"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Storia del sequestro del film “I Racconti di Canterbury” ad opera di un monaco scandalizzato e un partenopeo “bacchettone”
Esistono gesti ossessivi come quelli censori delle opere del pensiero che ancora oggi suonano come vecchi rituali magici, insiemi deliranti che sono posti nella stessa luce di antiche illuminazioni religiose; in una cultura in cui da tempo è scomparsa la presenza del sacro, si ritrova talvolta un morboso accanimento a profanare. “I Racconti di Canterbury” di Pasolini fu questo. Da un lato, da parte di
qualcuno, la spinta a censurarlo in quanto eretico nella sua forma e dall’altro, da parte di Pasolini, la spinta a profanare le condotte normalizzatrici dell’uomo contemporaneo.
Un giorno mentre passeggiavo per Piazza Roma, mi avvicinai alla bancarella dei libri che sta da anni sul lato del Convitto. Rovistando tra libri e altre paccotaglie, trovai un Dvd. Era un film di Pasolini. Decisi di comprarlo al modico prezzo di 2 euro. Tornato a casa lo poggiai sul tavolo. Mio padre vedendolo mi raccontò che quel film lo aveva visto al cinema quando era uscito. Si ricordava perfettamente anche il giorno in cui andò a vederlo. Era il 2 settembre 1972.
Perché lo ricordava? Per una ragione molto semplice, quel film, “I Racconti di Canterbury” di Pasolini, quello stesso giorno in anteprima nazionale fu sequestrato perché scandaloso. Testuali parole di mio padre: “fu per colpa di un bacchettone napoletano e di un monaco che si scandalizzarono, manco non avessero mai visto un uomo di fede cacare”.
In pratica, noi beneventani cafoni di provincia, ci siamo macchiati dell’infamia di sequestrare un film di Pasolini, premiato a Berlino, per colpa di un “bacchettone” partenopeo cittadino ed emancipato.
La storia mi incuriosì tanto da ricercare la verità negli archivi cittadini.
Un lungo applauso echeggia nell’aula della prima sezione del Tribunale di Benevento. Così fu accolta la sentenza che proscioglieva i tre imputati e dichiarava, sia pure indirettamente, il film “I racconti di Canterbury” di Pier Paolo Pasolini opera di valore artistico. Nonostante l’assenza del regista bolognese e del produttore Grimaldi per tutto l’arco processuale, la vicenda giudiziaria prese le vesti dell’evento pubblico per i beneventani che lo seguirono con curiosità ed interesse.
Insieme al regista e al produttore era imputato anche il gestore del cinema “Comunale”, nel 1972 il Teatro Comunale era un cinema, il locale dove era avvenuta in anteprima nazionale la proiezione della pellicola incriminata.
L’imputazione ai sensi dell’art. 110 e dell’art. 528 del Codice Penale era di aver dato, ciascuno nella sua qualità, pubblico spettacolo di oscenità. Tra l’altro l’imputazione affermava che “l’idea conduttrice del film è il disancoramento totale della sessualità da criteri deontologici, e l’idea non è proposta come prodotto del pensiero, ma come vaga giustificazione di un’opera di suggestione esercitata non su le facoltà intellettuali, ma a livello dei sensi e dell’istinto. Il tutto in un contesto di belle fotografie e di paesaggi privo di un valore artistico complessivo e di sintesi che annulli la sconcia volgarità delle scene erotiche e la prolungata esposizione del nudo non estetico ma pornografico e che valga a farla considerare opera d’arte”.
Il film è tratto da “The Canterbury Tales” opera di Geoffrey Chaucer, che, ad imitazione del Decamerone, rappresenta un pellegrinaggio sulla tomba di San Tommaso, Becket a Canterbury, compiuto da un gruppo di varia estrazione sociale, adunatasi in una taverna. L’oste propone che durante il viaggio ognuno racconti delle novelle; gli altri accettano; il viaggio si snoda così tra un racconto e l’altro.
Il film di Pasolini si avvale di una decina di questi racconti non tutti a sfondo sessuale, di cui abbonda l’opera inglese. Secondo la sentenza di assoluzione, “la sintesi di Pasolini non scade mai nella frammentarietà, cogliendo il collegamento ideale fra i vari episodi nell’evidente itinerario morale, simboleggiato dal travagliato viaggio dell’uomo sulla via della vita”.
Nel film il vero protagonista è il Demonio. “Un demonio”, secondo la sentenza, “sfacciato e impudico, presentato brutalmente agli spettatori adusi a considerarlo metaforicamente lontano e per ciò stesso quasi non temibile. Il film descrive, pertanto, l’inferno dell’umanità con un campionario sfacciato e disinibito delle sue sozzure, un campionario assolutamente non erotizzante, ma triste livido desolante, che può lasciare momentaneamente scioccato lo spettatore più sprovveduto, ma certo induce tutti a ripensamenti e a meditazioni”.
