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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

giovedì 5 febbraio 2015

Pasolini e la questione linguistica

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini e la questione linguistica

Valerio Cruciani


Tra i tanti fili di Arianna che possiamo scegliere e seguire in un tentativo ermeneutico dell'opera pasoliniana, c'è sicuramente quello della cosiddetta questione linguistica. Fin dalle prime opere, infatti, possiamo distinguere sia brevi cenni che interi interventi più articolati intorno al problema, che in Pasolini è così preminente e decisivo soprattutto a causa della contingenza biografica, che lo vede inserito fin dalla prima infanzia in un mondo rurale dove preponderante è il dialetto, e dove la lingua è ancora una possibilità remota, accessibile solo ad una classe abbiente (alla quale apparteneva appunto il Pasolini universitario).
Pasolini, ragazzo borghese e colto, porterà con sé fino alla fine gli estremi sviluppi ideologici di questo complesso rapporto tra dialetto e lingua: tra mondo materno e mondo paterno, tra mondo precapitalistico e rivoluzione neocapitalistica, tra adesione sentimentale - prima che razionale - alle minoranze della penisola e rifiuto di un'unità nazionale dai caratteri esclusivisti e borghesi.
A questo problema centrale se ne lega direttamente un altro, che riguarderà più da vicino la nostra disamina: la riflessione stilistica di Pasolini poeta, e le conseguenze sul suo poetare. In particolare, quando ci soffermeremo sull'analisi della raccolta Le ceneri di Gramsci[1], ci confronteremo con il problema dello sperimentalismo in Pasolini, che prende le mosse proprio dal maturare della sua riflessione sulla lingua italiana, e allo stesso tempo informa questa dei propri risultati.
Se decidessimo di passare rapidamente al vaglio gli interventi dell'autore sull'annoso tema qui scelto, ci accorgeremmo subito di una difficoltà: che consiste nel separare razionalmente le dichiarazioni dirette del Nostro dai mille impliciti riferimenti indiretti. Più si approfondisce la lettura dell'intera opera di Pasolini, più ci si rende conto che la fitta rete di richiami interni ed esterni, il materiale letterario ed extraletterario, le implicazioni psicologiche, lo spirito provocatorio e dilettantesco (nell'accezione etimologica del termine), il coinvolgimento personale e politico, insomma tutto concorre a complicare la trama intessuta negli anni da un autore forse tra i più continuativi nel perseguire il proprio sogno di una cosa. Cosicché il separare e il discernere rischia di lasciare indietro altre cose importanti e di risultare, alla fin fine, operazione velleitaria e adulterante. Ma forse è un rischio che bisogna correre, e che anzi tutti corrono nell'affrontare l'opera pasoliniana, a vantaggio di una parcellizzazione delle problematiche sollevate dai testi, per una migliore comprensione specialistica che non perda d'occhio comunque l'interezza del corpus.
Così, a voler essere puntigliosi e magari un po' sadici col nostro paziente lettore, si potrebbe davvero istituire una sorta di bibliografia delle citazioni sul tema "lingua". Lasceremo arbitrariamente fuori il corpus poetico, che riprenderemo in un secondo, distinto momento.

Seduto sulla dura panca, guardavo il paesaggio veneto, e quel verde rosicchiato dall'autunno, quelle case isolate dove si diceva 'pare', 'mare', 'fradèo', 'gèrimo', 'l'è morto'…[2]

Natura geografica tradotta in natura umana, il Friuli più perfetto è nei canti del popolo friulano.[3]

Ora, stabilito filologicamente (cioè con un volontario ritorno alle teorie ascoliane) che il nostro friulano non può essere equamente considerato un dialetto; e soprattutto stabiliti i canoni, gratuiti fin che si vuole, secondo cui, se innestato in una tradizione in lingua, e divenuto quasi metafora di questa lingua, il friulano può riscattarsi non teoricamente ma praticamente dalla sua inferiore condizione di dialetto; noi ci siamo messi risolutamente per questa strada, ed ora il secondo numero del nostro florilegio [lo Stroligùt] può testimoniare, io credo, quanto sia attuabile la disponibilità letteraria del nostro vecchio friulano.[4]

Il friulano di Casarsa si è prestato quietamente a farsi tramutare in linguaggio poetico.[5]

E' nata l' 'Academiuta di lenga furlana' […] Glottologicamente torniamo alle teorie dell'Ascoli, cioè all'affermazione dell'esistenza di una lingua ladina; poeticamente questa lingua è […] una favella inventata, da innestarsi nel tronco della tradizione italiana e non già di quella friulana; da usarsi con la delicatezza di un'ininterrotta, assoluta metafora.[6]

Bisogna indicare il friulano come lingua virtuale, in cui è possibile ascoltare le sillabe ancora vergini, cioè piene della loro equivalenza al reale; bisogna innestare un tale friulano nel più recente clima poetico europeo e italiano, proponendoci di inaugurare finalmente, in Friuli, una poesia 'nazionale'.[7]

Il friulano ha bisogno di traduzioni essendo queste il passo più probatorio per una sua promozione a lingua.[8]

Vedere tutto l'articolo dal titolo Ragioni del friulano, in "Il Mattino del Popolo", 2/11/1948, ora in P.P.Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Teadue, Parma 1995, pp. 236-238.

