"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Oriana Fallaci, Lettera a Pier Paolo
L'Europeo del 14 novembre 1975
Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali ed appunti,
devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera
crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti
hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane,
le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ho
messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no.
Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e
rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare.
Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più
o meno, così: «Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo
scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo,
mai. Non voglio sapere cosa v’è dentro la pancia di
una donna. Mi
disgusta la maternità. Perdonami ma quel disgusto io me lo porto
dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse eran
sei, e udii mia madre sussurrare che…».
Non ti risposi. Cosa si risponde, scrivendo, a un uomo che piange la
sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’essere nato da un
ventre di donna? Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te
stesso, o meglio, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine
alla rabbia d’essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due
gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue. E
come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità? Le parole con
cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una
donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna
di prenderti fra le braccia, amarti. Quel nostro ventre da cui sei uscito
ti ha sempre riempito di orrore. Fuorché tua madre che veneravi
come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando
che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel
sangue, noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci
accettavi, era per pietà. Se ci perdonavi, era per volontà. E in ogni
caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’aver
colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso
che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te
era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la
sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.
Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio col sesso che
per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzacci dal volto privo di
intelligenza (tu che avevi il culto dell’intelligenza), dal corpo privo di
grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di
bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). In loro ti tuffavi, ti
umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano
infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi
bei film. Da loro sognavi d’essere ucciso prima o poi per compiere il
tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’io? Forse,
ma sei stato tu ad insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di
sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre
coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo,
scandaloso, pericoloso. Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il
cuore. Ed io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne
ad ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco
dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri
invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il
Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo. Avevi un
tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità.
Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spengere
la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che
detestavi la violenza. Col cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio
che bruciava in te. Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva,
invece, come un bisturi per estrarre l’angelo che era in te.
Io me ne accorsi fin dal primo incontro, quando ci conoscemmo a
New York: ormai dieci anni fa. E quel fatto mi impressionò più del
tuo genio esaltante, della tua cultura irritante, della tua fantasia
scatenata. Scappavi ogni notte nei quartieri dove neanche i poliziotti
osano entrare armati. Non ti stancavi mai di sfidare la turpitudine,
toccare l’orrendo, unirti ai relitti maschili dei drogati, degli invertiti,
degli ubriaconi. Sia che tu ti recassi nella Bowery o a Harlem o al
porto, eri sempre presente dove c’era il male e il pericolo. Rimbaud in
confronto diventava un’educanda. Quante volte ho temuto di sentirmi
dire che ti avevan trovato con la gola tagliata o una pallottola in
cuore. Una sera te lo confessai. Eravamo dinanzi al Lincoln Center e
cercavi un taxi per recarti in un posto che non volevi ammettere. Per
l’impazienza apparivi inquieto, tremavi. Mormorai: «Ti farai tagliare
la gola, Pier Paolo». E tu mi fissasti con occhi lucidi e tristi (erano
sempre tristi i tuoi occhi, anche quando ridevi), poi rispondesti
ironico: «Sì?». Ricordi, vero, quei giorni a New York. Venivi nel mio
appartamento, sedevi sul vecchio divano, chiedevi una Coca-Cola
(non ti ho mai visto ubriaco) e mi raccontavi di amare New York
perché era sporca, senz’anima. Di quella città straordinaria vedevi
soltanto la miseria morale, da ex-colonia dicevi, da sottoproletariato,
e una povertà che paragonavi alla povertà di Calcutta, Casablanca,
Bombay. Un pomeriggio esclamasti: «Mi dispiace di non esser venuto
qui prima, venti o trenta anni fa, per restarci. Non mi era mai
successo di innamorarmi così d’un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma
in Africa vorrei andare e restare per non ammazzarmi. Sì, l’Africa è
come una droga che prendi per non ammazzarti. New York invece è
una guerra che affronti per ammazzarti».