Accostando Chaucer a Dante, il pellegrinaggio diventa un pretesto per “scandagliare le anime nel ciclo del loro aggancio alla fluida esistenza terrena”. Sempre secondo la sentenza, Pasolini “cedendo all’ingenua tentazione di generalizzare i propri traumi e le personali vicende offre una visione iperpessimistica della vita, ponendo in crudo risalto la contraddizione di fondo fra le reali abiezioni e l’aspirazione mistica, sviluppando temi già affrontati nelle sue opere letterarie e filmiche”. Il Tribunale ricorda la vicenda del film “Teorema”, accusato e assolto di oscenità, nonostante avesse avuto il Premio dell’Office Catolique International du Cinema con la motivazione che il film, impregnato di quella “ambiguità che è il senso straziante della nostra epoca, richiama la presenza drammatica ed irriducibile dell’esperienza religiosa”.
Il film fu, pertanto, giudicato “opera valida a rinfacciare i mali spesso ipocritamente celati; incita lo spettatore a riflettere. Opera d’arte, dunque, anche per il contenuto d’intuizione universale, per la fiamma ideale che suscita, per l’elevatezza dell’ispirazione mistica cui conduce”.
La legge censoria imponeva di qualificare osceno tutto quello che non rientrava nella sfera dell’opera d’arte. Per giudicare se un film era opera d’arte, andavano esaminati il soggetto, la sceneggiatura, la recitazione, la musica, la fotografia, l’accuratezza dei particolari, la presentazioni degli ambienti. In verità, oggi le cose non sono tante diverse. Il problema, semmai, sta nel chi deve decidere, tenendo presente questi elementi, se un film è un’opera d’arte o no. Non è tanto stano, allora, se, in un paese come il nostro dove le storture sono all’ordine del giorno, un cinepanettone usufruisce dei finanziamenti pubblici perché considerato di rilevanza culturale.
“I racconti di Canterbury” furono proiettati a Benevento il 2 settembre del 1972. Non vi furono proteste da parte del pubblico sannita, tranne che di uno spettatore “napoletano”.
Il 5 settembre giunse alla Procura di Benevento un esposto del dott. Gaetano Trotta, che riteneva lo spettacolo impudico e censurabile.
Il magistrato inquirente non fu dello stesso avviso, inviando il giorno successivo la denunzia al giudice istruttore per il decreto di non doversi promuovere l’azione penale. In particolare il magistrato ritenne che “non sussiste l’oscenità dell’immagine”.
Vi furono altre denunce in varie città italiane (il film era balzato ai primi posti per incassi, al pari di un film di Federico Moccia).
A Firenze la Procura generale fece esaminare l’opera di Pasolini da tre magistrati. Il giudizio fu nettamente negativo e gli atti furono trasmessi alla Procura generale di Napoli, competente territorialmente.
Il dottor Cesaroni, dopo altre indagini svolte nella città partenopea, inviava gli atti al procuratore della repubblica di Benevento, dottor Filippella, il quale elevava rubrica contro i tre imputati riviandoli a giudizio con il rito direttissimo.
Così i giudici beneventani si trovarono di fronte ad un difficile e spinoso processo, anche per la notorietà del regista e l’eco internazionale che avrebbe avuto la sentenza. Non si dimentichiamo che la pellicola era stata premiata al Festival Internazionale di Berlino.
Nella prima giornata del processo vi fu la sorpresa della costituzione di parte civile, su espressa autorizzazione del ministro generale dell’Ordine, di padre Bonaventura (al secolo Adolfo Martinetto) dell’ordine monastico dei Francescani. I frati erano rimasti offesi da una scena del film, quella dell’inferno. I difensori degli imputati, avvocati Luigi Vessichelli , Franco Fusco e Giovanni Massaro, eccepivano la inammissibilità della costituzione per carenza di interesse e la mancanza di danno diretto. Dello stesso avviso era il pubblico ministero Michele Jannarone.Va ricordato che il Tribunale non acconsenti alla costituzione di parte civile dei monaci in quanto nel film i monaci non indossano sai appartenenti ad ordini religiosi, ma sono monaci e basta non identificabili come Francescani
Nel pomeriggio i magistrati, unitamente agli avvocati, visionarono il film in modo da avere un’idea diretta e globale del film.
Nella seconda giornata, sempre assenti il regista e il produttore (Pasolini si era recato in Medio Oriente per un suo prossimo film; Grimaldi era negli Stati Uniti), si procedeva ad una seconda visione con particolare riguardo alle scene incriminate.
Nel pomeriggio si aveva l’intervento del P.M. il dottor Jannarone che esprimeva il parere che un giudizio sull’intera pellicola non poteva che essere positiva dal punto di vista del livello artistico.
