti di mia madre.
Avevo sempre pensato di odiare mio padre ma di recente, scrivendo uno dei miei ultimi drammi in versi, Affabulazione, che tratta del rapporto fra padre e figlio, mi sono accorto che, in fondo, gran parte della mia vita erotica ed emozionale non dipende da odio contro di lui, ma da amore per lui, un amore che mi portavo dentro fin da quando avevo circa un anno e mezzo, o forse due o tre, non so... almeno, così mi è parso di poter ricostruire la vicenda. Mio padre è morto nel 1959, dopo aver fatto la guerra e la prigionia in Kenya. Gli ho dedicato un libro di versi che avevo scritto nel 1942, in dialetto friulano. Il friulano è il dialetto di mia madre, e naturalmente mio padre era contrario a che lo si usasse, sia come italiano «centrale» che di conseguenza, in modo più o meno razzista, considerava inferiore qualsiasi cosa provenisse dalla periferia del Paese e avesse a che fare coi dialetti; sia anche come fascista (perché il fascismo era ostile per ragioni ideologiche ai dialetti in quanto costituivano una forma di vita reale che voleva nascondere). Perciò è stato un gesto veramente audace da parte mia dedicargli quel libro di versi.
Jon Halliday – Quanti anni aveva quando incominciò a sentire che cosa è la religione? Questo sentimento le è derivato più dalla famiglia o dalla scuola?
Pier Paolo Pasolini – Mio padre non era religioso e non credeva in Dio, ma essendo nazionalista e fascista era, naturalmente, attaccato alle convenienze, e ci portava a messa la domenica per ragioni «sociali». Mia madre, di famiglia contadina friulana, e quindi di tradizione religiosa – ma una tradizione assolutamente naturale, che non ha niente di conformistico o di bigotto –, non va mai in chiesa e non fa mai la comunione: la sua religiosità è puramente poetica e naturale, ciò che le viene soprattutto da sua nonna, alla quale da bambina voleva molto bene. Perciò la mia infanzia mancò completamente di educazione religiosa. Credo di essere il meno cattolico fra tutti gli italiani che conosco: non ho fatto nemmeno la cresima, e me la svignavo sempre dalle lezioni di catechismo. E odiavo andare alle scuole dei preti. Più avanti sono andato alla scuola statale, non confessionale: il Liceo Galvani è stato molto importante per me. Era un istituto di tradizione laica e tutti i miei insegnanti erano laici. Perciò alla fin fine la religione come la insegnavano a scuola ha avuto assai scarsa influenza su di me. Mi considero laico e non credente. La mia religione è di un genere piuttosto atipico: non si conforma a nessun modello. Non mi piace il cattolicesimo perché non mi piacciono le istituzioni in generale. D’altra parte, penso che sarebbe retorico dichiararmi cristiano – anche se, come ha detto Croce, nessun italiano può non dirsi cristiano, culturalmente parlando. Ma tutto questo è ovvio, e le banalità mi irritano. In realtà la mia religiosità è probabilmente solo una forma di aberrazione psicologica con una tendenza al misticismo; c’entra un particolarissimo fattore psicologico: il mio modo di vedere il mondo, che forse è troppo rispettoso, troppo reverenziale, troppo infantile; io vedo tutto quello che c’è al mondo, gli oggetti non meno della gente e della natura, con una certa venerazione sacrale. Ma questo ha a che fare con il mio carattere, non con l’istruzione o il tipo di educazione ricevuta.
Jon Halliday – Quando ha imparato a leggere e scrivere? Lei ha scritto dell’importanza della parola parlata: ha imparato molto prima di imparare a leggere... poesie, canti popolari?
Pier Paolo Pasolini – No. Ho incominciato a scrivere poesie quando ho imparato a scrivere. Ma prima ancora di imparare a leggere e scrivere disegnavo: questo quando avevo quattro anni. Ho imparato a scrivere intorno ai sette anni; sfortunatamente ho smarrito le mie prime poesie. Le avevo scritte in un piccolo notes che conservai per anni e andarono perse durante la guerra. Le avevo illustrate, perché la mia aspirazione era quella di dipingere, e infatti per qualche tempo ho coltivato la pittura. Ho dimenticato che cosa ci fosse, in quei miei primi parti poetici. Tranne due parole: una era «rosignolo», l’altra era «verzura»; tutte e due estremamente ornate, colte, letterarie, come può capire, e quindi vede che ho iniziato in modo assolutamente letterario. Quanto alle canzoni popolari, ho incominciato a interessarmene molto tempo dopo, quando potevo avere venticinque o ventisei anni.
Jon Halliday – Che mi dice del friulano? L’ha imparato da bambino?
