"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
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Il dialogo tra Pier Paolo Pasolini
e la Pro Civitate Christiana sulla sceneggiatura
de Il Vangelo secondo Matteo*
Tomaso Subini
La mia religione è di un genere piuttosto atipico:
non si conforma a nessun modello
(Pasolini, 1968).
* Sono qui riportati i risultati parziali di una ricerca in corso che confluirà in un volume di
prossima pubblicazione dedicato ai rapporti tra Pasolini e
la Pro Civitate Christiana
lungo l’intero arco degli anni ’60.
la Pro Civitate Christiana
lungo l’intero arco degli anni ’60.
1. La religiosità atipica di Pasolini
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Quella che Pasolini stesso ha definito la sua “crisi religiosa” matura in un clima tragicamente mortifero (1). A suscitarla è il ritrovarsi per la prima volta in prossimità della morte: «Vivevo – scrive nel diario giovanile – in un continuo rischio di perdere la vita; per vari mesi anzi parve certo che uscire vivi da quell’inferno non era che un’assurda speranza. Questo mi dava un continuo senso del mio cadavere [...]. È in questo tempo che ebbi il senso di quel “limite” oltre il quale non c’ero più io, ma un altro. Tale fu la mia crisi religiosa» (2). Il faccia a faccia con la morte si concretizza al termine della guerra quando giungono notizie del fratello, caduto nella strage di Porzùs. A questa data Pasolini
è già passato per lo storicismo di Roberto Longhi ed ha già piena coscienza del proprio antifascismo; gli manca solo di mettere insieme i pezzi e di dare sistematicità ad un pensiero che, nella sostanza, ha già imboccato la strada che nel ’47 si preciserà con l’iscrizione al Pci. Il marxismo fornisce a Pasolini pressoché tutte le risposte alle domande fondamentali che va ponendosi; tutte, tranne una: la risposta al problema della morte, che Pasolini ha appena toccato con mano e che pertanto non può eludere.
C’è un momento in cui la crisi religiosa parrebbe risolversi nell’abbandono al mondo dei sensi (10); ma è una vittoria, quella sulla norma morale, tutt’altro che definitiva. Pasolini deve presto rendersi conto dell’illusorietà di una simile soluzione; e che la “crisi religiosa” non si risolva nei primi anni del dopoguerra, è lui stesso a confessarlo, sempre nel diario: «mi ritrovo, nell’ottobre del ’47, ormai privo di impedimenti, addirittura pagano... Non è vero: io più che laico, irreligioso, sono continuamente occupato da una mia interminabile crisi religiosa» (11). In qualche modo, Pasolini intuisce il problema religioso come irrisolvibile, sa che con esso dovrà convivere tutta la vita.
Tra le carte del Fondo Caruso si conservano inoltre tre distinti elenchi di osservazioni del tutto corrispondenti alle annotazioni trascritte sui due esemplari glossati del copione. I primi due elenchi giungono ad Assisi da Roma, allegati, parrebbe, a due ulteriori esemplari del copione (andati perduti): la spedizione del primo è annunciata da una lettera di don Andrea Penna (25) del 15 maggio 1963, quella del secondo da una lettera di padre Domenico Grasso (26) del 19 maggio 1963. Le osservazioni contenute nei due elenchi confluiscono quasi tutte, per mano di Carraro, nell’esemplare del Fondo Caruso. Sullo stesso esemplare, annotano poi le proprie osservazioni sia Carraro sia Caruso. Quest’ultimo, infine, forse per distinguere il proprio contributo da quello di Carraro, stila a sua volta un elenco – anch’esso conservato presso il Fondo Caruso – delle pagine da lui glossate e delle relative annotazioni (27). È Carraro, da ultimo, a trascrivere in bella copia le osservazioni di tutti i consulenti (compreso le sue) sull’esemplare dell’Archivio Pasolini inviato al regista il 6 giugno 1963, e non nella primavera del ’64 come indicano Siti e Zabagli (28); la data corretta è riportata sulla lettera con cui Caruso annuncia a Pasolini l’imminente arrivo del copione: «Unisco la sceneggiatura provvisoria sulla quale ho fatto annotare i pareri teologici. Per carità, non li consideri come correzioni, sono soltanto una consulenza tecnica!» (29). Siccome il ritrovamento delle carte del Fondo Caruso dimostra chiaramente che gli interventi di consulenza confluiti per mano di Carraro nell’esemplare inviato a Pasolini solo in realtà il frutto del lavoro di un’équipe, ci riferiremo d’ora in poi al collettivo “consulenti religiosi”, indicando di volta in volta in nota a chi è possibile ricondurre la singola osservazione.
Pasolini avrebbe voluto poi mostrare la «F.I. o M.F. di Maria col bambino che le succhia il seno» (33). I consulenti scrivono di fianco:
una sorta di sintesi dello scontro dialettico tra la maternità carnale secondo Pasolini e la maternità virginale secondo gli amici di Assisi.