Anche gli episodi più scabrosi servivano al regista non per fare della pornografia ma per esprimere meglio la sua “filosofia”.
Prendevano poi la parola nell’ordine gli avvocati Vessichelli, Fusco e Massaro.
L’avvocato Vessichelli, non solo citava alcune recenti sentenze che dimostravano come il concetto del pudore medio sia estremamente diverso e difficilmente identificabile con esattezza, ma esibiva la fotografia del dipinto quattrocentesco di Giovanni da Modena, esistente nella basilica di San Petronio a Bologna. Nell’affresco si vede un enorme demonio che espelle, come appunto nell’inferno pasoliniano, le anime dannate. La riproduzione suscitava l’interesse dei giudici perché estremamente indicativa della concezione teologica e morale dell’epoca nella quale Chaucer scrisse i suoi racconti.
L’avvocato Fusco, come già in precedenza Vessichelli, chiariva che il gestore del cinema non poteva evidentemente essere colpevole. La pellicola aveva il visto della censura, era stata premiata ad un festival internazionale: poteva il proprietario del locale improvvisarsi censore, magari con il rischio di prendersi una denuncia dal registra e dal produttore?
Anche l’avvocato Massaro, del foro di Roma, insisteva sul fatto che il film doveva considerarsi opera d’arte e non spettacolo pornografico di basso livello. Citava a suo sostegno giudizi di critici cinematografici e dei tribunali che avevano precedentemente assolto gli altri film di Pasolini.
Il collegio giudicante, composta dal consigliere Daniele Cusani (presidente), che già si era espresso per un’acuta sentenza in tema di oscenità in occasione del film “Les biches” (anch’esso proiettato al Comunale), e dai giudici a latere Alfonso Bosco e Bruno Rotili, dopo mezz’ora di camera di consiglio decideva di assolvere i tre impuntati perché il fatto non consiste reato. Veniva disposto l’immediato dissequestro del film incriminato.
21 ottobre 1972
Il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, dottor Paolo Cesaroni propose appello telegrafico avverso la sentenza del 20 settembre, con la quale la prima sezione penale del Tribunale di Benevento assolveva il regista Pasolini, il produttore Grimaldi e il gestore del cinema-teatro Comunale Salvatore Iannelli.
L’appello della Procura generale di Napoli, bloccava anche il procedimento del giudice a quo sulla restituzione del film, con grande delusione di quanti attendevano di vederlo sia perché spinti da un a certa curiosità, sia per rendersi conto dell’effettivo contenuto della pellicola incriminata.
La difesa sostenne che il provvedimento del Tribunale di Benevento era esecutivo e promosse regolare incidente di esecuzione tendente ad ottenere l’immediato dissequestro dei “Racconti di Canterbury”.
5 novembre 1972
Il Tribunale, che era presieduto dal consigliere di cassazione dr. Pasquale Emilio Principe, con a latere i giudici dr. Donato Del Mese e Rocco Carbone, doveva esaminare l’incidente di esecuzione proposto dal produttore Grimaldi per ottenere il dissequestro della pellicola.
Durante l’udienza si fanno ricordare le parole del professor De Marsico: “Una parola di luce parta dai giudici del tribunale del Sannio; era già partita da magistrati illuminati e moderni ma si è fermata a mezza strada”. La richiesta era, ovviamente, la restituzione della pellicola incriminata.
7 novembre 1972
I giudici della 1° sezione penale del Tribunale di Benevento, dopo cinque giorni di camera di consiglio, sciolsero la riserva sull’incidente di esecuzione. Pur non entrando nel merito della questione, il giudice dichiarò “inammissibile in questa sede l’istanza proposta dagli imputati”.
L’ordinanza pose la difesa di Pasolini di fronte ad un bivio: impugnare l’ordinanza in Cassazione o accelerare il giudizio di appello. Entrambe le strada si rivelavano molto lunghe e tortuose e, come è facile intuire, con danno assai rilevante sia per il produttore che per il regista.
Mentre a Benevento si discuteva sul da farsi, in altre città (come Forlì e Genova), il film era ritornato sugli schermi.
10 dicembre 1972
Questa volta fu un frate, padre Antonio Gambale dei Cappuccini, a dolersi del contenuto de “I racconti di Canterbury” e pertanto il 7 dicembre, a mezzo della Procura di Napoli ha fatto pervenire a quella di Benevento, competente per territorio, istanza di punizione contro Pasolini, Grimaldi e Jannella.
Nella querela di padre Gambale(lo stesso che si vide rigettata la costituzione di parte civile proposta nel primo processo), si fa riferimento alla pellicola e alla sentenza assolutoria del Tribunale. Il padre cappuccino riteneva che sussistevano i reati di diffamazione e vilipendio alla religione dello Stato (articoli 595 e 402-403 del codice penale) a circo dei tre giudicabili. Difatti – si legge in querela – nel film appaiono nell’inferno pasoliniano figure clericali (monaci espulsi dall’ano di un demonio come escrementi), mentre il monaco è la figura predominante posta in dileggio.