Pier Paolo Pasolini – Il mio rapporto con il friulano è molto curioso, perché in realtà non è il mio dialetto natio, e non lo è neanche per mia madre. I friulani sono trilingui: in primo luogo friulani, ossia ladini; poi veneti, in quanto il veneto era la lingua della classe dominante, importata sotto la dominazione veneziana; e infine italiani. Appartenendo in qualche modo alla élite contadina della zona, mia madre parlava il veneto, non il friulano. Perciò questo l’ho sentito parlare dai contadini, contadini assolutamente autentici, ma non l’ho mai parlato io stesso, e l’ho imparato solo dopo che avevo incominciato a scrivere poesie in quel dialetto. L’ho imparato per una sorta di mistico atto d’amore, qualcosa come il félibrisme dei poeti provenzali dell’Ottocento. Le mie prime poesie in friulano le scrissi intorno ai diciassette anni, e la ragione di questa scelta fu abbastanza curiosa. Come sa, allora era in voga in Italia l’ermetismo, una specie di corrente provinciale del simbolismo. L’influenza maggiore era quella di Mallarmé; la poesia simbolista fu ampiamente coltivata in Italia, in particolare da Ungaretti (anche Rilke vi ebbe una certa parte). L’unico a seguire la strada di poeti più importanti, più europei, come Eliot e Pound, fu Montale, che rappresenta una specie di ermetismo marginale.
L’idea di base della poesia ermetica era questa: il linguaggio della poesia è un linguaggio assoluto. In realtà, esistono un linguaggio poetico e uno prosastico in qualsiasi contesto letterario, ma inconsapevolmente gli ermetici esageravano con questo assunto, adottando per la poesia un linguaggio suo proprio ed esclusivo, e portando questa posizione alle estreme conseguenze, col risultato di una totale incomprensibilità, di una totale assenza di comunicazione. Come linguaggio speciale per la poesia io adottai il friulano, ed era l’esatto contrario di ogni tendenza al realismo. Era il massimo dell’irrealismo, il massimo dell’oscurità. Una volta stabilito, tuttavia, il contatto con il dialetto, questo ebbe effetti inevitabili, anche se in origine l’avevo scelto per ragioni puramente letterarie. Non appena l’ebbi adottato, mi resi conto di essere approdato a qualcosa di vivo, di reale, ciò che ebbe l’effetto di un boomerang. Fu attraverso il friulano che incominciai a capire qualcosa del vero mondo contadino. Naturalmente, da principio lo capii in maniera imperfetta, estetizzante. Fondai una piccola accademia di poesia friulana da cui uscirono alcuni dei migliori giovani poeti del dopoguerra; ma era un tipo di «comprensione» misticizzante e «poetizzante», qualcosa come i félibres provenzali. Tuttavia una volta fatto questo passo non potei più fermarmi e così incominciai a usare il dialetto non come strumento estetico-ermetico, ma sempre più come elemento oggettivo e realistico: il che ha raggiunto il culmine nei miei romanzi, nei quali il dialetto romanesco viene usato in modo esattamente contrario a quello in cui agli inizi avevo usato il friulano.
Jon Halliday – Quando era studente, sentiva molto il peso del fascismo?
Pier Paolo Pasolini – No, perché ero nato nell’era fascista, in un mondo fascista, e non mi accorgevo del fascismo, come un pesce non si accorge di trovarsi nell’acqua. Questo, quando ero bambino. Ma verso i quattordici-quindici anni smisi di leggere racconti d’avventura e di recitare le mie avemarie; diventai agnostico e incominciai a coltivare le prime ambizioni letterarie; mi diedi alla lettura dei primi autori seri, Dostoevskij e Shakespeare. Contemporaneamente si manifestò una frattura fra me e la società, ma il mio antifascismo era di carattere esclusivamente culturale. Non appena ebbi cominciato a leggere autori come Dostoevskij e Shakespeare, e poi poeti come Rimbaud e gli ermetici, esponenti di una cultura che il regime disapprovava e respingeva, mi sentii al di fuori della società (o fui io che cominciai inconsciamente a sfidarla). Fu la conseguenza dell’aver letto quei poeti. Come per i contadini e per il friulano, mi ci volle solo un momento per rendermi conto di essere all’opposizione. Inizialmente, la mia opposizione era qualcosa di ingenuo, si poneva solamente sul piano delle idee; pensavo che fosse giusto e normale discutere le cose e quando parlavo di qualche argomento letterario in pubblico, ai GUF o a qualcuna di quelle riunioni pseudoculturali che i fascisti organizzavano di tanto in tanto, discutevo apertamente e ingenuamente, senza nemmeno capire che era un atto di ribellione. Poi, man mano, me ne resi conto e passai dalla parte della Resistenza.
Jon Halliday – Tutto quel girare da un posto all’altro quando era ragazzo dev’essere stato abbastanza sconcertante: quanti anni aveva quando ha trovato per la prima volta una «fissa dimora» e ha potuto farsi degli amici con cui discutere regolarmente?
Pier Paolo Pasolini – Bologna è stata la prima città dove ho trovato un vero ambiente culturale. Lì ho frequentato il liceo e ho incominciato l’università. Mi ci sono fatto alcuni degli amici più stretti come Francesco Leonetti e Roberto Roversi. Anni dopo fondammo insieme la rivista «Officina» e nacquero sodalizi duraturi. Pure a Bologna conobbi Roberto Longhi, con il quale avrei dovuto fare la mia tesi di laurea in storia dell’arte, ma durante la guerra persi tutti i miei appunti e dovetti cambiare tesi. Comunque fu a Bologna che ebbi i primi contatti decisivi.