E di nuovo gli stracci divengono più generiche «vesti povere» (50). In particolare Pasolini elimina un appunto tra parentesi che poco più avanti definiva tale folla
La riduzione di Pasolini opera selezionando. Si prenda ad esempio il caso del miracolo della guarigione del lebbroso, in Matteo abbinato, come in un trittico, alla guarigione del figlio del centurione e alla guarigione della suocera di Pietro (64). Dei tre miracoli Pasolini sceglie di conservare solo il primo, e non a caso: il lebbroso, bandito dalla società, era un diverso come lui, un reietto, considerato peccatore per una facile associazione tra l’infermità del corpo e l’infermità dell’anima. L’eccesso di trucco applicato alla faccia del lebbroso trova una spiegazione nei termini con cui Pasolini sempre si è riferito alla propria “eccessiva” diversità. L’ipotesi è confermata dal fatto che l’esasperazione dei toni con cui Pasolini già nella sceneggiatura descriveva la diversità del lebbroso era stata rimproverata. Di fianco alle frasi:
Nelle pagine seguenti del copione Pasolini distribuisce piani di soldati un po’ ovunque:
Ma anche qui, nel passaggio dalla sceneggiatura al film, Pasolini non apporta alcuna modifica; anzi, finisce per esasperare gli elementi che i suoi consulenti religiosi avrebbero voluto che attenuasse: la sequenza in cui Cristo elenca gli errori dei farisei è organizzata da Pasolini come se fosse un comizio interrotto dall’intervento violento della polizia che disperde gli astanti, ed è suddivisa in tre sottosequenze commentate dalla medesima musica, un canto rivoluzionario russo, dal chiaro valore connotativo (84).
È questo il rovello da cui scaturisce l’opera religiosa di Pasolini, tanto quella d’ambito letterario quanto quella, successiva, d’ambito cinematografico: l’insufficienza dell’ideologia marxista di fronte al problema della morte e la contraddizione che ne deriva (3). L’incapacità di sorvolare sulla morte con la sicumera di un materialismo fanatico (4) spinge Pasolini, per il quale “sentirsi cadavere” e interrogarsi su Dio sempre più coincideranno, ad interpellare Cristo, ma senza svestire i panni del marxista.
La crisi religiosa di cui Pasolini parla nei Quaderni rossi si concretizza, nel corso della seconda metà degli anni ’40, nella tensione verso qualcosa al limite tra il dato fisico e una prima idea di Dio. Scrive nel diario: «Passavo ore di fronte a una foglia o a una mano per capirle cioè per valicare il limite o la sutura dove io terminavo e cominciava l’altro» (59. Cosa sia questo “altro” neppure Pasolini lo sa; è però significativo che in Atti impuri (sorta di riscrittura romanzata dei Quaderni rossi alla quale Pasolini lavora tra il ’47 e il ’50) alla parola “altro”, ora scritta con la A maiuscola, Pasolini affianchi la parola “Dio”: «incominciai ad attendere la grazia – cioè la possibilità di concepire l’Altro, Dio» (6). Prima di allora, protagonista principe della poesia di Pasolini era stato Pasolini stesso, nelle vesti di un Narciso in perenne contemplazione di sé. Con la crisi religiosa, Narciso si fa per la prima volta un poco da parte lasciando spazio all’“Altro”, termine strettamente connesso ad una prima formulazione del concetto di Dio.
Nelle pagine de L’Usignolo della Chiesa Cattolica (7) il dialogo con Dio si fa esplicito: Pasolini si dichiara peccatore, ma non certo per chiedere perdono; sottopone il proprio peccato, che a questa data è l’atto omosessuale, allo sguardo di Dio per sfidarlo. Da un lato c’è la norma morale, dall’altro la vita dei sensi, in mezzo c’è Pasolini che si chiede:
«Non ha colpa l’azzurro / d’essere azzurro, e poi / a che serve punirlo?» (8).L’illogicità del senso di colpa che Pasolini prova di fronte alla propria omosessualità ha come sbocco l’insulto blasfemo:
«Idiota Dio, decreta / la mia disonestà / e se, onesto, Ti offendo sempre in ogni / mio atto, Tu svergognami. / (Tu ti lasci insultare... Sei l’insulto! / E non puoi punirmi / né infine intimorirmi: / colui che non ti prega non è adulto.)» (9).
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Con La scoperta di Marx (12) fa la comparsa l’idea poetica, che troverà la sua consacrazione ne La ricotta, di “un Cristo vero” contrapposto a uno “corrotto”:
L’Usignolo della Chiesa Cattolica era attraversato da una dimensione irrazionale di rivolta a Dio; dopo l’intervento razionalizzante di Marx, le critiche di allora si precisano nei confronti dell’istituzione Chiesa e dei suoi uomini. L’accusa principale che Pasolini rivolge alla Chiesa è di vivere di compromessi, di non avere raccolto la radicalità dell’insegnamento di Cristo, di mancare di quell’amore inflessibile di cui sarà simbolo scandaloso il Cristo del suo Vangelo (18).
«vegnerà el vero Cristo, operajo, // a insegnarte a ver veri sogni» (13).Non più consolatore né oggetto d’ira blasfema, Cristo è diventato guida del suo popolo, messia liberatore, preludio del Cristo cinematografico del 1964. L’intervento storicizzante dell’ideologia si può intendere come il tentativo di Pasolini di razionalizzare l’irrazionale. Tale processo non è però risolutivo: Pasolini definirà il suo irrazionalismo (come dire: la sua religione) una malattia, nei confronti della quale
«la razionalizzazione è una forma terapeutica» che «non garantisce la guarigione assoluta» (14).E difatti Pasolini è ben lungi dall’essere guarito, ma passando per Le ceneri di Gramsci (15), la religiosità piena di sensi di colpa degli anni friulani si rinnova profondamente: non più sulla difensiva, ma votata all’attacco. La ribellione, che negli anni friulani era in qualche modo sempre frustrata dall’assillo del senso di colpa e che per questo sfociava spesso nella bestemmia, si fa ora concreta ed entra con prepotenza nella storia. È questa la religiosità che si travasa nel primo cinema di Pasolini e che trova esplicita espressione nella raccolta poetica del ’61, La religione del mio tempo (16). Nel poemetto che dà il titolo alla raccolta (la cui stesura inizia nell’ottobre del ’57) Pasolini prende congedo dalla religiosità degli anni giovanili, definita «una breve passione»:
«Spazzò la Resistenza / con nuovi sogni il sogno delle Regioni / Federate in Cristo, e il dolceardente // suo usignolo... [...] Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana, nel segno // di ogni privilegio, di ogni resa, / di ogni servitù; […] che la Chiesa / è lo spietato cuore dello Stato» (17).