Grimaldi, Pasolini e Janella – continua la querela – si sono resi responsabili inoltre di vilipendio alla religione dello Stato, perché “ogni atto e ogni sequenza del film sono accompagnati dal canto più sacro della liturgia cattolica”. La querela-denuncia di padre Gambale è corredata da una serie di articoli e pubblicazioni della stampa quotidiana e periodica, come “La fiamma ideale” di Antonio Guarino apparsa su “Il Mattino”.
Il nuovo processo a carico di Pasolini fu svolto il 15 dicembre 1972
Come fini tutta questa storia di querelle giudiziaria? Nell’unico modo che doveva finire. Finì col Dvd di “I racconti di Canterbury” che comprai sulla bancarella di Piazza Roma e i racconti di mio padre che limonava nel Cinema Comunale mentre un napoletano, ancora una volta, ci faceva fare una figura di m….
di Luigi Furno
FONTE: BMAGAZINE
Fonte: CONSULTA ONLINE
Un giorno mentre passeggiavo per Piazza Roma, mi avvicinai alla bancarella dei libri che sta da anni sul lato del Convitto. Rovistando tra libri e altre paccotaglie, trovai un Dvd. Era un film di Pasolini. Decisi di comprarlo al modico prezzo di 2 euro. Tornato a casa lo poggiai sul tavolo. Mio padre vedendolo mi raccontò che quel film lo aveva visto al cinema quando era uscito. Si ricordava perfettamente anche il giorno in cui andò a vederlo. Era il 2 settembre 1972.
Perché lo ricordava? Per una ragione molto semplice, quel film, “I Racconti di Canterbury” di Pasolini, quello stesso giorno in anteprima nazionale fu sequestrato perché scandaloso. Testuali parole di mio padre: “fu per colpa di un bacchettone napoletano e di un monaco che si scandalizzarono, manco non avessero mai visto un uomo di fede cacare”.
In pratica, noi beneventani cafoni di provincia, ci siamo macchiati dell’infamia di sequestrare un film di Pasolini, premiato a Berlino, per colpa di un “bacchettone” partenopeo cittadino ed emancipato.
La storia mi incuriosì tanto da ricercare la verità negli archivi cittadini.
20 settembre 1972
Un lungo applauso echeggia nell’aula della prima sezione del Tribunale di Benevento. Così fu accolta la sentenza che proscioglieva i tre imputati e dichiarava, sia pure indirettamente, il film “I racconti di Canterbury” di Pier Paolo Pasolini opera di valore artistico. Nonostante l’assenza del regista bolognese e del produttore Grimaldi per tutto l’arco processuale, la vicenda giudiziaria prese le vesti dell’evento pubblico per i beneventani che lo seguirono con curiosità ed interesse.
Insieme al regista e al produttore era imputato anche il gestore del cinema “Comunale”, nel 1972 il Teatro Comunale era un cinema, il locale dove era avvenuta in anteprima nazionale la proiezione della pellicola incriminata.
L’imputazione ai sensi dell’art. 110 e dell’art. 528 del Codice Penale era di aver dato, ciascuno nella sua qualità, pubblico spettacolo di oscenità. Tra l’altro l’imputazione affermava che “l’idea conduttrice del film è il disancoramento totale della sessualità da criteri deontologici, e l’idea non è proposta come prodotto del pensiero, ma come vaga giustificazione di un’opera di suggestione esercitata non su le facoltà intellettuali, ma a livello dei sensi e dell’istinto. Il tutto in un contesto di belle fotografie e di paesaggi privo di un valore artistico complessivo e di sintesi che annulli la sconcia volgarità delle scene erotiche e la prolungata esposizione del nudo non estetico ma pornografico e che valga a farla considerare opera d’arte”.
Il film è tratto da “The Canterbury Tales” opera di Geoffrey Chaucer, che, ad imitazione del Decamerone, rappresenta un pellegrinaggio sulla tomba di San Tommaso, Becket a Canterbury, compiuto da un gruppo di varia estrazione sociale, adunatasi in una taverna. L’oste propone che durante il viaggio ognuno racconti delle novelle; gli altri accettano; il viaggio si snoda così tra un racconto e l’altro.
Il film di Pasolini si avvale di una decina di questi racconti non tutti a sfondo sessuale, di cui abbonda l’opera inglese. Secondo la sentenza di assoluzione, “la sintesi di Pasolini non scade mai nella frammentarietà, cogliendo il collegamento ideale fra i vari episodi nell’evidente itinerario morale, simboleggiato dal travagliato viaggio dell’uomo sulla via della vita”.