Poi vi fu il lungo soggiorno in Friuli durante la guerra, dove andammo sfollati per evitare i bombardamenti su Bologna (mio fratello morì in Carnia combattendo con i partigiani). Il Friuli è stato dunque il mio secondo ambiente formativo, anche se era piuttosto artificioso avendolo io scelto ed eretto a una sorta di luogo ideale per la poesia e per le mie fantasticherie estetizzanti, mistiche. Fu comunque importante per me, e in particolare fu lì che diventai un marxista, in modo alquanto insolito.
Come le ho detto, feci la scoperta oggettiva dei contadini friulani attraverso l’uso assolutamente soggettivo del loro dialetto. Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia, mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx e alcuni dei pensatori marxisti. Per questa ragione il Friuli ha avuto molta importanza per me. Ma il luogo dove ho lavorato più a lungo è Roma: ci sono venuto nel 1950, e da allora sono sempre vissuto qui.
Jon Halliday – Su che cosa stava preparando la sua tesi con Longhi? E come mai perse il materiale?
Pier Paolo Pasolini – Avrei dovuto farla sulla pittura italiana contemporanea, e avevo già preparato brevi capitoli su Carrà, De Pisis e Morandi. Quello che capitò fu che portai quelle carte con me quando fui chiamato sotto le armi nel 1943. Ero soldato da una settimana appena quando, l’8 settembre, fu annunciato l’Armistizio. Persi il materiale per la tesi perché era in caserma quando fummo fatti prigionieri: due tedeschi con un carro armato catturarono l’intero nostro reggimento. Io e un amico, che eravamo le persone meno «militari» di tutto il reparto, compimmo, senza saperlo, la nostra prima azione di resistenza: invece di consegnare le armi ai tedeschi, le gettammo in un fosso, e poi quando si sentì una raffica di mitragliatrice ci buttammo noi stessi nel fosso, aspettammo che il reggimento se ne fosse andato e ce la svignammo. Fu l’inizio, del tutto istintivo e involontario, della mia resistenza.
Jon Halliday – Come mai in seguito decise di fare la tesi sul Pascoli?
Pier Paolo Pasolini – Scelsi Pascoli perché era un poeta molto vicino ad alcuni dei miei interessi di quel periodo, e perché era vicino al mondo dei contadini friulani. I personaggi del Pascoli, i suoi ambienti, i suoi bambini, gli uccelli e tutto il resto, il suo mondo magico e fortemente artificiale, ingannevolmente ingenuo: erano tutte cose vicine al mio gusto. Inoltre, non erano tempi in cui si potesse fare una tesi su qualche poeta più moderno; insomma, scelsi il male minore. Non posso dire che ero estremamente interessato al Pascoli, però interessato lo ero. Inoltre, in fondo Pascoli è il precursore di Montale da una parte, e dei crepuscolari dall’altra: è un ramo importante della letteratura italiana. Cinque o sei anni fa la sorella di Pascoli ha pubblicato una sua biografia dalla quale emerge che fu un vero mostro, moralmente e psicologicamente parlando. Perciò non sorprende il fatto che abbia avuto una parte così importante nella poesia italiana.
Jon Halliday – Per tornare al marxismo: da quanto ha detto sembra che vi sia giunto attraverso l’adesione al Partito Comunista, e non attraverso il processo contrario, cosa forse un po’ strana per un intellettuale. Come è avvenuto? Si è effettivamente iscritto al PCI? E grosso modo quando e in che modo ha studiato il marxismo come scienza?
Pier Paolo Pasolini – Sì, in un certo senso ha ragione a dire che prima ho aderito al comunismo e poi ho abbracciato il marxismo, ma occorre rettificare la frase dicendo che prima ho militato coi comunisti e poi ho aderito al marxismo. Deve tenere in mente che l’Italia si trovava, e ancora si trova, in una posizione alquanto anomala nel quadro dell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è del tutto scomparso nei maggiori Paesi industriali, come la Francia e l’Inghilterra (lì non si può più parlare di una classe contadina nel senso classico del termine), in Italia esso sopravvive ancora, pur avendo subito un declino negli ultimi anni. Nell’immediato dopoguerra i contadini vivevano ancora in un mondo loro proprio, come uno o due secoli fa. Mia madre, ai suoi tempi, doveva ancora andare a letto a lume di candela. Il mio rapporto col mondo contadino è diretto, immediato: quasi tutti noi italiani abbiamo almeno un nonno contadino nel senso letterale della parola. Ora, quei comunisti friulani erano contadini, e ciò ha avuto molta importanza. Forse, se si fosse trattato di comunisti appartenenti alla classe operaia urbana, il fattore classe sarebbe stato troppo forte per i miei gusti, e vi avrei resistito; ma non ho potuto farlo nei confronti dei comunisti contadini, che sono poi quelli che fanno le rivoluzioni, in Russia, a Cuba, in Algeria, anche se le fanno in modo pre-classista (il che suona poco ortodosso in bocca a un comunista): forse è questa la ragione della simbiosi stranamente ambigua, oltre che poetica, fra i contadini del terzo mondo e gli studenti di qui.
