"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
Le belle bandiere
[«II Menabò», n. 6, Torino, 1963]
(oggi in Poesia a forma di rosa)
I sogni del mattino: quando
il sole già regna,
in una maturità
che sa solo il venditore ambulante,
che da molte ore cammina per le strade
con una barba di malato
sulle grinze della sua povera gioventù:
quando il sole regna
su reami di verdure già calde, su tende
stanche, su folle
i cui panni sanno già oscuramente di miseria
– e già centinaia di tram sono andati e tornati
per le rotaie dei viali che circondano la città,
inesprimibilmente profumati,
i sogni delle dieci del mattino,
nel dormente, solo,
come un pellegrino nella sua cuccia,
uno sconosciuto cadavere,
– appaiono in lucidi caratteri greci,
e, nella semplice sacralità di due tre sillabe,
piene, appunto, del biancore del sole trionfante –
divinano una realtà,
maturata nel profondo e ora già matura, come il sole,
a essere goduta, o a fare paura.
Cosa mi dice il sogno mattutino?
«il mare, con lente ondate, grandiose, di grani azzurri,
si abbatte, lavorando con furore uterino,
irriducibile,
e quasi felice – perché dà felicità
il verificare anche l’atto più atroce del destino –
sgretola la tua isola, che ormai
è ridotta a pochi metri di terra…»
Aiuto, avanza la solitudine!
Non importa se so che l’ho voluta, come un re.
Nel sonno, in me, un bambino muto si spaventa,
e chiede pietà, si affanna a correre ai ripari,
con un’agitazione
che «la virtù dismaga», povera creatura.
Lo atterrisce l’idea
di essere solo
come un cadavere in fondo alla terra.
Addio, dignità, nel sogno, sia pur mattutino!
Chi deve piangere piange,
chi deve aggrapparsi alle falde delle vesti altrui,
si aggrappa, e le tira, e le tira,
perché si voltino quelle faccie colore del fango,
e lo guardino negli occhi terrorizzati
per informarsi della sua tragedia,
per capire quanto sia spaventoso il suo stato!
Il biancore del sole, su tutto,
come un fantasma che la storia
preme sulle palpebre
col peso dei marmi barocchi o romanici…
Ho voluto la mia solitudine.
Per un processo mostruoso
che forse potrebbe rivelare
solo un sogno fatto dentro un sogno…
E, intanto, sono solo.
Perduto nel passato.
(Perché l’uomo ha un periodo solo, nella sua vita.)
Di colpo i miei amici poeti,
che condividono come me il brutto biancore
di questi Anni Sessanta,
uomini e donne, appena un po’ più anziani
o più giovani – sono là, nel sole.
Non ho saputo avere la grazia
per tenermeli stretti – nell’ombra di una vita
che si svolge troppo attaccata
all’accidia radicale della mia anima.
La vecchiaia, poi, ha fatto
di mia madre e di me
due maschere
che nulla hanno peraltro perduto
della tenerezza mattutina
– e l’antica rappresentazione
si ripete
nell’autenticità
che solo sognando dentro un sogno,
potrei forse chiamare col suo nome.
Tutto il mondo è il mio corpo insepolto.
Atollo sbriciolato
dalle percosse dei grani azzurri del mare.
Cosa fare, se non, nella veglia, avere dignità?
È giunta l’ora dell’esilio,
forse: l’ora in cui un antico avrebbe dato realtà
alla realtà,
e la solitudine maturata intorno a lui,
avrebbe avuto la forma della solitudine.
E io invece – come nel sogno –
mi accanisco a darmi illusioni, penose,
di lombrico paralizzato da forze incomprensibili:
«ma no! ma no! è solo un sogno!
la realtà
è fuori, nel sole trionfante,
nei viali e nei caffè vuoti,
nella suprema afonia delle dieci del mattino,
un giorno come tutti gli altri, con la sua croce!»
Il mio amico dal mento di papa, il mio
amico dall’occhio marroncino…
i miei cari amici del Nord
fondati su affinità elettive dolci come la vita
– sono là, nel sole.
Anche Elsa, col suo biondo dolore,
lei – destriero ferito, caduto,
sanguinante – è là.
E mia madre mi è vicina…
ma oltre ogni limite di tempo:
siamo due superstiti in uno.
I suoi sospiri, qua, nella cucina,
i suoi malori a ogni ombra di degradante notizia,
a ogni sospetto della ripresa
dell’odio del branco di goliardi che ghignano
sotto la mia stanza di agonizzante
– non sono che la naturalezza della mia solitudine.
Come una moglie messa nel rogo col re,
o sepolta con lui
in una tomba che se ne va come una barchetta
verso i millenni – la fede degli Anni Cinquanta,
è qui con me, già leggermente oltre i limiti del tempo,
a farsi sgretolare anch’essa
dalla pazienza furibonda dei grani azzurri del mare.
E…
i miei amori di pura sensualità,
replicati nelle valli sacre della libidine,
sadica, masochista, i calzoni
con la loro sacca tiepida
dove è segnato il destino di un uomo
– sono atti che io compio solo
in mezzo al mare stupendamente sconvolto.
Piano piano le migliaia di gesti sacri,
la mano sul gonfiore tiepido,
i baci, ogni volta a una bocca diversa,
sempre più vergine,
sempre più vicina all’incanto della specie,
alla norma che fa dei figli teneri padri,
piano piano
sono divenuti monumenti di pietra
che a migliaia affollano la mia solitudine.
Attendono
che una nuova ondata di razionalità,
o un sogno fatto nel fondo di un sogno, ne parli.
Così mi desto,
ancora una volta:
e mi vesto, mi metto al tavolo di lavoro.
La luce del sole è già più matura,
i venditori ambulanti più lontani,
più acre, nei mercati del mondo, il tepore della verdura,
lungo viali dall’inesprimibile profumo,
sulle sponde di mari, ai piedi di vulcani.
Tutto il mondo è al lavoro, nella sua epoca futura.
Ma quel qualcosa di «bianco»
che a lettere greche
mi presentò, irrevocabile, il sogno conoscitore,
mi rimane addosso – vestito,
al tavolo di lavoro.
Marmo, cera, o calce
nelle palpebre, agli angoli degli occhi:
il biancore gioiosamente romanico,
perdutamente barocco, del sole nel sonno.
Di quel biancore fu il sole vero,
di quel biancore furono i muri delle fabbriche,
di quel biancore
fu la stessa polvere (nei pomeriggi secchi, quando
il giorno prima è un poco piovuto),
di quel biancore furono gli stracci di lana,
le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati
degli operai
che avrebbero potuto essere ancora partigiani:
di quel biancore
fu la calura della nuova primavera,
oppressa dal ricordo di altre primavere
sepolte da secoli
in quegli stessi sobborghi e paesi,
– e pronte, Dio!,
pronte a rinascere,
su quei muretti, su quelle strade.
Su quei muretti, su quelle strade,
imbevuti di strano profumo,
dove fiorivano rossi nel tepore
i meli, i ciliegi: e il loro colore rosso
aveva una brunitura, come
se fosse immerso in un’aria di caldo temporale,
un rosso quasi marrone, ciliege come prugne,
pometti come susine, che occhieggiavano,
tra le brune, intense
trame del fogliame, calmo, quasi la primavera
non avesse fretta,
volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo,
ardente, nella vecchia speranza, d’una nuova speranza.
E, su tutto, lo sventolio,
l’umile, pigro sventolio
delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull’altra, in una folla di tela
povera, rosseggiante, di un rosso vero,
che traspariva con la fulgida miseria
delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie
– e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto
per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d’un’immortale stagione!
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
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