Nel film il vero protagonista è il Demonio. “Un demonio”, secondo la sentenza, “sfacciato e impudico, presentato brutalmente agli spettatori adusi a considerarlo metaforicamente lontano e per ciò stesso quasi non temibile. Il film descrive, pertanto, l’inferno dell’umanità con un campionario sfacciato e disinibito delle sue sozzure, un campionario assolutamente non erotizzante, ma triste livido desolante, che può lasciare momentaneamente scioccato lo spettatore più sprovveduto, ma certo induce tutti a ripensamenti e a meditazioni”.
Accostando Chaucer a Dante, il pellegrinaggio diventa un pretesto per “scandagliare le anime nel ciclo del loro aggancio alla fluida esistenza terrena”. Sempre secondo la sentenza, Pasolini “cedendo all’ingenua tentazione di generalizzare i propri traumi e le personali vicende offre una visione iperpessimistica della vita, ponendo in crudo risalto la contraddizione di fondo fra le reali abiezioni e l’aspirazione mistica, sviluppando temi già affrontati nelle sue opere letterarie e filmiche”. Il Tribunale ricorda la vicenda del film “Teorema”, accusato e assolto di oscenità, nonostante avesse avuto il Premio dell’Office Catolique International du Cinema con la motivazione che il film, impregnato di quella “ambiguità che è il senso straziante della nostra epoca, richiama la presenza drammatica ed irriducibile dell’esperienza religiosa”.
Il film fu, pertanto, giudicato “opera valida a rinfacciare i mali spesso ipocritamente celati; incita lo spettatore a riflettere. Opera d’arte, dunque, anche per il contenuto d’intuizione universale, per la fiamma ideale che suscita, per l’elevatezza dell’ispirazione mistica cui conduce”.
La legge censoria imponeva di qualificare osceno tutto quello che non rientrava nella sfera dell’opera d’arte. Per giudicare se un film era opera d’arte, andavano esaminati il soggetto, la sceneggiatura, la recitazione, la musica, la fotografia, l’accuratezza dei particolari, la presentazioni degli ambienti. In verità, oggi le cose non sono tante diverse. Il problema, semmai, sta nel chi deve decidere, tenendo presente questi elementi, se un film è un’opera d’arte o no. Non è tanto stano, allora, se, in un paese come il nostro dove le storture sono all’ordine del giorno, un cinepanettone usufruisce dei finanziamenti pubblici perché considerato di rilevanza culturale.
La cronaca delle udienze
“I racconti di Canterbury” furono proiettati a Benevento il 2 settembre del 1972. Non vi furono proteste da parte del pubblico sannita, tranne che di uno spettatore “napoletano”.
Il 5 settembre giunse alla Procura di Benevento un esposto del dott. Gaetano Trotta, che riteneva lo spettacolo impudico e censurabile.
Il magistrato inquirente non fu dello stesso avviso, inviando il giorno successivo la denunzia al giudice istruttore per il decreto di non doversi promuovere l’azione penale. In particolare il magistrato ritenne che “non sussiste l’oscenità dell’immagine”.
Vi furono altre denunce in varie città italiane (il film era balzato ai primi posti per incassi, al pari di un film di Federico Moccia).
A Firenze la Procura generale fece esaminare l’opera di Pasolini da tre magistrati. Il giudizio fu nettamente negativo e gli atti furono trasmessi alla Procura generale di Napoli, competente territorialmente.
Il dottor Cesaroni, dopo altre indagini svolte nella città partenopea, inviava gli atti al procuratore della repubblica di Benevento, dottor Filippella, il quale elevava rubrica contro i tre imputati riviandoli a giudizio con il rito direttissimo.
Così i giudici beneventani si trovarono di fronte ad un difficile e spinoso processo, anche per la notorietà del regista e l’eco internazionale che avrebbe avuto la sentenza. Non si dimentichiamo che la pellicola era stata premiata al Festival Internazionale di Berlino.
Nella prima giornata del processo vi fu la sorpresa della costituzione di parte civile, su espressa autorizzazione del ministro generale dell’Ordine, di padre Bonaventura (al secolo Adolfo Martinetto) dell’ordine monastico dei Francescani. I frati erano rimasti offesi da una scena del film, quella dell’inferno. I difensori degli imputati, avvocati Luigi Vessichelli , Franco Fusco e Giovanni Massaro, eccepivano la inammissibilità della costituzione per carenza di interesse e la mancanza di danno diretto. Dello stesso avviso era il pubblico ministero Michele Jannarone.Va ricordato che il Tribunale non acconsenti alla costituzione di parte civile dei monaci in quanto nel film i monaci non indossano sai appartenenti ad ordini religiosi, ma sono monaci e basta non identificabili come Francescani
Nel pomeriggio i magistrati, unitamente agli avvocati, visionarono il film in modo da avere un’idea diretta e globale del film.