Ecco il punto principale: una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista. Ma deve tener presente che ogni italiano è marxista, così come ogni italiano è cattolico. Il prete intelligente analizza sempre la società in termini marxisti, lo fa perfino il Papa. Una frase usata da Paolo VI che misi nel mio Uccellacci e uccellini fu creduta da tutti una frase di Marx. Il marxismo è parte della cultura italiana. Io mi iscrissi al Partito nel 1947 e ne fui membro fino al 1948, ma al momento di rinnovare la tessera diciamo che non mi curai di farlo.
Jon Halliday – Una volta lei ha detto che ci fu qualche speranza di una critica marxista nella cultura italiana durante i primi tempi di pubblicazione del «Politecnico», poi venne lo stalinismo, poi un periodo di rinnovata speranza con la diffusione di Lukács e di altri scrittori marxisti eterodossi. Qual è stato il suo rapporto con «Il Politecnico»? E come inquadrerebbe lo stalinismo? Stando ai suoi commenti non si direbbe che lei lo faccia risalire all’immediato dopoguerra.
Pier Paolo Pasolini – Non ho avuto alcun rapporto con «Il Politecnico» perché a quell’epoca ero a Casarsa, un paesotto sperduto, mentre «Il Politecnico» si faceva a Milano e a Firenze. L’ho vissuto solo come un’esperienza indiretta.
È un luogo comune, quello che vi fossero grandi speranze per il comunismo in Italia, in quel periodo. Lo dicevano tutti, ed è un po’ imbarazzante ripeterlo. Comunque, lo stalinismo ha avuto in Italia un carattere particolare: quello di essere indistinguibile dalla politica di Togliatti. Non voglio accusare Togliatti di aver partecipato ai crimini di Stalin – su questo sospendo ogni giudizio; è compito degli storici –; spero solo che a occuparsene siano degli storici marxisti, e che se ci sarà qualche cosa di grave da dire, sia detta da loro. Ma lo stalinismo in Italia ha assunto la forma della politica di Togliatti, che era tatticistica, diplomatica, autoritaria e paternalistica. La dirigenza del PCI ha sempre avuto verso la base del Partito un atteggiamento paternalistico, senza mai andare al fondo dei problemi, manovrando e trattando con il nemico politico (come accadde per il Concordato). Sono sempre stato contrario alla politica di Togliatti. Di Stalin non sapevo nulla: d’istinto pensavo che quanto sentivo dire di lui fossero pure calunnie; per cui il mio antistalinismo risulta un po’ curioso, essendo derivato dal mio atteggiamento critico verso la politica togliattiana seguita dal Partito Comunista.
Jon Halliday – Potrebbe dire qualcosa a proposito di Gramsci, tanto più che lei è stato, diciamo, «accusato» di essere un gramsciano? Quando ha letto Gramsci per la prima volta? Ha esercitato un forte influsso su di lei?
Pier Paolo Pasolini – Quando prima ho parlato delle mie letture di autori marxisti, il più importante di tutti, anche dello stesso Marx, è stato Gramsci. Naturalmente, Marx mi è riuscito piuttosto difficile alla lettura, e a parte questo l’ho trovato alquanto distante da me per varie ragioni. Mentre, invece, le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me. Lo lessi per la prima volta nel periodo 1948-49.
Jon Halliday – Crede di poter definire Gramsci un populista? E che senso avrebbe per lei il farlo?
Pier Paolo Pasolini – No, non credo che si possa. Anche se vorrei dire, prima di tutto, che non annetto alcun significato peggiorativo alla parola «populista». La adoperano i moralisti marxisti, insieme con il termine «umanitarismo», per condannare i tipi di marxismo diversi dal loro. Non sono assolutamente d’accordo. Per me, populismo e umanitarismo sono due fatti storici reali: tutti gli intellettuali marxisti hanno radici borghesi; l’impulso a diventare marxista può solo essere di tipo populista o umanitario, per cui questo fattore si trova inevitabilmente in tutti i marxisti borghesi, compreso Gramsci. Io non lo giudico un fattore negativo; rientra semplicemente nell’inevitabile transizione dalla classe borghese in cui si è nati e si è stati plasmati all’adozione di una diversa ideologia, l’ideologia di una diversa classe sociale.
Jon Halliday – Lei ha detto da qualche parte che a parte le maggiori città d’Italia tutto il resto del Paese, che è una sola grande provincia, è permeato dal cattolicesimo della Controriforma. E tuttavia lei sembra riporre le sue speranze proprio in quella parte d’Italia che dice essere stata la più soggetta all’influenza della Controriforma: l’Italia rurale. Come è giunto a questa conclusione paradossale?