A prima vista il profano stenterebbe a ravvisare nei quattro ottonari a rima alternata della villotta friulana caratteri così decisi di eccezionalità: infatti, se possedesse l'orecchio necessario al raccoglitore di canti, avvertirebbe da Venezia in su […] la presenza delle villotte, che sono poi gli equivalenti dei rispetti o degli strambotti centromeridionali risaliti al Nord: in endecasillabi, quindi, e a rime non necessariamente alternate. E chi appunto ha pratica della stilizzazione popolare, sa bene quale salto divida un endecasillabo da un ottonario per un ripetitore o diffusore di poesia popolare: tanto da escludere […] la coincidenza dell'importazione di un canto con la sua traduzione; e da dedurre quindi una diversa strada migratoria del canto popolare friulano, se non proprio la sua assoluta originalità.[9]

Ecco allora chiarirsi la funzione della poesia nella scuola come coscienza lingüística, come iniziazione all'inventio, dopo il chiarimento grammaticale, sintattico e fraseologico dell'istituzione linguistica, l'inventum. Ma se si tiene conto che ad ogni approfondimento sentimentale, a ogni scoperta interiore corrisponde un approfondimento e una scoperta linguistica, e viceversa, si vedrà quale ulteriore importanza può avere una poesia il cui funzionamento sia così inteso, quando giunga a mettere in movimento il meccanismo mentale che conduce dalla introspezione alla espressione e viceversa.[10]

Le donne con lui faticavano a parlare in italiano, e usavano uno strano linguaggio, di cui poi ridevano come pazze, nascondendosi la bocca dietro la mano callosa, quando qualche parola o qualche frase riusciva più maccheronica del resto.[11]

La campagna fredda come una stanza durante le pulizie mattutine, grondava di quel senso quasi dialettale della primavera, tra pareti di gelo e vene di tepore, meglio che periferia, pianura indifesa al dilagare di orde barbariche.[12]

Col cuore devastato dall'emozione riconoscevo i vecchi gesti […]; riconoscevo gli odori serali del fumo, della polenta e del gelo; riconoscevo le inflessioni della lingua, le sue vocali aperte, le sue sibilanti che giungevano, in un attimo di strana lucidità, a sfiorare il senso segreto, inesprimibile, nascosto in tutto quel mondo.[13]

'Il tuo occhio è un sole - e il tuo occhio è una luna…' canterellò Desiderio, ma traducendo i versi di Tommaseo in dialetto, così che il suo poteva passare per uno sfogo un po' pazzo di buon umore[…][14]

Vedere diversi punti di P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962 (qui: Milano 2000), pp. 52-53, 109, 112-113, 184.

Tutti i due romanzi romani, Ragazzi di vita e Una vita violenta, in una qualsiasi edizione Garzanti.

I saggi raccolti in Passione e Ideologia, Einaudi, Torino 1985, in particolare quelli dedicati alle antologie di poesia dialettale e poesia popolare.

Vedere P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972 (qui: Milano 1995), in particolare tutto il saggio Nuove questioni linguistiche, pp. 5-24.

Da P.P. Pasolini, I Dialoghi, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 67-70, 298-300, 300-301, 309-310, 380-383, 385, 389-391.

Vedere P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975, in particolare la Nota 2.

Vedere P.P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976.

Stesso autore, Volgar'eloquio, Athena materiali e strumenti, Napoli 1976.

Evidentemente l'elenco qui sopra riportato è inficiato da gravi lacune (manca all'appello ancora una buona parte dell'opera di Pasolini), ma può già essere utilizzato per i nostri scopi.
Come si vede chiaramente, il problema della lingua va dalle prime apparizioni saggistiche del periodo bolognese e friulano, per coinvolgere, intrecciandovisi, la materia affabulatoria dei primi romanzi e racconti, fino a prendere sempre più spazio nei dibattiti pubblici (momento centrale sarà proprio il saggio Nuove questioni linguistiche che susciterà un vespaio di polemiche pro o contro l'autore, dividendo il mondo intellettuale italiano tra detrattori e incensatori di Pasolini[15]), per arrivare a quella completa simbiosi tra teoria e pratica dello scrivere nei due romanzi del periodo romano.
L'argomento, col prendere sempre più spazio nella riflessione dell'autore, va sempre più a mescolarsi ad altra materia vitale: la politica (dall'autonomia del Friuli al socialismo gramsciano), la pedagogia (esempio supremo sarà il Gennariello di Lettere luterane), la riflessione poetica, la sociologia, la psicologia, coinvolgendo in questo turbine tutta la produzione artistica dello stesso Pasolini, dalla letteratura al teatro al cinema.