Nella seconda giornata, sempre assenti il regista e il produttore (Pasolini si era recato in Medio Oriente per un suo prossimo film; Grimaldi era negli Stati Uniti), si procedeva ad una seconda visione con particolare riguardo alle scene incriminate.
Nel pomeriggio si aveva l’intervento del P.M. il dottor Jannarone che esprimeva il parere che un giudizio sull’intera pellicola non poteva che essere positiva dal punto di vista del livello artistico.
Anche gli episodi più scabrosi servivano al regista non per fare della pornografia ma per esprimere meglio la sua “filosofia”.
Prendevano poi la parola nell’ordine gli avvocati Vessichelli, Fusco e Massaro.
L’avvocato Vessichelli, non solo citava alcune recenti sentenze che dimostravano come il concetto del pudore medio sia estremamente diverso e difficilmente identificabile con esattezza, ma esibiva la fotografia del dipinto quattrocentesco di Giovanni da Modena, esistente nella basilica di San Petronio a Bologna. Nell’affresco si vede un enorme demonio che espelle, come appunto nell’inferno pasoliniano, le anime dannate. La riproduzione suscitava l’interesse dei giudici perché estremamente indicativa della concezione teologica e morale dell’epoca nella quale Chaucer scrisse i suoi racconti.
L’avvocato Fusco, come già in precedenza Vessichelli, chiariva che il gestore del cinema non poteva evidentemente essere colpevole. La pellicola aveva il visto della censura, era stata premiata ad un festival internazionale: poteva il proprietario del locale improvvisarsi censore, magari con il rischio di prendersi una denuncia dal registra e dal produttore?
Anche l’avvocato Massaro, del foro di Roma, insisteva sul fatto che il film doveva considerarsi opera d’arte e non spettacolo pornografico di basso livello. Citava a suo sostegno giudizi di critici cinematografici e dei tribunali che avevano precedentemente assolto gli altri film di Pasolini.
Il collegio giudicante, composta dal consigliere Daniele Cusani (presidente), che già si era espresso per un’acuta sentenza in tema di oscenità in occasione del film “Les biches” (anch’esso proiettato al Comunale), e dai giudici a latere Alfonso Bosco e Bruno Rotili, dopo mezz’ora di camera di consiglio decideva di assolvere i tre impuntati perché il fatto non consiste reato. Veniva disposto l’immediato dissequestro del film incriminato.
21 ottobre 1972
Il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, dottor Paolo Cesaroni propose appello telegrafico avverso la sentenza del 20 settembre, con la quale la prima sezione penale del Tribunale di Benevento assolveva il regista Pasolini, il produttore Grimaldi e il gestore del cinema-teatro Comunale Salvatore Iannelli.
L’appello della Procura generale di Napoli, bloccava anche il procedimento del giudice a quo sulla restituzione del film, con grande delusione di quanti attendevano di vederlo sia perché spinti da un a certa curiosità, sia per rendersi conto dell’effettivo contenuto della pellicola incriminata.
La difesa sostenne che il provvedimento del Tribunale di Benevento era esecutivo e promosse regolare incidente di esecuzione tendente ad ottenere l’immediato dissequestro dei “Racconti di Canterbury”.
5 novembre 1972
Il Tribunale, che era presieduto dal consigliere di cassazione dr. Pasquale Emilio Principe, con a latere i giudici dr. Donato Del Mese e Rocco Carbone, doveva esaminare l’incidente di esecuzione proposto dal produttore Grimaldi per ottenere il dissequestro della pellicola.
Durante l’udienza si fanno ricordare le parole del professor De Marsico: “Una parola di luce parta dai giudici del tribunale del Sannio; era già partita da magistrati illuminati e moderni ma si è fermata a mezza strada”. La richiesta era, ovviamente, la restituzione della pellicola incriminata.
7 novembre 1972
I giudici della 1° sezione penale del Tribunale di Benevento, dopo cinque giorni di camera di consiglio, sciolsero la riserva sull’incidente di esecuzione. Pur non entrando nel merito della questione, il giudice dichiarò “inammissibile in questa sede l’istanza proposta dagli imputati”.
L’ordinanza pose la difesa di Pasolini di fronte ad un bivio: impugnare l’ordinanza in Cassazione o accelerare il giudizio di appello. Entrambe le strada si rivelavano molto lunghe e tortuose e, come è facile intuire, con danno assai rilevante sia per il produttore che per il regista.
Mentre a Benevento si discuteva sul da farsi, in altre città (come Forlì e Genova), il film era ritornato sugli schermi.