Pier Paolo Pasolini – Sono un po’ sorpreso per questa domanda, poiché non credo di aver mai detto qualcosa del genere: che mi aspettavo molto dal cattolicesimo della Controriforma. O, se mai l’ho detto, era in senso ironico. Ma voglio ammettere di averlo detto, perché ora che me ne parla mi rendo conto che potrei averlo detto. Per le seguenti ragioni: il movimento protestante nell’Europa settentrionale fu la prima rivoluzione borghese. Lutero fu il primo grande eroe della borghesia. In Italia, la prima rivoluzione borghese non c’è mai stata. Mentre nell’Europa settentrionale il protestantesimo diventò la religione della nuova borghesia, in Italia la borghesia non emerse allo stesso modo, facendo la sua prima rivoluzione: la borghesia italiana è nata per forza d’inerzia, diciamo, attraverso l’imitazione passiva delle borghesie europee. E poi non fece nemmeno la seconda rivoluzione, quella liberale. Per cui venne a formarsi una borghesia in stridente contraddizione con le tradizioni del Paese: una borghesia deve essere protestante e liberale; in Italia nacque nel mondo della Controriforma, un mondo di contadini. E quindi da noi si notano tali profonde contraddizioni. In realtà, la borghesia italiana è stranissima: è simultaneamente laica e cattolica, liberale e controriformistica, ossia non è niente. Il qualunquismo è in sostanza la conseguenza di queste contraddizioni, insieme con la degenerazione dell’umanesimo che ne è il principale ingrediente.
Ora, a questo punto della storia, la classe contadina si sta risvegliando dappertutto. Sono stati i contadini a fare le rivoluzioni, sono diventati loro i protagonisti di uno dei massimi eventi della storia contemporanea: l’emergere del terzo mondo. Anche la fascia contadina italiana sta diventando rivoluzionaria. Cosa abbastanza sorprendente, la nuova sinistra in Italia sta spuntando sul terreno più contadino e cattolico, un terreno che a prima vista potrebbe sembrare il più conservatore. Don Milani è l’esempio più ovvio di un tipo di nuova sinistra che si avvicina alla Rivoluzione Culturale in Cina; don Milani è venuto dall’estrema periferia, da un paesetto sperduto sugli Appennini. Perciò, anche se in realtà non l’ho mai detto prima, sono pronto a dirlo ora; sì, è proprio dal mondo contadino italiano della Controriforma che oggi viene il maggior impulso per la sinistra.
Jon Halliday – Per cui politicamente dovrebbe sentirsi ottimista.
Pier Paolo Pasolini – Ottimista per quanto riguarda certe piccole minoranze di cattolici di estrazione contadina, che potranno riservare delle belle sorprese, come don Milani. Ma obiettivamente quello che accade è che il Nord sta colonizzando il Sud e trasformando i contadini in piccoli borghesi, in consumatori. L’Italia nel suo insieme si sta avviando a diventare una società consumistica, un orribile mondo piccoloborghese, e perciò il mio sprazzo di ottimismo viene sepolto dal più profondo pessimismo.
Jon Halliday – Ma il fatto che la borghesia non sia mai riuscita a imporsi in Italia come classe egemone, che sia una tale nullità, stando a quello che dice, non dovrebbe lasciare maggiore spazio alla contestazione? Non ho ancora ben compreso quale sia la sua posizione politica nei confronti delle varie classi della società italiana, cosa importante da capire perché i suoi scritti e i suoi film denotano una forte attenzione al contesto sociale. Qual è la sua sociologia politica, in sostanza?
Pier Paolo Pasolini – Questa è una domanda impossibile, particolarmente nel mio caso. In parte vi ho già risposto quando ho parlato dei braccianti friulani e quando ho detto che appartenevo alla tipica piccola borghesia italiana. Sociologicamente, la mia posizione non è molto convenzionale, e in realtà non è neppure definibile. Ha una base emozionale che probabilmente nasce dalla fanciullezza e dal conflitto con mio padre e con l’insieme della società piccoloborghese. Il mio odio per la borghesia non è documentabile né passibile di discussione. C’è e basta. Non è però una condanna moralistica; è una condanna totale e senza indulgenze, ma è basata sulla passione, non sul moralismo. Il moralismo è una malattia tipica di parte della sinistra italiana, che ha immesso atteggiamenti moralistici del tutto borghesi nell’ideologia marxista, o quanto meno comunista.
Quanto all’altra classe popolare, la classe operaia, ho avuto con essa un rapporto molto difficile, inizialmente romantico, populista e umanitario. Quando si nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo, naturalmente il mio fu messo in crisi. Quando mi accorsi che i contadini friulani esistevano e che la loro psicologia, educazione, mentalità, anima, sessualità erano del tutto diverse, il mio mondo si infranse; non potevo più amare l’élite borghese e contemporaneamente odiare la borghesia; nacque un nuovo modo di sentire, quello di partecipare dall’esterno, anche se la cosa era autentica e convalidata dall’amore genuino che portavo ai lavoratori, e particolarmente ai contadini.
