ACTA UNIVERSITATIS PALACKIANAE OLOMUCENSIS
FACULTAS PHILOSOPHICA
ROMANICA OLOMUCENSIA XVI ・ 2006ISBN 80-244-1439-2 ISSN 0231-634X
FACULTAS PHILOSOPHICA
ROMANICA OLOMUCENSIA XVI ・ 2006ISBN 80-244-1439-2 ISSN 0231-634X
Pasolini: dalla tragedia al cinema
Atti del convegno internazionale
Olomouc, 20・21 ottobre 2005
Olomouc, 20・21 ottobre 2005
Gherardo Ugolini
Humboldt-Universitat zu Berlin
Ma veniamo al tema specifico del mio intervento. Mi occuperò di un caso particolare di trasposizione cinematografia di testi letterari e cioè dei film che Pasolini verso la fine degli anni Sessanta ha girato ispirandosi come modello a tragedie greche classiche. Mi riferisco naturalmente a Edipo re (1967), Medea (1969) e Appunti per un’Orestiade africana (realizzato tra il 1968 e il 1969, ma presentato al Festival del cinema di Venezia solo nel 1973): tre pellicole che possono essere raggruppate in una "trilogia mitologica" (anche se non mi risulta che Pasolini ne abbia mai parlato in questi termini). La particolarità qui è data dal fatto che l’autore si misura con testi letterari di tragediografi ateniesi del V secolo a C. (l’Edipo re di Sofocle, la Medea di Euripide, l’Orestiade di Eschilo) ed è evidente che in un caso del genere l’operazione di transcodificazione dalla letteratura al cinema si presenta come un esperimento particolarmente interessante ed originale sia per la distanza temporale (circa 2500 anni) che intercorre tra la stesura dei testi e la versione filmica, sia per la volontà del regista di utilizzare quelle opere come chiavi d’interpretazione della realtà contemporanea. Naturalmente Pasolini non è il primo regista a girare film che si ispirano a tragedie greche: prima di lui, e dunque prima degli anni Sessanta, vi erano state delle pellicole dedicate a questi temi, ma quasi tutte realizzate nella forma di una trasposizione prettamente letteraria. Penso per esempio ai film del regista greco Michael Cacoyannis (Elettra, Troiane, Ifigenia) o all'Oedipus The King di Philippe Saville. [1] Pasolini realizza viceversa dei film in cui la dimensione letteraria conta poco o nulla puntando tutto su una drammaturgia "antiletteraria", in cui più delle parole contano gli altri codici espressivi: il suono, l'immagine, i gesti, le musiche, i costumi. Da questo punto di vista i suoi tre film mitologici segnano una rottura fondamentale con i cliché classicistici ancora imperanti in quegli anni. Proverò ora a sviluppare alcune riflessioni che riguardano in termini generali il trattamento che Pasolini ha riservato ai testi letterari nei suoi tre film mitologici. La prima osservazione è che nei film mitologici di Pasolini ci sono elementi di fedeltà estrema rispetto al modello letterario (mi riferisco a certi dialoghi o a certe sequenze narrative) che però si alternano con elementi di innovazione e attualizzazione che rimandano al proprio universo ideologico-culturale. Possiamo individuare al proposito quattro direzioni nel lavoro di transcodificazione che riguardano rispettivamente l'ideologia dell'tore, l'attualizzazione dei temi, i moduli narrativi e le tecniche di traduzione.