10 dicembre 1972
Questa volta fu un frate, padre Antonio Gambale dei Cappuccini, a dolersi del contenuto de “I racconti di Canterbury” e pertanto il 7 dicembre, a mezzo della Procura di Napoli ha fatto pervenire a quella di Benevento, competente per territorio, istanza di punizione contro Pasolini, Grimaldi e Jannella.
Nella querela di padre Gambale(lo stesso che si vide rigettata la costituzione di parte civile proposta nel primo processo), si fa riferimento alla pellicola e alla sentenza assolutoria del Tribunale. Il padre cappuccino riteneva che sussistevano i reati di diffamazione e vilipendio alla religione dello Stato (articoli 595 e 402-403 del codice penale) a circo dei tre giudicabili. Difatti – si legge in querela – nel film appaiono nell’inferno pasoliniano figure clericali (monaci espulsi dall’ano di un demonio come escrementi), mentre il monaco è la figura predominante posta in dileggio.
Grimaldi, Pasolini e Janella – continua la querela – si sono resi responsabili inoltre di vilipendio alla religione dello Stato, perché “ogni atto e ogni sequenza del film sono accompagnati dal canto più sacro della liturgia cattolica”. La querela-denuncia di padre Gambale è corredata da una serie di articoli e pubblicazioni della stampa quotidiana e periodica, come “La fiamma ideale” di Antonio Guarino apparsa su “Il Mattino”.
Il nuovo processo a carico di Pasolini fu svolto il 15 dicembre 1972
Come fini tutta questa storia di querelle giudiziaria? Nell’unico modo che doveva finire. Finì col Dvd di “I racconti di Canterbury” che comprai sulla bancarella di Piazza Roma e i racconti di mio padre che limonava nel Cinema Comunale mentre un napoletano, ancora una volta, ci faceva fare una figura di m….
di Luigi Furno
FONTE: BMAGAZINE
SENTENZA N. 56
ANNO 1974
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Giuseppe VERZÌ
Avv. Giovanni Battista BENEDETTI
Dott. Luigi OGGIONI
Dott. Angelo DE MARCO
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI
Avv. Leonetto AMADEI
Dott. Giulio GIONFRIDA
Prof. Edoardo VOLTERRA
Prof. Guido ASTUTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 622 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 aprile 1973 dal tribunale di Benevento sull'incidente di esecuzione proposto da Grimaldi Alberto, iscritta al n. 262 del registro ordinanze 1973 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 163 del 27 giugno 1973.
Udito nella camera di consiglio del 18 dicembre 1973 il Giudice relatore Giovanni Battista Benedetti.
Ritenuto in fatto
Con sentenza 20 ottobre 1972 il tribunale di Benevento assolveva Grimaldi Alberto, Pasolini Pier Paolo e Iannelli Salvatore - il primo produttore, il secondo regista del film "I racconti di Canterbury" ed il terzo gestore del cinema - teatro comunale di Benevento ove per la prima volta era stato proiettato detto film - dal delitto di spettacolo osceno previsto dall'art. 528 c.p. perché il fatto non costituisce reato e ordinava "la restituzione del film sequestrato agli aventi diritto", rilevando, però, nella parte motiva della decisione che il dissequestro non poteva essere immediato, così come richiesto, essendo la sentenza impugnabile.
Avverso questa parte della decisione gli interessati proponevano incidente di esecuzione con istanza del 23 ottobre 1972 insistendo sull'immediata attuazione dell'ordine di restituzione contenuto nel dispositivo della sentenza, ma il tribunale, con ordinanza 7 novembre 1972, dichiarava inammissibile l'istanza sul rilievo che la questione circa l'immediato dissequestro aveva già formato oggetto della precedente decisione e che sulla stessa - stante il principio del ne bis in idem - doveva ora pronunciarsi non più il giudice a quo, ma il giudice di appello dato che la sentenza era stata impugnata sia dagli imputati, sia dal procuratore generale della Corte di appello di Napoli.
Contro l'ordinanza suddetta gli imputati proponevano ricorso alla Corte di cassazione la quale con sentenza 21 dicembre 1972 annullava l'ordinanza impugnata e rinviava gli atti al tribunale per una nuova deliberazione osservando che erroneamente era stato richiamato il principio del ne bis in idem per dichiarare inammissibile l'incidente di esecuzione poiché sulla questione dell'immediato dissequestro del film non era stata emessa una decisione irrevocabile.
Con ordinanza 9 gennaio 1973 il tribunale - dopo aver osservato che il disposto dell'art. 576, terzo comma, c.p.p., ai sensi del quale a seguito della sentenza di proscioglimento é disposta l'immediata scarcerazione dell'imputato detenuto, deve trovare applicazione anche nel caso di sequestro di un film, giacché questo provvedimento comporta la privazione dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione - ordinava l'immediato dissequestro del film.