Eri giunto da Montréal col treno. Eri sceso a una stazione
sotterranea e non avevi trovato un facchino. Con le valigie che ti
stroncavano le braccia avevi percorso un tunnel, e in fondo al tunnel
c’era una luce accecante. La città t’aveva aggredito con la gloria di
un’apparizione: Gerusalemme che appare agli occhi di un crociato, dicesti. I grattacieli invece li vedevi come le Dolomiti, ed io ti
ascoltavo in preda alla paura: eri solo poeta o anche pazzo? Non
avevo mai pensato che New York potesse essere vista come
Gerusalemme e i grattacieli come le Dolomiti. Ma in cima a quei
grattacieli non volevi salire mai. Quante volte tentai di portarti
all’ultimo piano dell’Empire State Building! Ti promettevo: «È come
salire sulla vetta di un monte, il vento è pulito lassù». Mi opponevi
sempre una scusa: a te non interessava il vento pulito. Interessava la
laidezza della Quarantaduesima Strada, con le sue luci rosse da
inferno e i negozi che vendono pornografia. «Ieri, nella
Quarantaduesima, ho visto un uomo che stava morendo. In mano
aveva un pacchetto. L’ha fissato e poi l’ha scaraventato per terra con
collera tale che il pacchetto s’è rotto. Dopo l’uomo s’è appoggiato al
muro, è scivolato piano per terra ed è rimasto lì: a morire. Senza che
nessuno si fermasse a guardarlo, aiutarlo. Neanch’io. Ma è male
questo? È mancanza di pietà? Forse è una forma superiore di pietà.
Capisci, lasciare gli altri morire.»
Galeotto N. 3678
Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna
normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della
cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della
morte. Io così dura e tu così dolce. V’era una dolcezza femminea in te,
una gentilezza femminea. Anche la tua voce del resto aveva un che di
femmineo, e ciò era strano perché i tuoi lineamenti erano i lineamenti
di un uomo: secchi, feroci. Sì, esisteva una nascosta ferocia sui tuoi
zigomi forti, sul tuo naso da pugile, sulle tue labbra sottili, una
crudeltà clandestina. Ed essa si trasmetteva al tuo corpo piccolo e
magro, alla tua andatura maschia, scattante, da belva che salta
addosso e morde. Però quando parlavi o sorridevi o muovevi le mani
diventavi gentile come una donna, soave come una donna. Ed io mi
sentivo quasi imbarazzata a provare quel misterioso trasporto per te.
Pensavo: in fondo è lo stesso che sentirsi attratta da una donna. Come
due donne, non un uomo e una donna, andavamo a comprare pantaloni per Ninetto, giubbotti per Ninetto, e tu parlavi di lui quasi
fosse stato tuo figlio: partorito dal tuo ventre, e non seminato dal tuo
seme. Quasi tu fossi geloso della maternità che rimproveravi a tua
madre, a noi donne. Per Ninetto, in un negozio del Village, ti
invaghisti di una camicia che era la copia esatta delle camicie in uso a
Sing Sing. Sul taschino sinistro era scritto: «Prigione di Stato. Galeotto
numero 3678». La provasti ripetendo: «Deliziosa, gli piacerà». Poi
uscimmo e per strada v’era un corteo a favore della guerra in
Vietnam, ricordi? Tipi di mezza età alzavan cartelli su cui era scritto
«Bombardate Hanoi» e ci restasti male. Da una settimana ti affannavi
a spiegarmi che il vero momento rivoluzionario non era in Cina né in
Russia ma in America. «Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest e
avverti che lì la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere
una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino.
Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un
uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un
marxista come me possa scoprire. I rivoluzionari di qui fanno venire
in mente i primi cristiani, v’è in essi la stessa assolutezza di Cristo.
M’è venuta un’idea: trasferire in America il mio film su san Paolo.»
Della cultura americana assolvevi quasi tutto, ma quanto soffristi la
sera in cui due studentesse americane ti chiesero chi fosse il tuo poeta
preferito, tu rispondesti naturalmente Rimbaud, e le due ignoravano
chi fosse Rimbaud. Per questo lasciasti New York così insoddisfatto?
Io direi di no. Direi che lasciasti New York deluso perché non c’eri
morto, perché ti eri affacciato sulla voragine e non vi eri caduto. Le
notti trascorse in cerca del suicidio t’avevano reso soltanto le guance
più scarne, lo sguardo più febbricitante. Mi sento, dicesti, come un
bambino cui è stata offerta una torta e poi gliel’hanno sottratta
mentre stava per addentarla. Sì, avresti dovuto bere mille altre
amarezze prima di trovare qualcuno che ti facesse il dono di
ucciderti, regalarti una morte coerente dopo una vita coerente.