Dal mito all'ideologia
La prima direzione concerne quello che potremmo definire come l'assorbimento del nucleo mitologico-letterario originale dal contesto culturale greco antico in quello ideologico del regista-autore. Il mito greco finisce col diventare uno specchio in cui Pasolini può riflettere tutta quella serie di opposizioni binarie che costituiscono il nucleo ideologico più importante del suo pensiero. Schematizzando possiamo ridurre tale gioco di opposizioni alla contrapposizione fondamentale tra due universi: da una parte c'è un universo materno (un polo positivo all'insegna dell'amore) in cui rientrano il passato, il Friuli contadino, il sottoproletariato romano, il Terzo Mondo, e in generale la sfera emotiva, viscerale, prerazionale e prelinguistica. Dall'altra parte c'è un universo paterno (all'insegna dell'odio), in cui si incasellano il presente neocapitalistico con il rischio della omologazione, l'illuminismo, la borghesia, la civiltà industriale, in pratica la modernità tecnologica. [2]
In quest'ambito la Grecia classica con la sua tradizione mitologica costituisce per Pasolini un momento fondamentale: quella che lui propone è l’immagine di una Grecia primitiva o meglio barbarica, con dunque il rifiuto netto di ogni idealizzazione neoclassica. Non è la patria dell'equilibrio, della serenità, della razionalità, ma delle grandi emozioni e pulsioni istintive. Da questo punto di vista Pasolini si colloca in una linea di rinnovamento degli studi classici che parte da Nietzsche e nel Novecento ha conseguito importanti risultati grazie al contributo di discipline come l'antropologia e la psicanalisi, mettendo in evidenza gli aspetti più oscuri e primitivi della civiltà greca. Il mito antico in particolare, veicolato dai testi dei tragediografi, assolve la funzione precipua di polarizzare le tensioni e i conflitti ponendosi come pietra di paragone esemplare per il presente. Inoltre il mito tende ad assumere un orizzonte di senso che va al di là dei valori della razionalità e della storia. "Solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico" dice ad un certo punto il Centauro in una scena della Medea: una battuta che sembra sintetizzare ottimamente la concezione pasoliniana del mito. Il mito greco per Pasolini è fatto soprattutto di "barbarie". Barbarie è una parola importante nel lessico pasoliniano, che usa spesso in interventi e interviste. Che cosa intendesse di preciso con questo termine lo esplicita in un'intervista a Jean Duflot del 1969 in cui dice:
La parola barbarie - lo confesso - è la parola al mondo che amo di più [...]. Semplicemente, nella logica della mia etica, perché la barbarie è lo stato che precede la civiltà, la nostra civiltà: quella del buon senso, della previdenza, del senso del futuro. E' semplicemente l'espressione di un rifiuto, dell'angoscia davanti all'autentica decadenza generata dal binomio Ragione-Pragma, divinità bifronte della borghesia. [3]In altre parole il mondo del mito antico è avvertito come una realtà arcaica rituale, dominata dagli istinti allo stato puro, come un universo pre-logico irrazionale, ieratico, da contrapporre alla civiltà moderna, dominata dal capitalismo, dal consumismo, dalla mercificazione. L'aspetto che più affascina del mondo arcaico è l'assenza di una precisa morale e la possibilità della trasgressione continua. E' evidente che dietro questa interpretazione c'è anche un sostrato romantico e decadente, che del resto è una componente imprescindibile del pensiero pasoliniano. [4]
Se guardiamo, alla luce di quanto detto, come si esplica nei tre film mitologici questa concezione del mito e in particolare la categoria di "barbarie", possiamo riscontrare molti punti in comune. In Edipo re si traduce nella rottura di tabù ancestrali, come il parricidio e l'incesto, che Pasolini rappresenta in chiave psicoanalitica come pulsioni universali. In Medea è la figura di Medea-Callas a rappresentare un mondo selvaggio e primordiale che viene violato dal pragmatismo razionalistico del greco Giasone. Negli Appunti per un’Orestiade africana la barbarie si incarna nell'Africa di oggi (o meglio degli anni Sessanta del secolo scorso) con le sue miserie, le sue guerre e le sue difficoltà ad avviare i processi di modernizzazione. Insomma, possiamo dire che il mito si offre a Pasolini come un linguaggio atemporale efficacissimo per parlare metaforicamente dei suoi temi 'veri', la civiltà contadina e il capitalismo contemporaneo, e che gli permette di rievocare gli strati più arcaici della cultura occidentale ovvero i livelli più profondi della psiche umana. Analizzando ora più analiticamente i tre film in questa prospettiva, possiamo constatare come nel caso dell'Edipo re ci siano vari fattori che sottolineano tale tendenza: per esempio