Non ho mai conosciuto da vicino la classe operaia perché nelle città in cui ho abitato da bambino e da ragazzo conoscevo solo quelli che venivano a scuola con me, che erano tutti di famiglia borghese. Poi andai a Casarsa, dove conobbi dei contadini, ma non degli operai. Da lì venni direttamente a Roma, che non è una città operaia. Diciotto anni fa, quando vi giunsi, qui l’industria non esisteva. Ora c’è una strana fabbrichetta sulla via Tiburtina. Ma fondamentalmente Roma è una città burocratica, amministrativa e turistica, quasi una città coloniale. Ciò che trovai qui, e che risultò essere un’esperienza estremamente vitale dal punto di vista sociologico, fu il contatto con il sottoproletariato romano. Per la prima volta mi gettai in un mondo socialmente del tutto diverso da quello cui ero abituato, che mi costrinse a essere obiettivo nei suoi confronti, mi costrinse a farne una diagnosi marxista.
I braccianti friulani, pur essendo più poveri di me economicamente e intellettualmente, in fondo appartenevano al mio stesso mondo, perché la piccola borghesia ha le proprie radici nell’agricoltura. Il rapporto fra un bracciante friulano e me era quasi come quello tra fratello e fratello; non vi era un solco incolmabile tra mia madre e il contadino friulano. Ma nel caso del sottoproletariato romano mi trovavo davanti a un mondo completamente diverso. Da una parte ne restai traumatizzato, proprio come un inglese può restare traumatizzato venendo in Italia e trovandosi davanti a qualcosa di assolutamente inatteso; dall’altra, fui costretto a una diagnosi obiettiva. Così, mentre in principio avevo usato il dialetto per ragioni soggettive, come linguaggio puramente poetico, quando venni a Roma, al contrario, presi a usare il dialetto del sottoproletariato locale in maniera oggettiva, per arrivare alla descrizione più esatta possibile del mondo che avevo di fronte.
Jon Halliday – Questo è stato solo uno dei molti cambiamenti di rotta che ha fatto nella sua carriera. Una volta lei ha detto che una educazione letteraria mette in pericolo l’intera esistenza di un uomo in quanto scrittore. Che cosa intendeva dire?
Pier Paolo Pasolini – Lei è proprio come una Furia, a rammentarmi cose che avevo dimenticate. Credo di aver voluto dire semplicemente che le prime poesie che uno legge restano indimenticabili. Ricordo ancora con emozione Macbeth e L’idiota di Dostoevskij; sono un fattore importante nella mia vita, come Rimbaud. Volevo dire che sono più che qualcosa di meramente culturale, che sono qualcosa di esistenziale all’interno della cultura. Talvolta la cultura può provocare sensazioni altrettanto forti di quelle provocate dalla natura; queste sensazioni vanno a formare la psicologia di una persona. E quando questa è formata, è difficile cambiarla: può evolversi, magari, ma resta sempre un fondamento fisso, ineliminabile. Credo di aver voluto dire questo e niente di più.
Jon Halliday – Scrivendo della sua poesia, due critici hanno pronunciato giudizi del tutto opposti: Franco Fortini ha detto che lei ha apportato tutta la potenza espressiva della poesia moderna a un contenuto ideologico che può esser dato per scontato. Alberto Asor Rosa ha detto invece che la sua formula è una nuova ideologia che si innesta su forme tradizionali. Perché crede che abbiano espresso opinioni così contraddittorie?
Pier Paolo Pasolini – Per me, entrambi hanno torto... e ragione. Sono giustificabili tutti e due. Io non sono un inventore di ideologie. Non sono un pensatore e non ho mai aspirato a esserlo. A volte, entro il contesto di un’ideologia mi viene qualche intuizione, e così mi è capitato di precedere gli ideologi di professione. E stilisticamente sono un pasticheur. Adopero il materiale stilistico più disparato: poesia dialettale, poesia decadente, certi tentativi di poesia socialista; c’è sempre nei miei scritti una contaminazione stilistica, non ho uno stile personale, mio, completamente inventato da me, benché possegga uno stile riconoscibile. Se lei legge una mia pagina, non stenta a riconoscerla come mia. Non sono riconoscibile perché inventore di una formula stilistica, ma per il grado di intensità al quale porto la contaminazione e la commistione dei differenti stili. Non hanno ragione né l’uno né l’altro, poiché quello che conta è il grado di violenza e di intensità, e ciò investe sia la forma sia gli stili, nonché l’ideologia. Quello che conta è la profondità del sentimento, la passione che metto nelle cose; non sono tanto né la novità dei contenuti, né la novità della forma.
Jon Halliday – Il problema di quella che lei chiama «contaminazione» è in parte collegato con i problemi specifici dell’italiano come lingua. Vorrebbe dirmi come si è evoluto il suo pensiero circa l’italiano come mezzo espressivo durante il suo passaggio dalla poesia ai romanzi e quindi al cinema?