Dicono che tu fossi capace d’essere allegro, chiassoso, e che per
questo ti piacesse la compagnia della gioventù: giocare a calcio, ad
esempio, coi ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La
malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente. Se una persona
non era infelice, non ti interessava. Ricordo con quale affetto, un
giorno, ti chinasti su me e mi stringesti un polso e mormorasti:
«Anche tu, quanto a disperazione, non scherzi!». Forse per questo il
destino ci fece incontrare di nuovo, anni dopo. Fu a Rio de Janeiro,
dov’eri venuto con Maria Callas: in vacanza. I giornali scrivevano che
eravate amanti. Lo eravate? So che due volte, nella vita, hai provato
ad amare una donna: restandone deluso. Ma non credo che una di
queste due donne sia stata Maria. Eravate troppo diversi, troppo divisi
esteticamente e psicologicamente e culturalmente. Allo stesso tempo
però sembravate così uniti da una misteriosa complicità. Il mio
sospetto è che tu l’avessi adottata come una sorella, per farle
dimenticare l’abbandono di Onassis. Non ti staccavi mai da lei,
l’aiutavi perfino a vestirsi e a spogliarsi. Sulla spiaggia le ungevi le
spalle perché il sole non gliele arrossasse. Ai ristoranti subivi ogni suo
capriccio. Sempre indulgente, paziente, sereno come un infermiere di
Lambaréné. Sì, c’era in te l’eroismo del missionario che va a curare i
lebbrosi, la bontà del santo che subisce il martirio con gioia. Una sera
ne parlammo, sul mare di Copacabana, dentro un tramonto di rosa e
d’oro. Maria sonnecchiava sulla sabbia, fasciata in un costume da
bagno nero, io ti raccontavo delle torture con cui i brasiliani
seviziavano i prigionieri politici: il pau de arara, gli elettrochoc. Ma
ascoltavi malvolentieri, quasi ti irritasse turbare con tali discorsi un
tramonto di rosa e d’oro. Non mi rispondevi neanche. Solo quando ti
accorgesti che ciò mi feriva, ed io ti aggredii dicendo che allora non
eri sincero nelle tue proteste e nelle tue battaglie, eri solo un Narciso
che fingeva di battersi contro l’ingiustizia per esaudire la sua vanità,
ti mettesti a parlare di Gesù Cristo e di san Francesco.
Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di san
Francesco. Una volta mi hai parlato anche di sant’Agostino, del
peccato e della salvezza come li vedeva sant’Agostino. È stato quando
mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui sant’Agostino racconta
di sua madre che si ubriaca. Ed ho compreso in quell’occasione che
cercavi il peccato per cercar la salvezza, certo che la salvezza può
venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza. Però ciò che mi dicesti su Gesù Cristo e su
san Francesco, mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di
Copacabana, mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno
all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita. Non a caso l’ho
usato nel libro che non hai voluto leggere. L’ho messo in bocca al
bambino quando interviene al processo contro la sua mamma: «Non è
vero che non credi all’amore, mamma. Ci credi tanto da straziarti
perché ne vedi così poco, e perché quello che vedi non è mai perfetto.
Tu sei fatta d’amore. Ma è sufficiente credere all’amore se non si
crede alla vita?». Anche tu eri fatto d’amore. La tua virtù più
spontanea era la generosità. Non sapevi mai dire no. Regalavi a piene
mani a chiunque chiedesse: sia che si trattasse di soldi, sia che si
trattasse di lavoro, sia che si trattasse di amicizia. A Panagulis, per
esempio, regalasti la prefazione ai suoi due libri di poesie.
E, verso per verso, col testo greco accanto, volesti controllare
perfino se fossero tradotte bene. Ci ritrovammo per questo, rammenti.
Riprendemmo a vederci quando lui fu scarcerato e venne in esilio in
Italia. Andavamo spesso a cena, tutti e tre. E mangiare con te era
sempre una festa, perché a mangiare con te non ci si annoiava mai.
Una sera, in quel ristorante che ti piaceva per le mozzarelle, venne
anche Ninetto. Ti chiamava «babbo». E tu lo trattavi proprio come un
babbo tratta suo figlio, partorito dal suo ventre e non dal suo seme.
Lasciarti dopocena, invece, era uno strazio. Perché sapevamo dove
andavi, ogni volta. E, ogni volta, era come vederti correre a un
appuntamento con la morte. Ogni volta io avrei voluto agguantarti
per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto
a New York: «Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!». Avrei voluto
gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva
a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi.