l'ambientazione scelta, che non ha nulla a che fare con lo scenario greco tipico, ma si tratta di paesaggi africani, specialmente del Marocco. Il regista trasmette in tal modo l'idea di un paesaggio arido, assolato, arcaico che corrisponde per l'appunto alla sua visione della Grecia come civiltà barbarica e primitiva. Un discorso analogo si può fare per la Medea: anche qui l'ambientazione fisica ha un ruolo fondamentale. Per dare una rappresentazione visiva della mitica Colchide, patria di Medea, Pasolini ha scelto il paesaggio suggestivo e «lunare» della Cappadocia (in Turchia). Tale paesaggio definisce il mondo "barbaro" per eccellenza della maga orientale Medea. [5] Le musiche (musiche popolari orientali, antiche musiche sacre giapponesi, canti d’amore iraniani, tibetani e giapponesi) contribuiscono a creare atmosfere lontane e arcaiche. Ma è soprattutto il senso di profonda estraneità e inattualità che promana la protagonista a dare l'idea di un personaggio "barbaro" per eccellenza. Medea/Callas ha sempre pose ieratiche, parla pochissimo, presiede a cruenti rituali di sacrificio umano: quanto basta per creare sensazioni di disagio e timore. Negli Appunti per un’Orestiade africana l'approccio è del tutto differente nel senso che il riferimento ai drammi della trilogia di Eschilo è soltanto evocato e dunque molto labile. Pasolini gira tra villaggi africani contemporanei (Uganda e Tanzania) alla ricerca di personaggi da scegliere per il suo film sul mito di Oreste e così costruisce un discorso sull'Africa moderna, sul problema di come trasformare una civiltà ancora tribale e tradizionalista in una società moderna e industrializzata senza che vada perduta per sempre la tradizione culturale originaria. Sulla scorta di certe interpretazioni marxiste dell'opera di Eschilo (George Thomson), e dopo la precedente esperienza di traduzione dell'Orestea che Pasolini approntò nel 1960 per la messinscena teatrale di Luca Ronconi a Siracusa, [6] Pasolini si serve del filtro classico-mitologico per denunciare come fasullo il passaggio alla democrazia avvenuto in certi paesi africani. Sulla figura di Oreste, che torna in patria quale vendicatore e liberatore, il regista sovrappone la giovane élite intellettuale africana che si è formata all'estero, in Francia o nei paesi anglosassoni, e che potrebbe tornare in patria per modificarne le strutture politiche e sociali.
Dal mito all'attualità
La seconda direzione è quella relativa alla "attualizzazione" della vicenda mitologica narrata. Anche questa è un'istanza essenziale riscontrabile in tutte le tre pellicole in questione. Nei film mitologici di Pasolini si riscontrano sempre due sezioni relativamente al contenuto. Una è più o meno aderente al modello dei drammi greci, e ne riporta il contenuto: è lo spazio della parola, del dramma. L'altra è invece liberamente inventata sulla falsariga di dizionari mitologici, ed in genere è quella in cui si raccontano gli antefatti per offrire una maggiore comprensibilità della trama e che serve a creare un contesto di universalizzazione e attualizzazione della vicenda mitica. Questo è lo spazio dominato da una poetica sacrale del silenzio, del gesto, del rito.
Nel caso dell'Edipo re l'attualizzazione della vicenda è suggerita attraverso una cornice moderna: le sequenze iniziali (il Prologo) e quelle conclusive (l’Epilogo) sono ambientate nell'Italia del XX secolo e contribuiscono a sottolineare anche il valore autobiografico [7] del racconto cinematografico oltre che l'attualità o universalità del messaggio. Le scene del Prologo, che sono quasi tutte senza parole, mostrano al pubblico la nascita di un bambino in una famiglia borghese del Nord Italia degli anni Venti. Quindi si vede il bambino ridere, giocare e muovere i primi passi, la madre che lo allatta dolcemente. Si vede il padre, in divisa da ufficiale, e si capisce che soffre di gelosia per il forte legame stabilitosi tra madre e bambino. E' indubbio che Pasolini voglia con ciò alludere alla psicoanalisi e alla celebre tesi freudiana del complesso di Edipo, una prospettiva che trova conferma nella circostanza che la stessa attrice, Silvana Mangano, recita sia la parte della madre moderna nel Prologo, sia quella della madre mitologica (cioè Giocasta) nella narrazione vera e propria del mito. [8] Concluso il Prologo la sceneggiatura fa balzare lo spettatore immediatamente nel passato mitico e qui Pasolini racconta le peripezie di