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lunedì 17 gennaio 2022

Pier Paolo Pasolini, "I diseredati sono il nostro «Terzo Mondo»" - «Paese Sera», 23 marzo 1966

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

Paese sera marzo 1966


P. P. Pasolini

I diseredati sono il nostro «Terzo Mondo»

   «Paese Sera», 23 marzo 1966
oggi in Saggi sulla politica e sulla società

  
 Gentile Direttore,

   chiedo ospitalità su «Libri-Paese Sera» per queste due mie pagine, che dovevano essere introduttive al volume Alì dagli Occhi Azzurri e che all’ultimo momento ho soppresso. Il pretesto per la pubblicazione di queste due note, è un articolo di Salinari, uscito sull’«Unità» (12 marzo 1966), sul mio libro. Esso definisce molto bene Alì; solo alla fine Salinari annota: «... diremo sì al coraggio con cui Pasolini, in un momento in cui sembra che ci si debba interessare solo del neocapitalismo e dell’alienazione nei centri industriali, ci ricorda l’esistenza di tanta parte dell’umanità assillata da problemi diversi; diremo no al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione, e così via...». Ma io non ho mai fatto affermazioni di questo genere (ho detto qualcosa di simile solo nell’eccesso stilistico di qualche verso, che non va dunque preso alla lettera). Le due seguenti paginette serviranno, penso, a chiarire abbastanza esattamente la mia posizione sia davanti al «sì» che davanti al «no».
   Questi racconti, dal ’50 al ’65, finiscono, apparentemente, come sono cominciati. Racconti «da farsi» i primi, racconti «non fatti» gli ultimi. A differenza che nei racconti centrali, eseguiti nel cuore degli anni Cinquanta, nei primi e negli ultimi, le tecniche del «da farsi» e del «non fatto» servono a mascherare la difficoltà della ricerca neonaturalistica. Le ellissi coprono sopralluoghi e documentazioni rinviate. La tendenza «epica» - non comunque brechtiana - è ridotta alla sua suggestione; ai momenti in cui si propone e si forma, quindi ai suoi momenti lirici, all’amore per l’epica. Il «da farsi» come impossibilità di fare, nelle prime pagine del ’50, ’51, è dovuto a mancanza di massa d’esperienza: nella seconda fase (’64, ’65) a sfiducia nella massa d’esperienza: al superamento delle esperienze particolaristiche, nel senso che il dialetto di una zona italiana, non è più la scoperta in profondità di quella zona - come scoperta dell’Italia umile e contestazione alla lingua classicistica agraria e poi piccolo-borghese - ma l’annessione in superficie, di quella zona, a una serie di problemi la cui enorme quantità e complessità non consente che un’accumulazione estensiva. Il dialetto come «profondità» di una regione italiana, stinto come appare ora dalla presenza di più vasti problemi nazionali in direzione centralistica (il principio tecnologico unificatore di lingua, per pragmatica egemonia della classe industriale dell’asse Milano-Torino ecc. ecc.) ridiviene vivo se inserito nella problematica linguistica del Terzo Mondo. Cessa quindi il suo contributo «dal basso» all’unificazione reale dell’Italia, come presenza popolare e come affermazione della tensione rivoluzionaria delle classi lavoratrici (alloglotte, o almeno non italofone), e comincia piuttosto ad avere una nuova funzione: quella del rapporto dialettico «scandaloso» dei popoli arretrati o sottosviluppati con la razionalità dei centri del neocapitalismo, ponendo così in crisi il marxismo di fronte al problema dell’accezione di tale scandalosità (si sa che per la prassi marxista i sottoproletari e i contadini non sono che dei piccolo-borghesi). Un’unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli - resi di colpo ancora più arcaici dall’inserimento dell’Italia nello sviluppo europeo del neocapitalismo - con le tribù africane, rese meno arcaiche dalla loro partecipazione caotica, sia pure, alle guerre di liberazione nazionali (e sia pure piccolo-borghesi). Tutto il rapporto coi contadini, da Lenin compreso a Stalin e successori, si presenta come molto insoddisfacente. Il problema linguistico si presenterebbe dunque ora, in Italia, come irrisolvibile: si apre una specie di baratro davanti a chi constati il profondo mutamento dovuto all’attività, inconscia e involontaria, del principio tecnologico sul grande tessuto umanistico della lingua. Non c’è nulla da fare, davanti a una simile constatazione. Le predizioni millenaristiche che si verificano (effettivamente nel duemila finisce il mondo) sono una specie di fatalità brutale che disarma lo scrittore. I suoi interessi si sopiscono sopravvivendo uguali a se stessi, e si ridestano di soprassalto non più, quindi, come racconti «da farsi», traboccanti, ma come «racconti non fatti»: così come il balbettare di un bambino assomiglia solo nominalmente a quello del vecchio. È questo dunque un libro-testimonianza che comincia e finisce con dei balbettii - abbastanza dominati, tuttavia, se usati in funzione espressivo-espressionistica, attraverso il revival del gusto del frammento novecentesco, e con l’occhio ancora archeologicamente volto alle condanne degli anni Cinquanta. Esprimere i «contenuti», reali ma non espressi», del popolo come classe in lotta, non riesce più a essere un’operazione di «discorso libero indiretto» (e quindi di contaminazione col dialetto): mancano le condizioni non stilistiche, per esso, ma oggettive. Le esigenze, allora, quali sono? Rivivere un discorso «tecnologico»? Ma esso è inamalgamabile con una coscienza espressivo-umanistica: può essere semplicemente «citato» o «montato». E chiaro comunque che la sua presenza contesta e brutalmente mette fuori gioco non già il linguaggio precedente, ma tutti i linguaggi precedenti: ossia la civiltà umanistica.             L’anacronismo del materiale qui presentato non potrebbe presentarsi come una inconsueta, involontaria, ottusa prefigurazione di un rapporto ripreso, attraverso un progresso del pensiero marxista, con la sopravvivente cultura umanistica delle classi annaspanti dietro l’evoluzione del mondo industriale?

   Marzo 1965

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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