Ora, è in questo contesto che possiamo inserire almeno altre due citazioni importanti: la prima proviene dalla giovanile esperienza fatta come redattore del Setaccio, la seconda dalla raccolta dei Dialoghi tenuti con i lettori nei primi anni Sessanta sulle pagine di Vie Nuove.
Entrambe i brani hanno valore programmatico; secondo l'ottica di diversi studiosi che vedremo più avanti, l'opera di Pasolini è completamente 'giustificata' dal suo essere sperimentatore di forme e di generi.

La tradizione non è un obbligo, una strada, e neanche un sentimento o un amore: bisogna ormai intendere questo termine in un senso antitradizionale, cioè di continua e infinita trasformazione, ossia antitradizionale, scandita da una linea immutabile, che è simile alla storicità per la storia.[16]

Anche i miei più fieri sperimentalismi non prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana ed europea. Bisogna strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione […] Solo la rivoluzione può salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla […][17]

Ma in cosa consiste questo sperimentalismo pasoliniano? Lui stesso si è sempre detto anti-novecentista, si è sempre opposto sia alla matrice ermetica, sia al futurismo sia alla più recente neo-avanguardia. L'unica indicazione ci viene proprio dalle sue dichiarazioni, e le due poco prima riportate costituiscono un esempio paradigmatico: non c'è sperimentazione poetica che possa prescindere dalla tradizione, dato che compito del poeta è rinnovare il linguaggio, operazione possibile solo a partire dalla storia di quel linguaggio[18].
E proprio a proposito di storia, credo sia illuminante proporre qui uno schema riassuntivo delle problematiche sollevate da Pasolini nel famoso articolo Nuove questioni linguistiche[19]:
definizione di koinè come italiano "medio" usato dalla media borghesia; un pura astrazione grammaticale, una lingua in realtà dualisticamente scissa in lingua letteraria e lingua strumentale;
problema del rapporto tra gli scrittori e la koinè, dal quale scaturiscono tre linee: media (italiano irreale e scolastico); alta (sublime e classicistica); bassa (veristico-dialettale);
nascita e fine del realismo: inizialmente lo scrittore esercitava il proprio "mandato" attraverso l'uso del discorso indiretto libero, grazie al quale poteva diffondere la conoscenza del linguaggio e della coscienza popolare; con la crisi epocale provocata dallo sviluppo economico del dopoguerra, scade il "mandato", dando vita a due tipi di reazione: quella purista, classicista o ermetica, e quella della neo-avanguardia. Reazione che è anche restaurazione borghese:
opposizione comunicatività - espressività, a partire dal linguaggio dei mezzi mediatici, in quali operano una strumentalizzazione dell'italiano;
nuovi centri di innovazione e unificazione linguistica sono le aziende; finisce così l'osmosi dell'italiano con il latino e comincia quella con il linguaggio tecnologico;
la nuova lingua è finalmente unitaria, si basa sui principi della strumentalizzazione comunicativa e dell'omologazione di massa: nasce l'egemonia culturale della classe neocapitalistica. La lingua dell' "Italia reale" rientra nel ciclo produzione-consumo, vincendo sull' "Italia retorica";
il nuovo "mandato" dello scrittore consiste nel conoscere "scientificamente" la realtà, impadronirsi della nuova lingua e operare su essa in senso espressionistico, al fine di affermare la propria libertà, in un rifiuto anticonformista dell'omologazione.