Edipo (Franco Citti) secondo la vulgata canonica dei modelli greci, ivi compresi il parricidio e l'incesto commessi senza saperlo. Ma proprio laddove la storia dovrebbe concludersi, dopo il suicidio di Giocasta e l'autoaccecamento di Edipo, ecco che invece Pasolini inserisce una breve appendice, un Epilogo di pochi minuti, in cui vediamo quel bambino che nel Prologo era appena nato ora divenuto adulto aggirarsi cieco per le strade di Bologna, accompagnato da un ragazzo e suonando il flauto. Torna alla casa natale, al prato nel quale aveva imparato a muovere i primi passi. Il tema del ritorno al luogo d’origine, dunque alla madre terra, con cui si conclude il film, segna una differenza importante rispetto ai modelli greci: nella tragedia infatti, precisamente nell’Edipo a Colono, il protagonista scompare in un recinto consacrato e viene assunto tra gli dèi con la funzione di protettore della città di Atene. Inoltre questa scelta contribuisce a dare un significato alla prospettiva ermeneutica seguita dal regista: la figura di Edipo si caratterizza nella visione pasoliniana come il portatore suo malgrado di un “peccato originale” alla rovescia: è l’uomo che conosce fin dal principio il proprio destino, ma combatte perché non si realizzi, non accettando la consapevolezza del suo male. Questo è anche il significato del tema della cecità di Edipo. Edipo come emblema della condicio humana occidentale, di uomini e donne che non vogliono vedere quello che veramente sono, che preferiscono chiudere gli occhi davanti alla verità fino alla inevitabile catastrofe. Scrive Pasolini in un appunto:
Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza eE' come se l'Edipo del mito antico, centinaia di anni dopo, continuasse a vagare nelle città di oggi con la sua carica di turbamento e ogni suo tentativo di ribellarsi al destino che si porta dentro fosse inutile perché deve pagare il fio per la colpa, per il peccato originale che ha in se stesso (il fatto di essere nato). [10]
l'obbligo del sapere. Non è tanto la crudeltà della vita che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la realtà. [9]
Nella Medea non c'è una trasposizione immediata del mito sul piano della contemporaneità. Tutta la vicenda si svolge nell'atemporalità mitologica. Tuttavia, è molto importante il fatto che Pasolini faccia riferimento oltre al testo di Euripide e alla millenaria tradizione di rifacimenti del dramma (da Seneca a Corneille, da Cherubini a Grillparzer, da Anouihl ad Alvaro), anche a fonti moderne, ossia agli studiosi di antropologia ed etnologia quali James George Frazer, Lucien Lévy-Bruhl e Mircea Eliade, che Pasolini aveva letto con grande interesse e le cui teorie sul rito cerca di mettere in pratica nel film (tutta la scena iniziale del sacrificio umano si ispira a descrizioni di rituali che si leggono nei trattati di Frazer e Eliade). [11] L'intento del regista è quello di rappresentare il conflitto tra due culture diverse, due civiltà la cui contrapposizione è irriducibile: quella di Medea (che è magica, primitiva, irrazionale, passionale, sacrale, e arriva al punto di contemplare perfino i sacrifici umani) e quella di Giasone (che è razionale, moderna, laica, tecnologica, pragmatica, borghese). L'attualizzazione è data dalla suggestione che il contrasto tra Medea e Giasone, tra sacralità e razionalismo, potrebbe essere anche quello tra civiltà contadina e mondo industrializzato, terzo mondo e occidente ricco, sottoproletariato delle periferie e borghesia urbana ecc. Ed è rafforzata a livello evocativo dallo scenario della pisana Piazza dei Miracoli che, contaminata con la città siriaca di Alep, costituisce la sede della reggia di Corinto, intesa come simbolo supremo di una civiltà razionale. L'ipotesi che quest'ultima possa addomesticare o assorbire quella sacrale-primitiva è puramente illusoria e la vendetta di Medea (uccisione dei figli e incendio della città di Corinto) non è tanto la reazione di una donna abbandonata e disperata, ma l'esito di un adattamento subito e mai accettato, di una identità schiacciata ma non distrutta. L'errore di fondo che commette Giasone, che commettono in tanti, e che Pasolini intende denunciare, è quello di poter eliminare il sacro dalla dinamica sociale della modernità. Con questa chiave di lettura Pasolini propone una Medea barbara sì, ma fondamentalmente innocente. L'attualizzazione del mito è, come già si è visto, un elemento chiave degli Appunti per un'Orestiade africana. Qui Pasolini ci mostra l'Africa reale, con l'atrocità delle guerre tribali, la povertà e la miseria, la dignità della gente, la presenza di rituali e credenze religiose. [12] D'altro canto lo sguardo del regista trasfigura questa realtà intravedendo in ogni personaggio, gesto, oggetto ecc. dei riferimenti metaforici al mito. Così la guerra civile in Biafra è assimilata alla guerra di Troia; gli alberi della savana appaiono come immagine delle Erinni furiose; la fucilazione di un ribelle come l'omicidio di Agamennone; una danza rituale in Tanganika come la trasformazione delle Erinni in Eumenidi. In altri termini la realtà africana da realtà osservata e descritta diviene una proiezione della propria immaginazione poetica. [13]