Pier Paolo Pasolini – In primo luogo, vorrei dire che la mia natura di pasticheur (pasticheur per passione, cioè, non per calcolo) è constatabile nel cinema come nelle altre forme espressive. Se lei vede un piccolo brano di un mio film, può capire che è mio dal tono. Non è, diciamo, come accade per Godard o Chaplin, che si sono inventati uno stile completamente loro. Il mio è fatto di vari stili. Ci si può sempre avvertire, sotto sotto, il mio amore per Dreyer, Mizoguchi, Chaplin, qualcosa di Tati eccetera eccetera. Fondamentalmente la mia natura non è mutata nel passaggio dalla letteratura al cinema.
Le mie idee circa il rapporto fra lingua italiana e cinema le ho esposte assai meglio di quanto non potrei fare adesso nei saggi che ho scritto sull’argomento, ma molto semplicemente diciamo questo: in principio, ho creduto che il passaggio dalla letteratura al cinema comportasse un semplice cambiamento di tecnica; e io ho cambiato tecniche abbastanza spesso. Poi man mano, lavorando nel cinema, entrandoci dentro sempre di più, sono arrivato a capire che il cinema non è una tecnica letteraria; è un linguaggio a sé stante. La prima idea che mi venne in mente fu che, d’istinto, avevo abbandonato il romanzo e gradualmente anche la poesia in segno di protesta contro l’Italia e la società italiana. Ho detto varie volte che mi piacerebbe cambiare nazionalità, rinunciare all’italiano e adottare un’altra lingua; e fu così che mi colpì come una folgorazione l’idea che il linguaggio cinematografico non è una lingua nazionale, ma piuttosto quella che definirei «transnazionale» (non «internazionale», ché questo termine è ambiguo) e «transclassista»: cioè, un operaio o un borghese, un abitante del Ghana o un americano, usando il linguaggio cinematografico usano tutti un sistema di segni comune. In principio pensai che fosse una forma di protesta contro la mia società. Poi gradualmente mi resi conto che le cose erano anche più complicate: la passione che aveva assunto la forma di grande amore per la letteratura e per la vita si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sessuale, oggettuale ed esistenziale attorno a me. Questo è il mio primo, unico grande amore e in un certo qual modo il cinema mi ha costretto a rivolgermi a esso e a esprimerlo in forma esclusiva.
Come è avvenuto? Studiando il cinema come sistema di segni, sono giunto alla conclusione che è un linguaggio non simbolico e non convenzionale, a differenza della lingua parlata o scritta, ed esprime la realtà non per mezzo di simboli ma attraverso la realtà stessa. Quindi il problema è questo: quale differenza esiste fra cinema e realtà? Praticamente nessuna. Capii che il cinema è un sistema di segni la cui semiologia corrisponde a una possibile semiologia del sistema di segni della stessa realtà. Così il cinema mi ha obbligato a restare sempre al livello della realtà, «dentro» la realtà: quando faccio un film sono sempre dentro la realtà, fra gli alberi e fra la gente come me e lei; non c’è fra me e la realtà il filtro del simbolo o della convenzione, come c’è nella letteratura. Quindi in pratica il cinema è stato un’esplosione del mio amore per la realtà.
Jon Halliday – Vorrei fare un deciso passo indietro e domandarle come ha incominciato, nel cinema. Ha dichiarato che da bambino aveva pensato di fare dei film, ma poi aveva abbandonato l’idea. Quale fu il primo film che vide? Le fece una grande impressione?
Pier Paolo Pasolini – Sfortunatamente, non ricordo quale fu il primo film che vidi perché ero troppo piccolo. Ma posso dirle del mio primo rapporto con il cinema, a cinque anni, per quello che ne ricordo. Fu una cosa strana e conturbante, e certo con un risvolto erotico-sessuale. Ricordo che guardavo un dépliant pubblicitario reclamizzante un film, in cui era raffigurata una tigre che faceva a brani un uomo. Ovviamente, la tigre stava sopra l’uomo, ma per qualche ignota ragione a me, nella mia fantasia di bambino, sembrava che la tigre avesse già mezzo ingoiato l’uomo, e che l’altra metà le pendesse di tra le zanne. Desideravo ardentemente andare a vedere quel film, ma naturalmente i miei genitori non mi ci portarono, cosa che risento con amarezza ancor oggi. Così, quell’immagine della tigre che divorava l’uomo, immagine masochistica e forse cannibalesca, è la prima cosa che mi è rimasta impressa; anche se naturalmente vidi anche altri film a quell’epoca, ma non riesco a ricordarli.
Poi, quando avevo sette o otto anni e abitavo a Sacile, andavo a un cinematografo parrocchiale, e ricordo ancora brani dei film muti che vidi in quella sala; ricordo ancora il passaggio dal muto al sonoro: il primo film parlato che vidi era un film di guerra.