Per diversi mesi si susseguirono sulle pagine di molti giornali e riviste gli articoli in polemica con le affermazioni di Pasolini; le obiezioni principali che si muovevano allo scrittore ruotavano intorno a diversi poli: velleitarismo soggettivistico; mancanza di competenza scientifica per affrontare il problema; necessità di una lingua davvero unitaria fondata sulla semplicità sintattica e sull'esattezza dei termini, una lingua che fosse comunicativa e non allusiva, diffusa con l'insegnamento scolastico (in particolare si vedano gli articoli di Pietro Citati, Italo Calvino, Cesare Segre in Nuove questioni linguistiche, a.c. di Oronzo Parlangeli, op. cit.). Le poche espressioni di solidarietà con Pasolini vennero da scrittori come Vittorini e Silone. Lo stesso Pasolini si difenderà a più riprese affermando che il suo è un discorso politico e non linguistico. E in effetti così va letto l'articolo, dato che gettando un occhio alla produzione saggistica successiva, notiamo che sempre in chiave politica Pasolini continuerà a parlare di questione linguistica, strettamente connessa all'altra questione, quella dello sviluppo economico dell'Italia.
Ora, qui il nostro compito non è certamente quello di dare ragione a Pasolini o ai suoi oppositori; dobbiamo anzi riprendere subito i fili del discorso interrotto poco sopra, per verificare la stretta connessione tra il problema dello sperimentalismo pasoliniano e la sua riflessione politico-linguistica.
Se ci avviciniamo a Le ceneri di Gramsci, notiamo subito che la stesura degli undici poemetti ricopre un lungo arco di tempo, quasi tutti gli anni Cinquanta, gli anni del trasferimento a Roma dell'autore, ma anche gli anni dello sviluppo e del declino della poetica neorealista.
Stando ad una prima e incompleta cernita degli interventi critici pubblicati intorno a questa silloge (a partire dal 1970 fino al 1998), ci rendiamo conto che lo spunto maggiore è offerto proprio dalla riflessione intorno alla lingua poetica di Pasolini come officina di un nuovo sperimentalismo, in relazione con il problema della venuta del poeta a Roma, alla quale segue la lettura di Gramsci e il contatto con una realtà popolare tutta diversa rispetto a quella friulana, da cui scaturisce una traumatica presa di coscienza della realtà storica.
La maggior parte dei critici è concorde nel ritenere Le ceneri la prova del carattere innovativo dello sperimentalismo poetico pasoliniano; altri sono quelli che sostengono il contrario, considerando la raccolta come segno del fallimento del progetto pasoliniano di rinnovamento del linguaggio poetico italiano; altri ancora rimangono su posizioni in un certo senso intermedie, valutando le implicazioni positive e negative del fare poetico del Nostro, nei suoi successi e insuccessi.
La presa di coscienza storica di cui parlavamo poco sopra, è sicuramente preliminare alla presa di posizione segnata dall'articolo del '64: infatti nel '50, se vogliamo, Pasolini si ritrova ancora il cosiddetto "mandato" dello scrittore realista, che scadrà invece negli anni Sessanta con il boom economico, cosa che lo porterà ad un diverso operare artistico (abbandonerà quasi totalmente la poesia e la prosa per dedicarsi al cinema) e all'abiura dalla poetica degli anni Cinquanta, e quindi dalle Ceneri stesse. Abiura che avrà conseguenze importanti fino a tutto il '75, anno della disgraziata morte del poeta. Questo sta a dimostrare, secondo noi, la grande organicità del pensiero di Pasolini, seppur attraversato da correnti spesso contraddittorie, dovute alla sua spiccata e irrequieta personalità.
Lungo la linea dei sostenitori dello sperimentalismo, poniamo innanzitutto l'importante saggio di Walter Siti sull'endecasillabo delle Ceneri[20]. Egli sostiene che l'intera operazione poetica di Pasolini è tesa a scardinare programmaticamente la regolarità dell'endecasillabo, secondo due direzioni: o verso la complicazione (attrazione verso la prosa e l'ipermetria), o verso la semplificazione (che comporta la distruzione del metro con giochi interni al verso). Questo impellente "desiderio di violazione"[21] è spiegato come sintomo della bipolarità psicologica dell'autore, teso verso la madre da una parte (in un rapporto non risolto e circolare) e dall'altra verso il padre (per il quale però prova anche una forte repulsione, vivendolo come simbolo della regola rigida, dell'alienazione di sé e della propria diversità). Quindi l'oscillare del verso pasoliniano intorno all'endecasillabo, sta a significare un oscillare irrisolto del poeta intorno alla figura del padre-autorità.