Moduli narrativi
Un terzo punto su cui pare necessario richiamare l'attenzione è quello relativo ai "moduli narrativi" utilizzati dal regista e alle modificazioni apportate rispetto agli originali. Per questo aspetto mi limito per ragioni di tempo ad un'analisi sommaria dell'Edipo re. La rielaborazione del modello sofocleo (e lo stesso si può dire per il modello euripideo nel caso della Medea) procede secondo una "tecnica di espansione" consistente nell’ampliamento della vicenda attraverso l’aggiunta di episodi che servono a recuperare la preistoria del dramma.[14] Pasolini dilata la vicenda rispetto al modello di Sofocle abbracciando l'intera saga secondo l'ordine cronologico degli accadimenti. Infatti nella tragedia greca il dramma inizia a vicenda quasi conclusa e racconta solo l'ultimo tratto, ovvero la scoperta da parte di Edipo del suo passato parricida e incestuoso; lì il punto essenziale è la progressiva rivelazione della verità secondo i principi della moderna detective-story. In Pasolini la dimensione diacronica scorre lineare e viene data rappresentazione visiva di tutti quegli elementi della storia che nel testo sofocleo erano soltanto accennati o evocati, secondo una procedura che si riscontra peraltro anche in altri rifacimenti moderni del testo sofocleo come quelli di Von Hoffmansthal e Cocteau. Si comincia così con Edipo bambino che viene deposto dal padre Laio, salvato da un servitore e consegnato tramite un pastore al re di Corinto Polibo e a sua moglie Merope, coppia senza figli. Dopo che in seguito ad un litigio sorgono in lui dei dubbi sulla sua vera paternità, vediamo Edipo recarsi a Delfi per consultare l'oracolo. La predizione è quella canonica: "ucciderai tuo padre e sposerai tua madre". Quindi in una scena lunga e particolarmente efficace vediamo Edipo scontrarsi con il re Laio (suo padre) e la scorta: a causa del litigio (Laio dà dello straccione a Edipo) Edipo in preda a una rabbia sfrenata che moltiplica le sue forze, uccide Laio e i suoi servitori, ma senza sapere che è suo padre. L'esplosione di rabbia e violenza da parte di Edipo è impressionante; la sequenza dell'assassinio di Laio ha il sapore della ribellione inconscia contro l'autorità paterna.
Si vede quindi Edipo arrivare a Tebe e affrontare e vincere la terribile Sfinge, il matrimonio con la regina di Tebe rimasta vedova. Edipo non sa che si tratta di sua madre Giocasta. Scoppia una strana pestilenza sulla città ed Edipo si dà da fare per ricercare il colpevole dell'assassinio di Laio giacché è questa la condizione imposta dagli dei per guarire il morbo. C'è la scena in cui Edipo consulta l'indovino Tiresia, che accusa Edipo di essere lui il colpevole, ma Edipo non lo capisce e lo maltratta. E' una scena molto efficace, fedele nelle parole al testo di Sofocle, ma realizzata con grande intensità emotiva. La vicenda precipita verso il finale che tutti conosciamo: il vecchio servo che aveva salvato Edipo bambino e poi era stato testimone dell'uccisione di Laio confessa il tutto. Edipo è scoperto colpevole di parricidio e incesto. Giocasta si impicca e Edipo si acceca. Alla fine Edipo esce brancolante dalla reggia; un ragazzo gli mette in mano uno zufolo. Non è vero che tra il film di Pasolini e il testo di Sofocle ci sia solamente "un vago debito sul piano narrativo-mitologico". [15] Il regista ricostruisce e riadatta il soggetto alla luce della propria poetica, di un certo autobiografismo mai celato, e di problematiche specifiche del suo tempo, come si è visto, ma senza tradire nella sostanza le parole dell'originale sofocleo. E' necessario tra l'altro tenere presente lo scarto che sussiste tra la sceneggiatura e la realizzazione effettiva del film. La sceneggiatura è ancora molto vicina al modello greco, mentre per il film vero e proprio Pasolini opera ulteriori tagli e riduzioni. Anche sul piano ermeneutico la proposta di Pasolini di fare di Edipo una vittima innocente del fato non è affatto incompatibile con una lettura del testo di Sofocle.