Tanto basta, per la mia preistoria cinematografica. Più avanti, quando fui a Bologna, mi iscrissi a un cineclub e vidi alcuni classici: tutto René Clair, i primi Renoir, qualche Chaplin e così via. Fu allora che nacque il mio grande amore per il cinema. Ricordo di aver partecipato a un concorso indetto dal GUF locale con un folle pezzo dannunziano, completamente barbarico e sensuale. Poi la guerra fermò tutto. E dopo la guerra arrivò il neorealismo. Ricordo di essere andato apposta da Casarsa a Udine per vedere Ladri di biciclette, e soprattutto Roma città aperta, che vidi su in Friuli e fu per me una scossa che ancora ricordo con emozione. Ma quei film erano remoti oggetti culturali, per me che vivevo in provincia, come lo erano i libri e le riviste che mi facevo mandare. Poi venni a Roma, senza pensare affatto a un mio ingresso nel mondo cinematografico, e quando scrissi il primo romanzo, Ragazzi di vita, alcuni registi mi chiesero di preparare delle sceneggiature. Il primo fu Mario Soldati, per un vecchio film con Sophia Loren intitolato La donna del fiume. Scrissi quella sceneggiatura con Giorgio Bassani. Poi vi fu Le notti di Cabiria con Fellini, e poi parecchie altre, così che il desiderio di fare dei film, naturalmente, mi tornò.
Jon Halliday – A quanto pare, lei ha lavorato per registi con i quali ha poco in comune, persone come Bolognini, ad esempio. E non mi sembra che abbia molto in comune neppure con Fellini. L’unico con cui condivide molte idee sul cinema è, palesemente, Rossellini, eppure non ha mai lavorato con lui. Perché mai?
Pier Paolo Pasolini – Ragioni puramente pratiche. Quando arrivai a Roma ero completamente squattrinato. Non avevo un lavoro, e passai un anno nella miseria più nera: a volte non avevo nemmeno i soldi per andare dal barbiere, ad esempio, quindi può capire che ero proprio malridotto. Poi trovai un posto come insegnante in una scuola a Ciampino, e andai ad abitare a Ponte Mammolo, che è una borgata alla periferia di Roma. Dovevo fare un viaggio terribilmente lungo, e guadagnavo soltanto 27.000 lire al mese. Quando uscì il mio primo romanzo incominciai a racimolare qualche soldo in diritti d’autore, ma avevo ancora estremo bisogno di un lavoro che mi consentisse di vivere, e per questo mi misi a fare lo sceneggiatore. Naturalmente, non potevo certo scegliere con chi lavorare; era il contrario, caso mai. Ma sono stato molto fortunato, e ho sempre potuto lavorare con gente come si deve. Benché fosse tutto lavoro su commissione, mi sembra che alcune di quelle sceneggiature (come La notte brava) siano tra le migliori cose letterarie che abbia mai fatto: ne ho poi raccolto alcune in Alì dagli occhi azzurri.
Jon Halliday – Che parte ha avuto nelle Notti di Cabiria?
Pier Paolo Pasolini – Ho scritto tutte le parti della malavita. Siccome in Ragazzi di vita c’erano personaggi del genere, Fellini pensò che io conoscevo quel mondo, come in realtà lo conoscevo per aver abitato a Ponte Mammolo, dove vive un mucchio di sfruttatori e ladruncoli e puttane; tutta l’ambientazione, e i rapporti di Cabiria con le altre prostitute, e in particolare l’episodio del Divino Amore sono stati fatti da me: la storia è raccontata in Alì dagli occhi azzurri. La mia principale collaborazione fu per i dialoghi, che sono andati un po’ sprecati perché l’uso che Fellini fa del dialetto è alquanto diverso dal mio. In sostanza, però, la prima stesura del dialogo e almeno metà dell’episodio sono mie.
Jon Halliday – Ha lavorato molto con Bassani: come vi siete conosciuti?
Pier Paolo Pasolini – Siamo molto amici e abbiamo lavorato molto insieme. Conobbi Bassani quando dirigeva «Botteghe Oscure». Andavo da lui per motivi professionali, e col tempo diventammo grandi amici. Scrivevo per la sua rivista, ed entrambi ammiravamo il lavoro dell’altro.
Jon Halliday – A parte il periodo in cui scriveva sceneggiature per vari registi, non c’è nulla da domandarle sui suoi collaboratori, visto che a quanto pare i suoi film li ha fatti tutti da solo. Ha avuto dei disappunti per le manomissioni dei suoi testi da parte di altri registi?
Pier Paolo Pasolini – No, un regista ha il diritto di fare questi cambiamenti. Ma se volessi descrivere certi ambienti, certe facce e gesti che sono stati trasformati rispetto a come li avevo immaginati io, allora, naturalmente, ci sarebbe un abisso da superare, a parte il mio antico desiderio di fare dei film. Quanto ai «miei» film, non ho mai pensato neppure lontanamente di farne uno che fosse opera di gruppo. Ho sempre concepito il film come opera di un solo autore, non solo della sceneggiatura e della regia, ma anche per quanto riguarda la scelta dei set, i personaggi, perfino i costumi. Io scelgo tutto, per non parlare della musica. Ho dei collaboratori, come Danilo Donati, il mio costumista; la prima idea l’ho io, ma non saprei come realizzarla, e così tutte queste cose le fa lui, estremamente bene, con gusto eccellente e con molto entusiasmo.
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