Tutta questa operazione è consapevolmente portata avanti anche grazie alla mediazione culturale dell'opera pascoliana, profondamente assorbita da Pasolini fin dagli anni universitari[22]. In particolare Siti si riferisce ai poemetti del Pascoli, dove la "forzatura metrica" dell'endecasillabo è attiva, "vuole insistere stilisticamente su un certo significato"[23], mentre la doppia forzatura che pratica Pasolini rivela nel verso una "passività nei confronti delle forze che l'hanno disarticolato".[24]
Nel resto dell'articolo il critico espone una serie di esempi attraverso i quali Pasolini avrebbe operato in direzione di una complicazione o di una semplificazione del verso regolare: nel primo caso si parla di aggiunta di parole alla fine dell'endecasillabo, di elusione della rima, di aggiunta in principio di verso, di iati e accenti forzati, ecc. Nel secondo caso si parla di giochi fonici (come allitterazioni, consonanze, anagrammi), di bipartizione del verso, di "frequenza delle ripetizioni"[25], ecc.
Sempre lungo la stessa linea, ma per motivi diversi da quelli del Siti, si pone il saggio di Giorgio Bertone[26]. Lo studioso si sofferma non sulla misura del verso (ma in realtà proprio per questo polemizzerà con Siti, sostenendo che quello che esso chiama endecasillabo ipermetro, per lui è semplicemente un doppio settenario), ma sull'uso della rima in tutti i suoi molteplici risvolti. Le prime due cose da sottolineare sono: 1) "l'imitazione del poemetto pascoliano in terzine"[27], 2) l'applicazione di un concetto allargato di rima.
Quello che bisogna notare è che al contrario di Siti e di altri, Bertone afferma che la "dizione" poetica di Pasolini qui è tutta scandita, comunicativa, e lo dimostra prendendo a dimostrazione i molti trattini di distacco usati nei poemetti per sottolineare i momenti parentetici, o anche guardando all'uso frequente dell'enjambement che pone in inarcatura (e quindi in evidenza) molte figure retoriche importanti e significative (come i fenomeni legati alla sineciosi), o all'interno della strofa o in posizione interstrofica. Procedimento ripreso direttamente dal Pascoli, ma per raggiungere esiti diversi: non la cantabilità dimessa, ma l'eloquenza oratoria.
Per la rima Bertone parlerà di un contesto metrico anisosillabico, nel quale si inseriscono trovate foniche di ogni genere ("opposizione-assimilazione di liquide, di nasali e modificazione della sillaba atona finale"[28]).
Evidenzia come Pasolini operi una vera selezione del materiale linguistico, mettendo in rilievo la tensione tra la regola istituzionale e quella privata, suggerendo al lettore "le generalità di tali regole interne"[29] al sistema delle Ceneri. Lo sperimentalismo di Pasolini non consiste dunque nella semplice distruzione dell'istituzione, ma più complessamente riguarda una serie di accorgimenti rimico-metrici e retorici che vogliono esaltare "le nuove possibilità di relazione fonica"[30] (e quindi semantica) offerte se mai proprio dal creare una nuova istituzione a partire da quella tradizionale. Per Bertone Pasolini "ha prodotto una specie di petrarchismo d'en bas"[31], dato che innalza il materiale di partenza su toni "alti" (cfr. sopra, p. 5), facendo coincidere "un massimo di lirismo con un massimo di didascalicità"[32].
Altri due critici che si dispongono sulla linea dei fautori dello sperimentalismo sono Ciro Vitiello[33] e Stefano Agosti[34].
Il primo sostiene che l'operazione innovativa pasoliniana consiste nell'accostare un linguaggio fatto di strumenti tradizionali ad un'ideologia nuova, così come accosta l'esperienza autobiografica ai nuovi confini ideologici del socialismo gramsciano. Secondo Vitiello, insomma, "Pasolini assume l'istituzione ma ne altera lo statuto interiore, che sottopone a costante trasformazione in una continua variazione [corsivo mio], fino a liberalizzarlo, svincolandolo dalle leggi e dalle norme, in uso fonologico e ritmico basato sulla legge invisibile del cuore, del ritmo mentale".[35]