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Ma la Chiesa cui Pasolini si rivolge negli anni de La religione del mio tempo è quella di Pio XII (19): le esperienze successive muteranno non poco il quadro. Pasolini non capisce subito lo sconquasso creato dall’avvento di Giovanni XXIII (20): quando nel ’62 è ad Assisi, ospite della Pro Civitate Christiana (21), si ritira in camera per non sentir parlare del Papa, in visita alla città (22); due anni dopo dedica Il Vangelo secondo Matteo
«alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII»,
che nel frattempo è morto.
2. Il dialogo con i cattolici: la sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo
Come è noto, Pasolini stese la sceneggiatura de Il Vangelo secondo Matteo avvalendosi della consulenza della Pro Civitate Christiana.
All’Archivio Pasolini del Gabinetto Vieusseux di Firenze si conserva l’esemplare del copione (datato 8 maggio 1963) che don Andrea Carraro, il biblista della Pro Civitate, chiosò e restituì a Pasolini perché vi apportasse le correzioni proposte (23). Il doppio strato di scrittura offre l’opportunità di operare un confronto tra l’originario e non mediato approccio di Pasolini al testo di Matteo e quello successivo, condizionato dall’opera della Pro Civitate, confluito nella sceneggiatura a stampa.
Walter Siti e Franco Zabagli attribuiscono unicamente alla responsabilità di Andrea Carraro i suggerimenti, effettivamente tutti di sua mano, contenuti nell’esemplare del copione inviato a Pasolini (24). Il reperimento di un secondo esemplare del copione (conservato presso il Fondo Caruso recentemente istituito al Gabinetto Vieusseux), coincidente con quello dell’Archivio Pasolini nella parte dattiloscritta ma leggermente differente nella parte autografa, è in grado di far luce sulle reali modalità con cui la Pro Civitate Christiana attese, nel maggio del ’63, al compito di consulenza affidatole, dimostrando inequivocabilmente come le chiose contenute nell’esemplare inviato a Pasolini siano in realtà il risultato di un lavoro di squadra.
A differenza dell’esemplare dell’Archivio Pasolini, quello del Fondo Caruso (cronologicamente precedente) riporta annotazioni riconducibili a due mani differenti: di fianco alla scrittura di Andrea Carraro, si riconosce infatti anche quella di Lucio Caruso. Tuttavia le annotazioni dell’esemplare del Fondo Caruso sono identiche nella sostanza a quelle dell’esemplare dell’Archivio Pasolini: queste ultime non sono altro infatti che la trascrizione in bella copia (operata dalla sola mano di Carraro) di quelle riportate sull’esemplare del Fondo Caruso.
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Una prima serie di annotazioni stilate dai consulenti religiosi vorrebbe addolcire il realismo, in alcuni luoghi esasperato, con cui Pasolini immaginava certe sequenze del film. Originariamente la sacra famiglia, ad esempio, pareva appena uscita dall’opera borgatara degli anni ’50. La Madonna era descritta come una giovinetta «“del popolo”», «come se ne vedono a migliaia, coi loro stracci» (30). I consulenti glossano: «non miserabile, però, la Madonna; decorosa» (31); e gli «stracci» di Maria diventano così, nella sceneggiatura data alle stampe, «vesti scolorite» (32).
Pasolini avrebbe voluto poi mostrare la «F.I. o M.F. di Maria col bambino che le succhia il seno» (33). I consulenti scrivono di fianco:
«Le mamme di delicato sentire non lo fanno in pubblico: Gesù e Maria sono troppo... ideali, perché il cristiano li possa accettare in un atteggiamento che se anche vero diventa realista, verista. La pittura è un attimo idealizzato, senza tempo e movimento: non così il cinema» (34).L’appunto è decisivo perché la scena venga meno nel film; si conserva invece nella sceneggiatura a stampa, ma con una modifica:
«una maternità realistica» (35) diventa «una maternità purissima, ma “realistica”» (36);
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Per l’intervento dei consulenti cadono poi certi elementi attualizzanti. Ad esempio, il «grasso, crudele viso di potente orientale» di Erode era associato, nel dattiloscritto originario, alla «faccia di Nasser» (37). Ad Assisi ci si augura che il riferimento a Nasser non sia
«un elemento da realizzare, ma un punto di riferimento ideale» (38);e così Pasolini nella sceneggiatura pubblicata lo elimina (39). Stessa sorte capita ad un appunto relativo alla scena della fuga in Egitto (40), che Pasolini pensava di aprire con una serie di immagini di
«Profughi che fuggono dalla Spagna, profughi che fuggono dall’Ungheria, profughi che fuggono dall’Algeria...» (41).I consulenti ribadiscono:
«anche qui: note di appunto mnemonico, non di realizzazione » (42).E che in origine si trattasse di riprodurre immagini di repertorio, e che tali inserti non fossero solamente degli “appunti mnemonici”, lo confermerebbe una nota presente nella scena della strage degli innocenti:
«(NOTA: riprendere le atrocità dei corpicini uccisi, ricordando e riproducendo le atrocità analoghe accadute durante l’ultima guerra, nei campi di sterminio, ecc.)» (43).