Su ricorso proposto dal procuratore della Repubblica di Benevento la Corte di cassazione con sentenza 2 aprile 1973 annullava senza rinvio, per violazione di legge, l'ordinanza 9 gennaio 1973 rilevando che la norma contenuta nell'art. 576, comma terzo, c.p.p. é disposizione di eccezione che trova applicazione solo in tema di provvedimenti restrittivi della libertà personale e che la questione della restituzione di un film sequestrato per oscenità, va, invece, risolta in base al coordinamento delle norme contenute negli artt. 240, primo capoverso, n. 2, c.p., 576, primo e terzo comma, e 622, primo, quarto e quinto comma, c.p.p., i quali non consentono la restituzione di cose sequestrate di cui debba ordinarsi la confisca in caso di condanna.
A seguito di detta decisione il procuratore della Repubblica di Benevento con proprio decreto del 4 aprile 1973 ordinava nuovamente il sequestro del film "I racconti di Canterbury" ed il Grimaldi, dal suo canto, con istanza del 7 aprile successivo, proponeva nuovo incidente di esecuzione eccependo la illegittimità costituzionale delle norme del codice di rito che non consentirebbero la restituzione del film dopo la sentenza di proscioglimento di primo grado.
L'eccezione veniva accolta dal tribunale di Benevento che con ordinanza 17 aprile 1973 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 622 c.p.p. in riferimento agli artt. 21, 27 e 33 della Costituzione.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte nessuno si é costituito.
Considerato in diritto
La questione sottoposta all'esame della Corte con ordinanza 17 aprile 1973, emessa dal tribunale di Benevento nel procedimento incidentale di esecuzione penale promosso dal produttore del film "I racconti di Canterbury" con istanza 7 aprile stesso anno, riguarda l'art. 622 del codice di procedura penale ritenuto costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 21, 27 e 33 Cost., nella parte in cui tale norma sembrerebbe richiedere in ogni caso, per il dissequestro dei corpi di reato, l'esistenza di una sentenza irrevocabile di proscioglimento senza far salvi i casi in cui il sequestro si traduca nella privazione o limitazione di fondamentali diritti di libertà garantiti dalla Costituzione.
Risulta dagli atti che con sentenza 20 ottobre 1972 il tribunale assolveva il produttore e il regista del film dall'imputazione di spettacolo osceno ai sensi dell'art.529, comma secondo, del codice penale.
Con istanza del successivo 23 ottobre gli interessati proponevano incidente di esecuzione per ottenere l'immediato dissequestro del film non disposto con la predetta sentenza. Con ordinanza 9 gennaio 1973 l'istanza veniva accolta sul rilievo che, nel caso di specie, dovessero trovare applicazione le norme contenute negli artt. 576, comma terzo, c.p.p. e 37 delle disposizioni di attuazione che impongono l'immediata scarcerazione degli imputati prosciolti con sentenza non definitiva. Contro l'ordinanza veniva proposto ricorso dal p.m. alla Corte di cassazione, la quale con sentenza 2 aprile 1973 annullava senza rinvio, per violazione di legge, la citata ordinanza di dissequestro immediato 9 gennaio 1973 del tribunale rilevando che, in tema di restituzione di un film sequestrato per oscenità, non potevano essere applicate le norme di eccezione relative a provvedimenti restrittivi della libertà personale, bensì le disposizioni di cui agli artt. 240 c.p., 576 e 622 c.p.p. le quali non consentono la restituzione di cose sequestrate di cui debba ordinarsi la confisca qualora in prosieguo di giudizio intervenga condanna.
Orbene é di tutta evidenza che, alla stregua delle indicate vicende processuali, la proposta questione di legittimità costituzionale non può allo stato trovare ingresso in questa sede.
Nel procedimento incidentale di esecuzione, avente ad oggetto la conservazione o meno del sequestro di un film prima di una definitiva sentenza di proscioglimento, é intervenuta una decisione irrevocabile della suprema Corte di cassazione. Per il principio della preclusione processuale di cui all'art. 90 c.p.p. - che opera anche in tema di procedimenti incidentali non poteva essere più riproposta nei medesimi termini, tra le stesse parti e dinanzi allo stesso giudice la questione già definitivamente discussa e risolta. L'eccezione di incostituzionalità, che avrebbe potuto essere correttamente sollevata dinanzi al tribunale o alla Corte di cassazione prima che sulla questione del dissequestro o non del film si fosse formato il giudicato, va perciò dichiarata inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 622 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 21, 27 e 33 della Costituzione, con ordinanza l7 aprile 1973 del tribunale di Benevento.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 1974.
Francesco Paolo BONIFACIO - Giuseppe VERZÌ- Giovanni Battista BENEDETTI - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Giulio GIONFRIDA - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI.
Arduino SALUSTRI - Cancelliere
Depositata in cancelleria il 6 marzo 1974.
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