Avvicina la terzina delle Ceneri a quella pascoliana e a quella corazziniana del Dolore, parla di tematiche e strutture morfologiche vicine ai Colloqui gozzaniani, di estensione del dettato in opposizione alla contrazione cara agli ermetici, ecc.
Agosti invece spiega lo sperimentalismo di Pasolini con il suo voler dare l'idea di "una dizione totale della realtà"[36], attraverso effetti di ridondanza e grazie alla commistione di tutti i tre livelli stilistici (su quello alto colloca l'ipotassi, su quello medio la paratassi e su quello basso le esplosioni liriche). Così Pasolini adotterebbe la forma tradizionale solo per deformarla, rinviando in una variatio continua il senso ultimo e la verità della poesia, valori demandati ai lettori e ai posteri. Segno tra i più evidenti di questa deformazione sarebbe il superamento della forma strofica in strutture quaternarie determinate dalla distribuzione delle rime, per cui la terzina resta solo come convenzione grafica.
Passiamo ora all'altra linea guida delle interpretazioni delle Ceneri: quella, diciamo così, "mediana". Due studiose, la Cane Cancelli e la Crivelli[37], sostengono che l'operazione di Pasolini consiste nell'aver rifiutato in blocco il novecentismo, per andare a recuperare lo sperimentalismo originario, quello scaturito dai versi del Pascoli dei Poemi. La sua operazione però è inficiata da gravi contraddizioni che il poeta vive in prima persona, in particolare quella tra la passionalità bruciante e la volontà razionalizzante del pensiero gramsciano. Per le due critiche vincerà la prima tendenza, sia in direzione di una rottura del metro e degli istituti tradizionali, sia nelle scelte lessicali e sintattiche, che tradirebbero un populismo di marca decadente e irrazionalista (date la fitta aggettivazione, il tono oratorio, la sostantivazione concreta in funzione enfatica).
Giorgio Bàrberi-Squarotti[38] lo collochiamo invece a metà con la sfera di chi sostiene il fallimento della poetica di Pasolini. Infatti, tutta l'operazione del Nostro non sarebbe altro che un fagocitare il mondo e la vita all'interno della letteratura e della propria sfera personale, traducendo tutto in simbolo, asservito alla dimensione lirica individuale (questo "manierismo" sarebbe dimostrato proprio dalla forte presenza della variatio). Tutto il suo operare è alimentato da una visione ossessiva della scrittura come confessione, che a sua volta, nel farlo "personaggio" pubblico, rientra in un ciclo produzione-consumo caratteristico del sistema neocapitalistico. Così Pasolini gioca tutto sulla produzione, e tutta la sua opera non è altro che un'immensa variatio. Così, se da una parte c'è la sconfitta di tutti gli ideali gramsciani che il poeta voleva far rivivere e quasi incarnare, dall'altra c'è una profonda coerenza con se stesso, che porta lo scrittore a sperimentare fino alle estreme conseguenze un codice poetico che sia ancora capace di dar voce all'Io, contrariamente alla tendenza generale della poesia del Novecento (in particolare Montale), e proprio per superare le ingenti difficoltà che comporta la confessione, deve attingere a tutte le possibilità offerte dalla retorica, con i risultati che ne conseguono.
Su un piano tutto diverso, opposto al precedente e più vicino ai sostenitori dello sperimentalismo pasoliniano, si pone una studiosa anglosassone, Keala Jewell[39], la quale però si fa portavoce insieme di un altro tipo di fallimento: da una parte infatti afferma che Pasolini si rifà a forme preromantiche (il lamento, la poesia cimiteriale e sepolcrale) proprio per superare il limite novecentesco dell'inconciliabilità tra lirica e coscienza storica; dall'altra sostiene che proprio questo bisogno di recuperare forme del passato, attraverso allusioni ai generi letterari, per introdurre il "nuovo" in poesia, è segno del fallimento del poeta e della sua idea di "novità".
La Jewell successivamente intraprende un interessante parallelo tra il modo di "leggere" la città (Roma) e il modo di interpretarla nei versi; modi che fanno pensare al "palinsesto": come la città è composta di più strati sovrapposti (archeologici ma anche sociali), così la sua poesia si struttura come una stratificazione di più stili. Simbolo significativo di questo modo di procedere è il monumento funebre a Ilaria del Carretto scolpito da Jacopo della Quercia (compare nel poemetto L'Appennino), il quale unisce in una mescolanza elegante ed equilibrata lo stile gotico a quello rinascimentale. Per tutto il saggio, la Jewell si concentrerà nello sforzo di dimostrare come la poesia delle Ceneri prenda vita proprio dalla coscienza storica dell'autore. Ma per il momento tralasciamo questo tipo di discorso e andiamo avanti.