Anche qui Pasolini raccoglie l’invito che gli giunge da Assisi ad
«evitare il realismo moderno accennato in nota» (44),eliminando nella sceneggiatura a stampa il termine “riproducendo” (45). E così accade anche nel film: nulla verrà riprodotto, gli agganci con i tempi moderni rimarranno delle semplici allusioni (46).
In particolare l’attenzione dei consulenti si appunta su una serie di elementi di chiara origine ideologica. Ecco, ad esempio, come veniva descritta la folla adunatasi per farsi battezzare da Giovanni:
«È tutta povera gente, umile negli occhi, fiduciosa e un poco atterrita. Tutti sono coperti di stracci, ma tra loro ci sono anche figure di intellettuali» (47).
Parrebbe già quella “folla rivoluzionaria” di cui Pasolini parlerà qualche anno dopo quando, intervistato da Jon Halliday, confesserà:
«Avevo in mente di rappresentare il Cristo come un intellettuale in un mondo di poveri disponibili alla rivoluzione» (48).
La matrice ideologica alla base della sequenza non sfugge ai consulenti, che annotano:
«La presentazione degli uditori di s. Giovanni è troppo pesante e depressa. La gran parte era gente normale di quel tempo: il messaggio di s. Giovanni Battista era religioso e richiedeva riforma morale personale; senza promettere niente di invogliante» (49).
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«così simile a quelle sottoproletarie dei pellegrinaggi di oggi, nel Meridione, nelle terre sottosviluppate...» (51).
Lapidario, il commento proveniente da Assisi non lasciava margini di correzione:
«Non era questa la condizione degli Ebrei al tempo di Gesù» (52).
Ma soprattutto era connotato ideologicamente lo scontro tra la folla di “poveri disponibili alla rivoluzione” e la classe dirigente degli Scribi e dei Farisei, vestiti da Pasolini «con l’eleganza e il fasto della classe superiore » (53);
«I farisei non erano proprio dei ricchi» (54),fanno giustamente notare i consulenti, per i quali il conflitto è prima di tutto (se non unicamente) spirituale, non perdendo poi occasione per invitare Pasolini ad alleggerire l’accentuato contrasto giocato sugli abiti. Come nella scena 47 (55), in cui, di fianco a
«CARR. a precedere sulla F.I. di uno Scriba […] confuso tra la folla stracciona, coi suoi eleganti abiti di potente» (56),è cancellato con la penna da “stracciona” a “potente” (57). Il suggerimento di attenuare i toni viene accolto nella sceneggiatura pubblicata eliminando un aggettivo per parte: e così se la folla non sarà più stracciona, anche gli abiti dello Scriba non saranno più eleganti (58). La stessa dinamica si ripete nelle scene 51, 53, 63, 78. O ancora nella scena 79, dove di fianco a
«PAN. sulla solita folla cenciosa, che si trascina sulle orme di Gesù guidata dalla sua misera speranza. Straccioni, dolci e miserandi, coi loro malati» (59),la chiosa recita:
«La folla della gente normale di questo mondo, che pure conosce la sofferenza, il dolore, le disgrazie, le infelicità» (60)
ma che – sembra suggerito fra le righe – non per questo cerca una rivoluzione (61). In coda all’appunto è scritto:
«cfr. le folle di Lourdes»;come dire: se proprio si vuol riportare il testo sacro al Novecento, ci si rifaccia ai giusti modelli.
Ancora, nella scena 121 la classe dirigente vive nel lusso mentre la folla è stracciona. In tutti i casi viene sottolineata la scorrettezza dell’operazione e Pasolini provvede a correggere. C’è un brano straordinariamente rivelatore dell’incidenza avuta dagli interventi dei consulenti. È il momento in cui i Farisei pronunciano la prima condanna a morte:
«Noi dobbiamo trovare il modo di farlo morire»,dice uno di loro. Questa battuta è introdotta da un’annotazione tra parentesi risolutamente cancellata a penna sul copione del Fondo Caruso:
«Pan. sulle loro facce indurite dalla sconfitta, dove si fa strada l’idea spietata, (la cieca ferocia di chi difende le Istituzioni contro le Rivoluzioni)» (62).
Nel testo a stampa il disappunto dei consulenti otterrà che al posto di
«contro le Rivoluzioni» si legga «contro la Religione» (63).Davvero superfluo, in questo caso, sottolineare quanto diverse e lontane siano le due versioni del testo!
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«Un uomo? Un muso orrendo, scrostato, con un buco al posto del naso, e piaghe rognose che gli stanno divorando la carne delle gote...» (65),
si trova annotato:
«I lebbrosi non potevano frequentare in pubblico. Deve essere stata una cosa nascosta o incipiente, anche per le ultime parole di Gesù che raccomandano il silenzio: come possibile se evidentissimo?» (66).
E invece nel passaggio dal copione alla sceneggiatura a stampa Pasolini non corregge nulla. Il primo piano del lebbroso viene definito, più avanti, «orribile» (67); termine naturalmente sottolineato e glossato con un incisivo punto di domanda. Non sarebbe stato difficile trovare (come accade altrove) un compromesso almeno su tale termine. Il film finisce addirittura con l’accentuare ulteriormente le piaghe, tutt’altro che incipienti, del lebbroso. Siamo di fronte a uno dei casi in cui Pasolini non segue la lezione proposta dal biblista, ma va risoluto per la sua strada.