Tecniche di traduzione
Per comprendere a fondo la trasposizione di tragedie greche in opere cinematografiche realizzata da Pasolini si dovrebbe aprire una parentesi importante sul Pasolini traduttore dal greco e dal latino. La sua conoscenza delle lingue classiche non doveva essere molto più di una conoscenza scolastica; ma nel 1960 tradusse l'Orestea per la messinscena siracusana della tragedia a cura di Luca Ronconi e successivamente tradusse il Miles gloriosus di Plauto in vernacolo romanesco (col titolo Il Vantone). Molte scene dell'Edipo re e della Medea si basano su traduzioni dei versi di Sofocle e Euripide. L'impressione è che Pasolini intenda sperimentare un approccio “poetico” alla traduzione con un'attenzione speciale all'aspetto performativo, ovvero all'utilizzazione (teatrale o cinematografica) del testo tradotto, il che comporta una base metodologica ben diversa rispetto alla traduzione destinata alla semplice lettura. Inoltre una tale tecnica di traduzione è quella più appropriata per un cinema "di poesia" come voleva Pasolini. Questo è il motivo per cui le traduzioni di Pasolini, benché non sempre letterali, con tagli e talora perfino con errori, in linea generale colgono valenze di significato intrinseche nel testo originario, che altre traduzioni più tradizionali non riescono a cogliere. [16] Da questo punto di vista la produzione di Pasolini traduttore può essere accostata a quella di Salvatore Quasimodo in riferimento ai lirici greci. Pasolini rinuncia deliberatamente ai toni aulici e altisonanti, cerca una lingua il più possibile colloquiale, scorrevole, moderna, che recuperi i "toni civili" dei testi d'origine. Insomma, più che di traduzioni sarebbe appropriato parlare di rifacimenti creativi. [17]
Per quanto riguarda in particolare i film, quella di Pasolini è per lo più una parafrasi libera del testo di partenza. Ma nei momenti cruciali, nelle scene in cui scoppiano i conflitti più esasperati e violenti delle passioni, allora lì il regista assume il testo greco di partenza e lo riplasma in maniera poetica con effetti suggestivi e mai banali. E' il caso, per citare un esempio, dei versi 1157-1219 della Medea di Euripide, corrispondenti alla scena del film in cui un messaggero racconta quanto accaduto alla figlia del re di Corinto: i figli di Medea portano alla principessa una veste quale dono da parte di loro madre, Glauce la indossa compiaciuta e si rimira con civetteria davanti allo specchio senza presagire nulla del destino di morte che incombe su di lei.
Scene esemplificative
Vorrei a questo punto mostrare e commentare, a mo' di esemplificazione di quanto detto, due scene chiave del film Edipo re:
1) Scena del parricidio. Nell'Edipo sofocleo il re di Tebe lo rievoca presentandolo quasi come un caso di legittima difesa, mentre Pasolini rappresenta lo scontro tra Edipo e Laio come il simbolo dello scontro generazionale. Laio è raffigurato anche dal punto di vista visuale come una persona ieratica, autoritaria ed arrogante, simbolo del potere paterno. Si erge monumentale sul carro, con la corona enorme sulla testa. Edipo lo attacca con una aggressività e un accanimento immotivati, consumando "un vero piacere del sangue, della crudeltà, ma soprattutto della ribellione e
dell'esautoramento" [18]. Il suo atteggiamento non è solo aggressivo, ma perfino beffardo. L'unica ragione di tanta violenza è il fatto che Laio rappresenta l'autorità paterna e in quanto tale odiata dal figlio. E' chiaro che qui Pasolini intende visualizzare lo scontro generazionale padre/figlio. Inoltre, la scena ha una lunghezza di diversi minuti e indugia sui dettagli, esibendo uno dopo l'altro tutti gli omicidi compiuti da Edipo ai danni dei soldati di Laio quasi secondo un rituale codificato, mentre nel testo sofocleo il ricordo dell'episodio è compreso nell'arco di solo pochi versi (vv. 806-813).