Marazzini in due momenti differenti analizza le questioni che qui abbiamo messo al centro del nostro interesse. Nel primo saggio[40] vuole dimostrare che Pasolini si ritrova ad affrontare una sconfitta, uno scacco, proprio dopo il famoso articolo del '64. Prende in esame le opere successive, in particolare La Divina Mimesis, Lettere Luterane e Volgar'eloquio, dove lo scrittore rinuncia alla sua adesione a Gramsci e alla storia, rinunciando insieme anche al progetto di rinnovare il "mandato" dello scrittore per ritirarsi in una posizione tutt'altro che aderente al nuovo linguaggio, dove predilige il ritorno al dialetto friulano (è degli ultimi anni la riedizione delle prime poesie in una nuova raccolta dal titolo La nuova gioventù[41]) e contemporaneamente ad un italiano umanistico, tutto letterario, morto, perciò anticonformista e dunque rivoluzionario.
In un altro saggio[42] Marazzini analizzerà le Ceneri, per aderire alla linea dei sostenitori dello sperimentalismo. Si sofferma dapprima sull'importanza delle poesie in friulano, dove Pasolini riesce a dare dignità poetica ad un dialetto, quello di Casarsa Della Delizia, che non era praticamente mai stato messo in forma scritta, e che acquista dignità grazie all'osmosi con l'italiano. Poi, con il trasferimento a Roma, la storia con il suo incedere entra nella sua poesia, ed egli si fa poeta pubblico, poeta civile, proprio perché sceglie l'italiano come lingua poetica principale, la quale gli permette di rivolgersi a tutta la nazione. E' una lingua di matrice letteraria, dove si sente l'influenza di Pascoli, Tasso e di altri grandi classici. Il tono è tutto sostenuto su tinte oratorie alte, grazie alle quali anche i termini prettamente regionali (ad es. altagni, boschine, marane, resultumi, ecc.) assumono un sapore aulico, nobile. Stessa funzione è attribuita alle figure della sineciosi, dell'ossimoro, delle sinestesie, all'inversione dell'aggettivo, alle citazioni, ai giochi fonici. Ci pare insomma che anche Marazzini aderisca a quell'ottica che vede il Pasolini delle Ceneri poeta di un "petrarchismo d'en bas", per riprendere un'espressione del Bertone. Ed è qui il risultato massimo del suo sperimentalismo, dato che nella produzione successiva sembra appunto ripiegare su posizioni di rifiuto quasi solipsistico della storia, civile e linguistica, del proprio Paese.
Cercheremo di approfondire questo aspetto dedicandoci successivamente ad un completo spoglio dell'ultima produzione pasoliniana, nonché di tutta la critica specialistica che si è occupata di verificare questo lato dell'ultimo Pasolini.
Per ora ci limiteremo ad accennare rapidamente ad un saggio di Francesco Garlato[43], dato che ci sembra emblematico di un tipo di critica che, nei modi generali e nel caso particolare di Pasolini, andrebbe scartata come fuorviante. Il critico qui si sforza in tutti i modi di far rientrare l'opera di Pasolini e la sua personalità in un'aura tutta dorata di bontà cristiana. Parte dal saggio in cui l'autore teorizza la "Semiologia generale della realtà"[44], per andare a finire in un canto della mitezza e dell'altruismo pasoliniano, vero esempio di cristiano inconsapevole, passando attraverso paragoni tra la teoria e il linguaggio del Nostro e la 'teoria linguistica' biblica (in sostanza per il Garlato la "scomodità" dello sperimentalismo plurilinguistico pasoliniano è riconducibile ad una matrice spiritualistica, alla scomodità del messaggio evangelico!).
Ora, secondo noi questa non è critica letteraria, né tantomeno esercizio di filologia, ma è ancora una volta uno di quei disperati tentativi di fagocitare un poeta all'interno di un'ideologia predeterminata. Operazione utile non ad una maggiore conoscenza del soggetto in questione (chiunque esso sia), ma sicuramente utile a chi si adopera a rendere accettabile una figura altrimenti "fuori posto", scomoda appunto, sia per la parrocchia che per la sezione di partito.