Pasolini non apporta alcuna delle correzioni propostegli neppure in occasione dei discorsi antifarisaici, introdotti dall’episodio del fico sterile, che il copione originario presenta con un appunto rimasto inascoltato. Già nella sceneggiatura Pasolini parla esplicitamente di un Cristo «irato» (68), sottolineando la violenza con cui vorrebbe vederlo aggredire il fico.
La glossa assisana fa presente che in realtà si tratta
«di un’azione simbolica. Gesù sa che non ne troverà, non solo perché è Dio, ma anche perché non era la stagione dei fichi: lo nota apertamente il Vangelo» (69).
Pasolini non solo non modifica di una virgola la sceneggiatura (70), ma finirà altresì con l’accentuare ulteriormente la violenza di Cristo, in coerenza con i propri fini espressivi. Nella sua violenza, è un’azione simbolica anche per Pasolini, perché la violenza con la quale nel film Cristo aggredisce il fico sterile ha il compito di preparare alla violenza che di lì a poco userà contro i farisei, allorché racconterà loro la parabola dei vignaioli ribelli.
Nelle sequenze successive Pasolini si concede un’ostinata licenza poetica
inventandosi la presenza dei soldati (di cui Matteo non parla) sul set
della Passione. Naturalmente i consulenti non mancano di segnalargli il
falso storico che si viene così a creare. In occasione del primo scontro
diretto con i Farisei nel cortile del tempio Pasolini annota: «Sotto queste
parole, l’obiettivo inquadra varie F.I. di soldati sparsi qua e là per il tempio,
per “ragioni di ordine pubblico”» (71). «Bisogna tener presente – è
scritto in margine – che i soldati romani erano esclusi dal Tempio: forse si
possono ammettere eccezionalmente per la circostanza della Pasqua –
non di Gesù, che Pilato mostra di ignorare» (72). Si tratta della prima di una lunga serie di occorrenze che si conserveranno tutte, sia nella sceneggiatura
a stampa sia nel film.
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«Visti d’infilata, un gruppo di soldatacci: in campo e poi in controcampo a osservarli bene, con le loro armi, le loro posizioni falsamente obiettive, in realtà faziose. [...] P.P. obliqui, di profilo, dei soldatacci, che guardano... [...] P.P. di un soldataccio, di quinta, che sbadiglia» (73).
I consulenti capiscono immediatamente le intenzioni di Pasolini, sottolineano tutte le occorrenze della parola soldato e commentano:
«Calcando troppo sulla presenza dei soldati, in primo luogo si rischia di falsare il significato del Vangelo secondo Mt, di falsare le parole di Gesù, e poi di dare un’intonazione politica a un brano religioso. In tal modo il film da opera poetica e religiosa rischia di diventare opera ideologica. Sarebbe opportuno cercare altre soluzioni» (74).
Ma ottengono solo (e non sempre) che il termine «soldataccio» sia sostituito con il termine «soldato» (75): la sostanza del discorso rimane invariata.
Il disappunto torna a mostrarsi, naturalmente, di fronte al
«tumulto terribile di folla, che ondeggia, urla, reclama, corre di qua e di là come impazzita» (76).
«Chi è questa folla? – chiede la glossa – e contro chi tumultua? e perché?» (77).E poco oltre, quando i soldati erodiani vengono definiti «collaborazionisti» (78), ribadisce:
«Non far fare troppo brutta figura ai soldati romani, invisi agli ebrei, ma che, in fondo in fondo, hanno trattato Gesù senza particolare cattiveria. Insomma non calcare la mano, perché, leggendo, si ha questa impressione» (79).
E quando Pasolini scrive di «una “carica della polizia” alla folla» (80), i consulenti di Assisi chiedono:
«provocata da che cosa?» (81),concludendo:
«Attenzione. Tutta questa presenza di soldati non è giustificata e corrispondente al racconto evangelico » (82).La glossa sarà ancora più esplicita qualche pagina dopo, di fronte alle ennesime agitazioni:
«Tutta questa mezza rivoluzione di piazza è contrastante col testo evangelico: Pilato non ne saprà niente!» (83).
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Protagonista della sequenza è, insieme a Gesù, “la folla di poveri disponibili alla rivoluzione”, che Pasolini dota di un antagonista visivo nelle immagini dei soldati, la cui presenza dà al discorso di Cristo, e al crescente auditorio, un’aura sovversiva. In un impeto di attualizzazione Pasolini giunge persino a chiamare tali folle con il termine, virgolettato perché se ne evinca chiaramente il valore connotativo, di “masse”:
«Ora sono le “masse”, con la loro confusione, le loro caotiche aspirazioni che lo ascoltano» (85);non basta che da Assisi gli giunga il suggerimento di sostituire il termine con “folle” perché esso scompaia (86). Nel cuore ideologico del film le concessioni che Pasolini fa ai propri consulenti si contano sulle dita di una mano.
Al contrario, la sequenza della crocifissione è emblematica del compromesso ideologico incessantemente negoziato tra il marxista Pasolini e la cattolica Pro Civitate, da cui scaturì – come spiegò Pasolini stesso
– «il difficile equilibrio fra il mio personale punto di vista e quello del credente – tra due narrazioni» (87).In origine Pasolini pensava ad una crocifissione crudamente realista, come indicato in una nota di regia nella sceneggiatura:
«Mai crocifissione avrà dato l’insopportabile fisicità del dolore, come questa cinematografica: un naturalismo terribile, da renderne quasi intollerabile la vista» (88).