2) Scena dell’incontro tra Edipo e Tiresia. E' una scena cruciale nell'economia del film, come del resto nella tragedia di Sofocle, [19] anche per i contenuti ermeneutici che veicola.
E' peraltro una delle scene più riuscite grazie soprattutto alla bravura dell'attore Julian Beck, anche se in un primo momento Pasolini aveva pensato per la parte a Orson Welles. Rispetto al modello greco l'incontro con Tiresia è sdoppiato, nel senso che Edipo lo incontra una prima volta poco prima di affrontare la Sfinge, restandone come ammaliato, e una seconda volta quando lo convoca per avere un consiglio su come trovare l'uccisore di Laio. Qui l’andamento della scena è quanto mai fedele al testo dell'originale greco, ma, ricorrendo ai codici visivi e gestuali, il regista la reinterpreta "alla luce della sua poetica di un Edipo antiintellettuale, preda di violente forze inconscie". [20] Le battute sono riprese alla lettera o quasi, con l'eliminazione delle frasi più complesse di taglio filosofico. La novità è che il profeta cieco assomma qui anche i tratti dell'artista: un cantore e poeta che suona il flauto, che pur nella sua marginalità si assume la funzione di "cogliere il dolore degli altri e di esprimerlo come se fosse lo stesso dolore, a esprimersi". [21] E' una figura dotata di grande carisma che assolve la funzione di ⢣oscienza autobiografica". Ancor più che in Sofocle, Pasolini utilizza la scena di Tiresia per mostrare l'incapacità da parte di Edipo di cogliere la verità. Il passaggio più interessante è quando Edipo, furibondo per le parole dell'indovino di cui non comprende il significato, per minacciarlo si toglie la corona e la barba (i simboli del potere ereditati da Laio). La sceneggiatura illustra molto bene la resistenza psicologica da parte di Edipo a capire ed accettare la verità e tutta la tematica già presente in Sofocle del contrasto sapere/non sapere, vedere/non vedere, verità/apparenza. Inoltre Tiresia, con la sua carica di inquietudine ed estraneità, mette in crisi le strutture razionali dell⧡ntagonista scatenando la sua reazione emotiva e rabbiosa, una reazione che nell'Edipo re sofocleo era solo verbale, mentre qui si traduce in una violenta aggressione fisica. Che Tiresia sia una proiezione biografica di Edipo risulta peraltro chiaro
dall'Epilogo finale dove Edipo compare cieco e suonatore di flauto del tutto simile a Tiresia.
NOTE
1 Sul tema cfr. K. MAC KINNON, Greek Tragedy into Film, Croom Helm, London/Sidney 1986, con in appendice un utile elenco delle pellicole che si ispirano a tragedie greche (pp. 180-94).
2 Sulle istanze ideologiche e religiose insiste giustamente D. ARONICA, Sulle tracce di una transcodificazione: "Edipo re" da Sofocle a Pasolini, in "Autografo", IV, N.S. 11, 1987, pp. 3-14.
3 P.P. PASOLINI, Il sogno del Centauro, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 87 (titolo originale: Les dernières paroles
d'un impie, a cura di J. DUFLOT, Belfond, Paris 1981).
4 Sul concetto di "barbarie" come linea guida dell'immagine della Grecia costruita da Pasolini è fondamentale il libro di M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, La Nuova Italia, Firenze 1996.
5 "Nella Colchide lunare - così diversa dalla terra di Giasone, che è piatta, malinconica e realistica - tra i folti calanchi, le rupi mostruose, le terrazze labirintiche [...] si celebra un rito [...] che serba intatta la sua fede
nell'ontologia e nella sacralità di 'ciò che è': il mondo come ierofania" (P.P. PASOLINI, Visioni di Medea, scena 12, in Per il cinema, a cura di W. SITI e F. ZABAGLI, Mondadori, Milano 2001, vol. 1, p. 1212).
6 Su questa importante messinscena e in particolare sul contributo pasoliniano cfr. A. BIERL, L'"Orestea" di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teoriche e realizzazioni sceniche, trad. di L. ZENOBI, Bulzoni, Roma 2004, pp. 62-69.