BIBLIOGRAFIA

Agosti, Stefano, Cinque analisi. Il testo della poesia, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 125-154
Argan, Giulio Claudio (a.c. di), Drawings and paintings by Pier Paolo Pasolini. 1941-1975, Gabinetto scientifico letterario G. P. Viesseux, Firenze 1992, con un testo di P.P. Pasolini
Arveda, Antonia (a.c. di), La meglio gioventù, Salerno editrice, Roma 1998, pp. 434
Avalle, D'Arco Silvio, L'analisi letteraria in Italia (Formalismo-Strutturalismo-Semiologia), Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1970, pp. 235
Battaglia, Salvatore, Grande dizionario della lingua italiana, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1961
Bertone, Giorgio, La rima nelle Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, in Metrica, IV 1986, pp. 225-265
Borghello, Giampaolo, Il simbolo e la passione. Aspetti della linea Pascoli-Pasolini, Mursia, Milano 1986, pp. 237
Brevini, Franco (a.c. di), Per conoscere Pasolini, Mondadori, Milano 1981, pp. 624
Cadel, Francesca, Aspetti della linea Pascoli-Pasolini. Un'analisi delle traduzioni di Pasolini da Myricae, in Rivista pascoliana, VII (1995), pp. 37-58
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NOTE

[1] La prima edizione è del 1957 per i tipi della Garzanti. I nostri riferimenti faranno invece capo alla raccolta completa Pier Paolo Pasolini, Bestemmia, Garzanti, Milano 1999 per i voll. 1-2; per i voll. 3-4, Bestemmia, Garzanti, Milano 1996, entrambi a.c. di Graziella Chiarcossi e Walter Siti.
[2] P.P. Pasolini, Foglie fuejs, in "Libertà, 6/1/1946, ora in P.P.P. Un paese di temporali e di primule, a.c. di Nico Naldini, Teadue, Parma 1995, p. 113.
[3] P.P.P. Il Friuli, testo radiofonico trasmesso dal programma nazionale RAI l'8/4/1953 dal titolo "Paesaggi e scrittori. Ciclo dedicato al Friuli". Ora in Un paese, op. cit., p. 200.
[4] P.P.P. Presentazione dell'ultimo "Stroligùt", in "Libertà", 26/5/1946, ora in Un paese, op. cit., p.204.
[5] P.P.P. Volontà poetica ed evoluzione della lingua, in "Il Stroligùt", aprile 1946. Ora in Un paese, op. cit., p.207, e vedere tutto l'articolo, pp. 207-209.
[6] P.P.P. Lettera dal Friuli, in "La fiera Letteraria", 29/8/1946. Ora in op. cit., pp.211-212.
[7] P.P.P. Tranquilla polemica sullo Zorutti, in "Libertà", 16/10/1946. Ora in op. cit., pp. 215-216.
[8] P.P.P. Dalla lingua al friulano, in "Ce Fastu?", n. 5-6, 1947. Ora in op. cit. p. 225, e vedere tutto l'articolo pp.225-227.
[9] P.P.P. Noterella sulla poesia popolare friulana, inedito, ora in op. cit. p. 244.
[10] P.P.P. Poesia nella scuola, in "Il Mattino del Popolo", 4/7/1948. Ora in op. cit. p.281.
[11] P.P.P. Romàns, a.c. di Nico Naldini, Teadue, Parma 1996, p. 63.
[12] P.P.P. Operetta marina, in Romàns, op. cit., p. 116.
[13] P.P.P. Atti impuri, in Amado mio, a.c. di Concetta D'Angeli, Garzanti, Milano 1982 (qui: Milano 2000), p.39-40.
[14] P.P.P. Amado mio, op. cit. p.147.
[15] A questo proposito è illuminante la raccolta quasi completa dei saggi usciti in risposta alla provocazione di Pasolini curata da Oronzo Parlangeli, La nuova questione della lingua, Paideia, Brescia 1971, 450 pp.
[16] P.P.P. Cultura italiana e cultura europea a Weimar, in Il Setaccio, a. III, Gennaio 1943, n. 3, pp.8-9, ora in Pasolini e 'Il Setaccio', a.c. di Mario Ricci, Nuova Universale Cappelli, Bologna 1977, p. 69.
[17] "…una forza del Passato…", in Vie Nuove, n. 42, 18/10/1962, ora in P.P.P. I Dialoghi, op. cit., p. 310
[18] Fondamentale si rivela la lettura degli articoli apparsi sulla rivista bolognese "Officina" fondata da Roberto Roversi, Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti nel 1955. A questo proposito è di comoda consultazione il saggio antologico curato da Giancarlo Ferretti, "Officina". Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Einaudi, Torino 1975, pp. 496.
[19] P.P.P. Nuove questioni linguistiche, in Rinascita, a. XXI, n. 51, 26/12/1964, pp. 19-22; ora in Empirismo eretico, op. cit., pp. 5-24.
[20] Walter Siti, Saggio sull'endecasillabo di Pier Paolo Pasolini, in Paragone, 1972, n. 270, pp. 39-61.
[21] Ibid., p.39
[22] P.P.P., Antologia della lirica pascoliana, Einaudi, Torino, 1993, pp.241.
[23] Siti, op. cit., p. 40.
[24] Ibid., p. 40
[25] Ibid., p. 53
[26] Giorgio Bertone, La rima nelle "Ceneri di Gramsci"di Pier Paolo Pasolini, in Metrica, a. IV, 1986, pp. 225-265.
[27] Ibid., pp.229-230.
[28] Ibid., p. 248.
[29] Ibid., p. 252.
[30] Ibid., p. 254.
[31] Ibid., p. 261.
[32] Ibid., p. 262.
[33] Ciro Vitiello, Pasolini, Pascoli, Gozzano: la metrica, in Sigma, XIV (1981), n. 2-3, pp. 125-139.
[34] Stefano Agosti, La parola fuori di sé, in S. Agosti, Cinque analisi. Il testo della poesia, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 125-154.
[35] Vitiello, op. cit., p. 134.
[36] Agosti, op. cit., p. 135.
[37] Eleonora Cane Cancelli e Maria Paola Crivelli, La metrica di Pier Paolo Pasolini, in AA. VV., Metrica e sintassi nella poesia di Giovanni Pascoli, a.c. di Gian Luigi Beccaria, Giappichelli editore, Torino 1970, pp. 251-269.
[38] Giorgio Barberi-Squarotti, in Pier Paolo Pasolini. L'opera e il suo tempo, Atti del convegno di Udine del 30-31/5/1981, a.c. di Guido Santato, Cleup editore, Padova, 1983.
[39] Keala Jewell, Pier Paolo Pasolini. Una storicità poetica, Edizioni Empirìa, Roma 1997, pp. 141.
[40] Claudio Marazzini, Pasolini dopo le "Nuove questioni linguistiche", in Sigma, XIV (1981), n. 2-3, pp. 57-71.
[41] P.P.P., La nuova gioventù, Einaudi, Torino 1975, ora in P.P.P., Bestemmia, vol II, Garzanti, Milano 1999, pp.1065-1202.
[42] Claudio Marazzini, Sublime volgar'eloquio. Il linguaggio poetico di Pier Paolo Pasolini, Mucchi editore, 1998, pp. 40.
[43] Francesco Garlato, Alcune riflessioni sul linguaggio di Pier Paolo Pasolini, in Il Cristallo, a. XXXIX (1997), n. 2, pp. 51-60.
[44] P.P.P., Il codice dei codici, in Empirismo eretico, op. cit., pp. 277-284.

Fonte:
http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=211
 
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