Tale realismo non piacque affatto ad Assisi: suonano espliciti al riguardo i decisi segni a penna che cancellano sull’esemplare del Fondo Caruso la nota di regia (89), tradotti da Carraro sull’esemplare dell’Archivio Pasolini in una glossa che pone la questione dell’opportunità di tale realismo. Pasolini riesce in questo caso a venire incontro alla richiesta dei consulenti senza tradire la propria ispirazione: da un lato pubblica il brano nella sceneggiatura nonostante l’invito a disfarsene (90), dall’altro supera la difficoltà di mostrare un Cristo Dio che soffre in croce con tutta l’umanità di un uomo qualunque, rappresentando i suoi atroci dolori per interposta persona, il ladrone buono, alla cui sofferenza è concesso il primo piano, negato invece a Cristo, il cui spasimo risuona fuori campo. Di fronte all’impossibilità di mostrare le pene di Cristo nella loro terrena atrocità, Pasolini sceglie la via di alludervi attraverso le grida del ladrone buono, ovvero di colui che de La ricotta era stato il protagonista. La sequenza della crocifissione può pertanto essere considerata come paradigmatica del dialogo tra Pasolini e i cattolici.
Note:
1 L’8 settembre 1943 il reparto nel quale da qualche giorno Pasolini presta servizio viene catturato dai Tedeschi a Livorno. Approfittando di un mitragliamento aereo sulla colonna in marcia, Pasolini riesce a fuggire e a fare ritorno a Casarsa, dove si nasconde fino al termine della guerra. Qualche mese dopo vede partire il fratello Guido, di pochi anni minore, per i monti della Carnia, partigiano in una brigata vicina al Partito d’Azione. Cfr. N. Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989, pp. 60-61, 66.
2 P.P. Pasolini in N. Naldini, Cronologia della vita e delle opere, in P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, Einaudi, Torino 1986, pp. LXXIX-LXXX. Si tratta di un brano tratto dai cosiddetti Quaderni rossi: cinque quaderni autografi stesi in Friuli fra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947, su cui Pasolini ha appuntato, rivolgendosi esplicitamente a un «Caro lettore», una serie di riflessioni relative alla propria giovinezza in corso.
3 Terminato Il Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini dichiarerà: «Io avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare quella figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo della Controriforma, avrei potuto demistificare tutte queste cose, ma, poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Cioè il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile» (intervista rilasciata a M. Ponzi, in «Filmcritica», nn. 156-157, aprilemaggio 1965; poi col titolo Terza intevista, in Con Pier Paolo Pasolini, a cura di E. Magrelli, «Quaderni di Filmcritica», Bulzoni, Roma 1977; infine nella sezione Interviste e dibattiti sul cinema, in P.P. Pasolini, Per il cinema, Mondadori, Milano 2001, pp. 2885-2886). Con Il Vangelo secondo Matteo Pasolini giunge in qualche modo a dare una risposta al problema della morte, attraverso la figura di un Cristo rivoluzionario, di un Cristo cioè che non contraddice, o che contraddice solo in parte, il suo marxismo. Da questo punto di vista, Il Vangelo secondo Matteo è l’approdo cui giungono vent’anni di ricerca.
4 Tra le quattro domande che ne La ricotta (1963) vengono poste a Welles, alter ego di Pasolini, una riguarda proprio il problema della morte, di fronte al quale il regista esprime con feroce autoironia la contraddizione in cui vive, dichiarando: «Come marxista è un fatto che io non prendo in considerazione».
5 P.P. Pasolini in N. Naldini, Cronologia della vita e delle opere, cit., p. LXXX.
6 P.P. Pasolini, Atti impuri, romanzo non finito, apparso postumo a cura di C. D’Angeli nel volume Amado mio, preceduto da Atti impuri, Garzanti, Milano 1982; ora in P.P. Pasolini, Romanzi e racconti 1946-1961, Mondadori, Milano 1998, p. 21.
7 Il volume è edito nel 1958 da Longanesi, ma raccoglie liriche scritte tra il 1943 e il 1949, come esplicitato da Pasolini sul frontespizio.
8 P.P. Pasolini, Madrigali a Dio, da L’Usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano 1958 (il volume comprende poesie scritte tra il 1943 e il 1949; la VI sezione, Tragiques, che comprende i Madrigali a Dio, porta la data 1948-1949); ora in P.P. Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, Milano 2003, p. 486.
9 Ibid., p. 485.
10 Scrive nel diario: «Metto dunque tutto a tacere, sono passato, dopo una breve visita al Calvario, dall’orto dell’infamia al giardino di Alcina e mi ci trovo bene» (P.P. Pasolini in N. Naldini, Nei campi del Friuli, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1984, p. 49). Nell’Orlando Furioso quella di Alcina era un’isola e non un giardino; il senso però è evidente: Pasolini dichiara di trovarsi bene nel giardino del piacere.