7 Pasolini era ben consapevole della proiezione autobiografica: "In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo [...] Il bambino del Prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre" (P.P. PASOLINI, Edipo re, Garzanti, Milano 1967, p. 366).
8 Sull'interpretazione psicoanalitica dei film mitologici di Pasolini cfr. G. BIASI-RICHTER, Pier Paolo Pasolini e
l'amore per la madre: metamorfosi di un sentimento. Indagine psicoanalitica ispirata dai film "Edipo re" e "Medea", Rasch Universitätsverlag, Osnabrück 1997.
9 P.P. PASOLINI, Edipo re, cit., p. 399.
10 Molto perspicuo il giudizio di Adelio Ferrero: "Edipo re è la trasposizione, sul piano del mito, delle persistenti ossessioni dell'autore, una sorta di allucinazione drammaturgica e figurativa incorniciata tra un prologo e un epilogo situati nel paesaggio della memoria. Un mito in cui le lacerazioni e i conflitti personali tendono a obiettivarsi attraverso la mediazione ironico- estetizzante di un archetipo culturale" (A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1977, p. 89). Sull'interpretazione pasoliniana della figura di Edipo cfr. anche le osservazioni di M. GIGANTE, Edipo uomo qualunque?, in AA.VV., Pasolini e l'antico. I doni della ragione, a cura di U. TODINI, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 69-79 (Edipo come prototipo di chi ricerca la consapevolezza di essere uomini).
11 A. CAIAZZA, La "Medea" come "cinema di poesia", in AA.VV., Pasolini e l'antico, cit., pp. 173-92, in particolare p. 178.
12 “L'Orestiade sintetizza la storia dell'Africa di questi ultimi cento anni: il passaggio cioè quasi brusco e divino, da uno stato 'selvaggio' a uno stato civile e democratico" (P.P. PASOLINI, Nota per l'ambientazione dell'Orestiade in Africa, in Per il cinema, cit., vol. 1, p. 1199 e ss.).
13 Sui significati e le interpretazioni del film eschileo di Pasolini rimando a M. G. BONANNO, Pasolini e l'"Orestea": dal "teatro di parola" al "cinema di poesia", in "Dioniso", 63, 1993, pp. 135-54, e a M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini, cit., pp. 181-242.
14 E' la tecnica che Genette chiama "espansione analettica", ovvero dilatazione all'indietro del racconto (G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982, pp. 298-302).
15 D. ARONICA, Sulle tracce di una transcodificazione, cit., p. 5.
16 Sul modo di tradurre di Pasolini è molto importante la sua Lettera del traduttore pubblicata in ESCHILO, Orestiade, traduzione di P.P. PASOLINI, Einaudi, Torino 1960, pp. 1-3. Su Pasolini traduttore cfr. il saggio di V. RUSSO, Riappropriazione e rifacimento: le traduzioni, in AA.VV., Pasolini e l'antico, cit., pp. 117-43.
17 Ottimo su questo punto il giudizio di Guido Paduano: "L’utilizzazione del testo sofocleo da parte di Pasolini è ricca, affettuosa e profonda quanto lo era stata la sua traduzione dell'Orestea; al punto che, nonostante i tagli drastici apportati in coerenza con una struttura filmica fatta molto più di immagini che di parole, in non pochi elementi allusiva alla dignità e alla pregnanza del muto, io credo che siamo legittimati a mantenere appunto il termine di 'traduzione', con la responsabilità ermeneutica e filologica che esso comporta" (G. PADUANO, "Edipo re" di Pasolini e la filologia degli opposti, in AA.VV., Il mito greco nell'opera di Pasolini, a cura di E. FABBRO, Forum Editrice Universitaria, Udine 2004, p. 79).
18 G. PADUANO, Lunga storia di Edipo Re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Einaudi, Torino 1994, p. 204.
19 Sulla funzione di Tiresia nell'Edipo re di Sofocle cfr. G. UGOLINI, Tiresia e i sovrani di Tebe: il topos del litigio, in “"Materiali e Discussioni per l’analisi dei testi classici⢬ 27, 1991, pp. 9-36 e Teiresias. Untersuchungen zur Figur des Sehers Teiresias in den mythi schen Überlieferungen und in der Tragödie, Gunter Narr Verlag, Tübingen 1995, p. 117 e ss.
20 M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 102.
21 P.P. PASOLINI, Per il cinema, cit., p. 1007.
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