E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace
di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci
facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu.
E ti odiavo quando ti allontanavi su quella automobile con cui i tre
teppisti t’avrebbero schiacciato il cuore. Ti maledicevo. Ma poi l’odio
si spingeva in un’ammirazione pazza, ed esclamavo: «Che uomo coraggioso!». Non parlo del tuo coraggio morale, ora, cioè di quello
che ti faceva scrivere in cambio di contumelie, incomprensioni,
offese, vendette. Parlo del tuo coraggio fisico. Bisogna avere un gran
fegato per frequentare la melma che frequentavi tu, di notte. Il fegato
dei cristiani che insultati e sbeffeggiati entrano nel Colosseo per farsi
sbranare dai leoni.
Il telefono muto
Ventiquattr’ore prima che ti sbranassero, venni a Roma con Panagulis.
Ci venni decisa a vederti, risponderti a voce su ciò che mi avevi
scritto. Era un venerdì. E Panagulis ti telefonò a casa ma, alla terza
cifra, si inseriva una voce che scandiva: «Attenzione. A causa del
sabotaggio avvenuto nei giorni scorsi alla centrale dell’EUR, il
servizio dei numeri che incominciano col 59 è temporaneamente
sospeso». L’indomani accadde lo stesso. Ci dispiacque perché
credevamo di venire a cena con te, sabato sera, ma ci consolammo
pensando che saremmo riusciti a vederti domenica mattina. Per
domenica avevamo dato appuntamento a Giancarlo Pajetta e Miriam
Mafai in piazza Navona: prendiamo un aperitivo e poi andiamo a
mangiare. Così verso le dieci ti telefonammo di nuovo. Ma, di nuovo,
si inserì quella voce che scandiva: attenzione, a causa del sabotaggio
il numero non funziona. E a piazza Navona andammo senza di te. Era
una bella giornata, una giornata piena di sole. Seduti al bar Tre
Scalini ci mettemmo a parlare di Franco che non muore mai, ed io
pensavo: mi sarebbe piaciuto sentir Pier Paolo parlare di Franco che
non muore mai. Poi si avvicinò un ragazzo che vendeva «l’Unità» e
disse a Pajetta: «Hanno ammazzato Pasolini». Lo disse sorridendo,
quasi annunciasse la sconfitta di una squadra di calcio. Pajetta non
capì. O non volle capire? Alzò una fronte aggrottata, brontolò: «Chi?
Hanno ammazzato chi?». E il ragazzo: «Pasolini». E io, assurdamente:
«Pasolini chi?». E il ragazzo: «Come chi? Come Pasolini chi? Pasolini
Pier Paolo». E Panagulis disse: «Non è vero». E Miriam Mafai disse: «È
uno scherzo». Però allo stesso tempo si alzò e corse a telefonare per
chiedere se fosse uno scherzo. Tornò quasi subito col viso pallido. «È vero. L’hanno ammazzato davvero». In mezzo alla piazza un giullare
coi pantaloni verdi suonava un piffero lungo. Suonando ballava
alzando in modo grottesco le gambe fasciate dai pantaloni verdi, e la
gente rideva. «L’hanno ammazzato a Ostia, stanotte» aggiunse
Miriam. Qualcuno rise più forte perché il giullare ora agitava il
piffero e cantava una canzone assurda. Cantava: «L’amore è morto,
virgola, l’amore è morto, punto! Così io ti piango, virgola, così io ti
piango, punto!».
Non andammo a mangiare. Pajetta e la Mafai si allontanarono con
la testa china, io e Panagulis ci mettemmo a camminare senza sapere
dove. In una strada deserta c’era un bar deserto, con la televisione
accesa. Si entrò seguiti da un giovanotto che chiedeva stravolto: «Ma
è vero? È vero?». E la padrona del bar chiese: «Vero cosa?». E il
giovanotto rispose: «Di Pasolini. Pasolini ammazzato». E la padrona
del bar gridò: «Pasolini Pier Paolo? Gesù! Gesummaria! Ammazzato!
Gesù! Sarà una cosa politica!». Poi sullo schermo della televisione
apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero
anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che
da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato.
Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero
guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo.
Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e
una luce s’è spenta?
Oggi in "Pasolini, un uomo scomodo" di Oriano Fallaci - Rizzoli.
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