11 Ibid., p. 48. Ed è davvero una crisi interminabile, se nel ’64 torna a parlarne: «una crisi di coscienza che non è di un giorno e di un momento, di una stagione, ma che mi accompagna da tutta la vita: cioè il mio è un continuo stato di crisi. In questo senso il mio Vangelo non è altro che la manifestazione più clamorosa di questo mio stato di crisi» (P.P. Pasolini, Una discussione del ‘64, trascrizione del dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini, organizzato ad Alessandria dal locale Circolo del Cinema il 21 novembre 1964, pubblicato postumo in Atti del Convegno “Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo”, Alessandria, 19-20 febbraio 1977, Amministrazione provinciale di Pavia / Comune di Alessadria, Pavia 1977; ora in P.P. Pasolini Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 753).
12 Si intitola così la sezione conclusiva de L’Usignolo della Chiesa Cattolica, datata 1949.
13 «Verrà il vero Cristo, operaio, // a insegnarti ad avere veri sogni» (P.P. Pasolini, Vegnerà el vero Cristo, da La meglio gioventù, Sansoni, Firenze 1954; ora in Tutte le poesie, vol. I, cit., p. 117).
14 P.P. Pasolini, Una discussione del ’64, cit.; ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 763.
15 Il volume è edito nel 1957 da Garzanti e raccoglie liriche scritte tra il 1951 e il 1956.
16 Il volume è edito nel 1961 da Garzanti e raccoglie liriche scritte tra il 1955 e il 1960.
17 P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, da La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961; ora in Tutte le poesie, vol. I, cit., pp. 968-970.
18 «Quel che mi ha colpito è l’implacabilità, l’assoluto rigore, la mancanza di qualsiasi concessione, l’essere sempre presente a se stesso in maniera ossessiva, ossessionante, con un rigore addirittura folle, che ha la figura di Cristo nel Vangelo secondo Matteo» (P.P. Pasolini, Una discussione del ’64, cit.; ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 767).
19 Al quale è dedicata la violentemente polemica A un papa, da La religione del mio tempo, cit.; ora in Tutte le poesie, vol. I, cit., pp. 1008-1009.
20 «Chi avrebbe immaginato che il cardinal Roncalli, così conservatore con la Biennale di Venezia e così mondano come nunzio a Parigi, sarebbe stato il papa povero che apriva le porte del dogma senza essere un teologo – ma come si vorrebbe che fosse un’anima cristiana?» (R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, p. 211).
21 In occasione di un convegno di cineasti sul tema Il cinema come forza spirituale del momento presente, Pasolini riceve l’invito di Lucio Caruso, responsabile della Sezione Cinema della Pro Civitate. Alcuni giornali parlarono di una sua presunta conversione, altri rivolsero alla Pro Civitate l’accusa di «sporcarsi con un immondo individuo» (G. Zizola, Don Giovanni Rossi, Cittadella, Assisi 1997, p. 328).
22 È questa l’opinione di Lucio Caruso: «Negli stessi giorni, Assisi festeggiava la visita di Papa Giovanni. Pasolini evitò tutte le vie per cui passava il Papa, non voleva sentirne parlare» (comunicazione personale trascritta in T. Subini, Il Vangelo di Pasolini. Cristo e San Paolo nell’ispirazione religiosa del cinema di Pier Paolo Pasolini, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, relatrice prof.ssa E. Dagrada, a.a. 2000/2001). Anni dopo, Pasolini ha raccontato quella giornata da una prospettiva che nel 1962 non poteva avere ancora maturato: «Era il 2 ottobre 1962, stava per arrivare da Loreto Giovanni XXIII, il primo Papa che era uscito dal Vaticano e che veniva a pregare sulla tomba del Poverello per il destino del Concilio imminente. Ero sdraiato sul letto, mi piaceva ascoltare la città che ferveva di voci e di passi, che bolliva di curiosità e di felicità. [...] Sentii anch’io, per un momento, il desiderio di alzarmi e andargli incontro, di vederlo da vicino e di guardarlo negli occhi. Ma mentre ormai le campane rombavano anche sulla mia testa, di colpo il desiderio di vederlo svanì. Mi resi conto che sarei stato un’irritante distrazione per molta gente» («dal nastro di una lontana intervista» raccolta da N. Fabbretti, Quello che mi è rimasto di Pasolini fra incontri, paure, dolorosa poesia, in «Stampa Sera», 19 novembre 1984).
23 Uso il termine “correzioni” nella convinzione che come tali si proponessero le modifiche suggerite, sebbene nel restituire il copione sia Carraro sia Caruso sostenessero il contrario: cfr. la lettera di Carraro citata in W. Siti, F. Zabagli, a cura di, Note e notizie sui testi, in P.P.Pasolini, Per il cinema, cit., p. 3083: «Le annotazioni – tutte o quasi tutte – non sono correzioni, ma piuttosto richiami o completamenti, né devono necessariamente entrare nel testo»; e la lettera di Caruso segnalata nella nota 29.
24 W. Siti, F. Zabagli, a cura di, Note e notizie sui testi, cit., pp. 3083-3086.
25 Biblista dell’Ordine dei Canonici Regolari, membro della Pontificia Commissione Biblica, Perito Conciliare, Professore di lingue e civiltà semitiche all’Università di Bari.
26 Titolare della Cattedra di Teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.
27 Nell’approntare questa prima ricognizione sui rapporti tra il film e il testo di Matteo cito dalle chiose dell’esemplare del Fondo Caruso, indicando in nota i pochi casi in cui i due esemplari presentano qualche differenza.
28 W. Siti, F. Zabagli, a cura di, Note e notizie sui testi, cit., p. 3083.
29 La lettera è pubblicata in T. Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana. Un carteggio inedito, «Bianco & Nero», nn. 1-3, 2003, numero unico speciale, p. 255.
30 Copione Fondo Caruso, p. 4.
31 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
32 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1964; poi in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 1991; ora in Per il cinema, cit., p. 487.
33 Copione Fondo Caruso, p. 13.
34 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
35 Copione Fondo Caruso, p. 13.
36 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 490.
37 Copione Fondo Caruso, p. 16.
38 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
39 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 491.
40 Ibid., p. 494.
41 Copione Fondo Caruso, p. 26.
42 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Grasso.
43 Copione Fondo Caruso, p. 30.
44 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Grasso.
45 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 495.
46 Pasolini si dichiarerà deluso per il mancato riferimento al presente di certe sequenze che avrebbe voluto molto più attualizzate: «Nel farlo io tendevo a forzare la materia nella direzione dell’attualità e mentre lo facevo credevo che questo avesse un grandissimo peso – parlo sinceramente con voi, è un po’ una confessione, non sono dei pretesti –, pensavo avessero più peso dei miei richiami a temi attuali. Per esempio quando facevo i soldati di Erode vestiti da fascisti o i soldati romani come la “Celere”, quando facevo Giuseppe e Maria profughi come i profughi spagnoli che passavano i Pirenei e così via, credevo che queste cose venissero fuori molto di più» (Intervista con P.P. Pasolini, a cura di L. Faccini e M. Ponzi, in «Filmcritica», a. XVI, nn. 156-157, aprile-maggio 1965, p. 247). Forse pentito di aver seguito il suggerimento che gli veniva da Assisi, Pasolini riproporrà l’espediente dell’immagine di repertorio nella sceneggiatura del San Paolo, alla quale comincia a lavorare nel 1966 e che sarà pubblicata postuma, dove è esplicitamente detto che «verrà usato del materiale di repertorio» (P.P. Pasolini, San Paolo, Einaudi, 1977; ora con il titolo Appunti per un film su san Paolo, in Per il cinema, cit., p. 1883).
47 Copione Fondo Caruso, p. 37.
48 P.P. Pasolini, Pasolini su Pasolini cit.; ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1332-1333.
49 Copione Fondo Caruso, p. 37. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
50 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 498.
51 Copione Fondo Caruso, p. 38
52 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
53 Copione Fondo Caruso, p. 39. Gli stessi termini si conservano nella sceneggiatura a stampa (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 499).
54 Copione Fondo Caruso, p. 39. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
55 Secondo la numerazione del copione, identica a quella della sceneggiatura a stampa.
56 Copione Fondo Caruso, p. 109.
57 Il suggerimento è riconducibile a Caruso.
58 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 523.
59 Copione Fondo Caruso, p. 233.
60 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
61 Nella sceneggiatura a stampa Pasolini così corregge: «PAN. sulla solita folla, che si trascina sulle orme di Gesù guidata dalla speranza» (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 566).
62 Copione Fondo Caruso, p. 173. Il suggerimento è riconducibile a Caruso. Nell’esemplare dell’Archivio Pasolini l’invito a cancellare stilato da Caruso viene sostituito da un’esplicita nota di Carraro in cui è spiegato che la questione è religiosa e non politica.
63 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 545.
64 Mt 8, 1-17.
65 Copione Fondo Caruso, p. 99.
66 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
67 Ivi.
68 Copione Fondo Caruso, p. 315.
69 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
70 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 596.
71 Copione Fondo Caruso, p. 326.
72 Ivi. Il suggerimento è riconducibile a Penna.
73 Copione Fondo Caruso, pp. 334-335.
74 Copione Fondo Caruso, p. 334. Il suggerimento è riconducibile a Caruso. Nell’esemplare dell’Archivio Pasolini, Carraro attenua i toni del suggerimento non mancando tuttavia di invitare esplicitamente Pasolini a rivedere l’impostazione complessiva della sequenza.
75 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 603.
76 Copione Fondo Caruso, p. 343. Gli stessi termini si conservano nella sceneggiatura a stampa (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 607).
77 Copione Fondo Caruso, p. 343. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
78 Ivi. Lo stesso termine si conserva nella sceneggiatura a stampa (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 607).
79 Copione Fondo Caruso, p. 343. Il suggerimento è riconducibile a Grasso.
80 Ivi. Gli stessi termini si conservano nella sceneggiatura a stampa (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 607).
81 Copione Fondo Caruso, p. 343. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
82 Copione Fondo Caruso, p. 344. Il suggerimento è riconducibile a Penna.
83 Copione Fondo Caruso, p. 346. Il suggerimento è riconducibile a Carraro.
84 Nell’epilogo dell’Edipo re, Edipo rientra nella società sublimando tutte le sue colpe, attraverso la poesia: dopo aver suonato per la borghesia una musica decadente, va a suonare fuori dalle fabbriche una musica che appartiene al patrimonio della Resistenza, la stessa che, diversamente orchestrata, aveva accompagnato le sequenze delle invettive antifarisaiche de Il Vangelo secondo Matteo.
85 Copione Fondo Caruso, p. 333.
86 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 603. Il suggerimento è riconducibile a Caruso.
87 P.P. Pasolini, Le cinéma selon Pasolini, intervista rilasciata a B. Bertolucci e J. Comolli, in «Cahiers du cinéma», n. 169, agosto 1965; tr. it. con il titolo Il cinema secondo Pasolini, in Per il cinema, cit., p. 2904.
88 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 645.
89 Copione Fondo Caruso, p. 448. Il suggerimento è riconducibile a Caruso.
90 P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, cit.; ora in Per il cinema, cit., p. 645.
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