"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Un poeta e Dio
Tratto da Passione e Ideologia, Garzanti.
La prima poesia religiosa di Ungaretti, in cui la religiosità si esprima direttamente come problema di Dio, è Dannazione scritta a Mariano il 29 giugno 1916, e quindi una delle prime dell’Allegria: «Chiuso fra cose mortali | anche il cielo stellato finirà | perché bramo Dio». C’è già il respiro irregistrabile attraverso una lettura puramente acustica del più alto Ungaretti, e forse ciò è dovuto all’altezza iniziale dell’argomento, anche se questo Dio non è quello della Pietà e tanto meno quello di Mio fiume anche tu. Lo stesso giorno (29 giugno) Ungaretti aveva scritto un’altra lirica, Peso, anch’essa spesso citata a documentare la verginità linguistica del primo Ungaretti; l’isolamento e l’alleggerimento del vocabolo (parti di quell’operazione che attraverso l’«immediatezza» non diaristica, e la
«rarefazione», vengono a comporre l’«essenzialità» ungarettiana: sempre su un piano metrico, però, in cui l’«inventio» poetica risponde a un rinverginamento fonico dell’«inventum»: di qui, le bellissime pagine dei vari critici sulla ricomposizione dell’endecasillabo, per esempio, o sulla valorizzazione poetica della sillaba come centro musicale del vocabolo), in Peso hanno effettivamente un valore documentario assai convincente; si osservi però come l’immagine del contadino si ricostituisca nella nostra fantasia abbastanza sensualmente, cioè attraverso le suggestioni divenute convenzionali dell’«immagine poetica», e inoltre come il passaggio dalla prima strofa («Quel contadino…») alla seconda («Ma ben sola…») avvenga attraverso un mutamento di ritmo leggermente oratorio. Si osservino invece i tre versi di Dannazione, che sono piuttosto tre clausole, tre pezzi di lingua autonomi, calati nel silenzio, ognuno (un ottonario, un endecasillabo, un senario) con un’articolazione propria e aperta non sulla continuazione logica o ritmica del discorso, ma sullo spazio bianco, ossia sul silenzio che conchiude le cose espresse compiutamente, eppure così poderosamente stretti fra loro dal nesso grammaticale (apposizione, proposizione principale, proposizione causale) e dal giro ritmico culminante nella tronca dell’endecasillabo e rallentato in un senario solenne e conciso. Ma non vorremmo aggiungere, con queste nostre osservazioni, una pagina di più ad una bibliografia che di simili osservazioni è fin troppo abbondante, quando anzi siamo convinti che si è accentuato eccessivamente il valore metrico dell’Allegria, non considerando forse abbastanza il fatto che la ricerca metrica ungarettiana, seppur talvolta autonoma quasi per un eccesso di funzione, era infine al servizio di una più totale e impegnativa ricerca linguistica. Così si è parlato di immediatezza, rarefazione, essenzialità, ecc., come se questi fossero termini di una terminologia quasi puramente acustica; inimitabili fonemi incantatorii dai contenuti un po’ ovvii, malgrado la loro secchezza e umana cordialità; e l’unico interesse psicologico era forse dato dall’«uomo di pena», che non è poi forse una delle invenzioni più poetiche di Ungaretti.
Ritornando a questa Dannazione si noti appunto come l’«essenzialità» in accezione di verginità linguistica non risieda né nell’isolamento della parola né nell’isolamento del verso, intesi come puri nuclei fonetici dotati come tali di contenuto non logico, ma risieda nella forte e scolpita semanticità della parola, estremamente disadorna («chiuso», «fra», «cose», «mortali» ecc.) il cui incanto nasce da una straordinaria coerenza prima ancora logica che musicale. Certo è che con questa lirica Ungaretti è in piena «allegria», proprio nell’interpretazione data a questa parola-tesi dal Contini (Esercizi di lettura) che cita una «allegrezza» da Leopardi, come momento attivo dell’atto liberatorio della poesia, come passaggio dal piano della vicissitudine umana al piano linguistico. Nell’atto di scrivere Dannazione è ben visibile come Ungaretti vivesse un momento di «consolazione», con un largo margine di sicurezza tra sé e la sua vita (inquietudine, ricerca di Dio), margine riempito, psicologicamente, da quell’«aura di prosperità e vigor d’animo» che è l’allegria. Il giorno 29 giugno 1916 ci offre la possibilità di entrare, forse un po’ indiscretamente, nel laboratorio poetico ungarettiano, fin là dove entrano in scena fatti esteriori e temporali. In Peso c’è tutta la freschezza (un po’ acre) e la sicurezza (un po’ sovrabbondante) di un poeta riposato che non trova quasi resistenze sulla pagina; di qui quella leggera modulazione dal «verbum» all’«oratio», quella pronuncia che accentua il mutamento ritmico dalla prima alla seconda strofa.
Al contrario interessantissimi sono i rifacimenti di Dannazione, e tali da richiedere tutto un discorso a sé; e non c’è da meravigliarsi, se qui il poeta passa da una semplice constatazione sentimentale («Ma ben sola e ben nuda») a un approfondimento che tocca una delle zone più delicate della casistica sentimentale dell’Allegria («chiuso fra cose mortali»).
Dalla prima lezione (Udine 1916, Vallecchi, 1919) che risulta: «Chiuso fra cose mortali | (anche il gran cielo stellato finirà) | perché bramo Dio?», abbiamo dapprima: «Chiuso fra cose mortali | anche il gran cielo stellato finirà | perché bramo Dio» (La Spezia 1923), dove è già caduta la parentesi, e ciò che molto più importa, il punto di domanda: siamo dunque di fronte a una nuova lirica, a cui con l’abolizione dell’attributo «gran», inutilmente accrescitivo, viene data nella terza lezione (Milano 1931, Roma 1936) una veste definitiva e perfetta. Due liriche, dunque (e l’Anceschi le ha raccolte tutt’e due, come autonome, nella sua antologia), che debbono la loro differenziazione semantica e ritmica al mutamento di una proposizione interrogativa («perché bramo Dio?») in una causale («perché bramo Dio»).
Ma nel ’43, edizione Mondadori, ritroviamo la parentesi e il punto di domanda; che cosa ha spinto Ungaretti a questa resipiscenza? Come un lettore attento capisce bene, non si tratta qui di una questione meramente filologica; al contrario è l’intero problema religioso ungarettiano, isolato come elemento della sua poesia, che viene investito. È chiaro che se il poeta ha riammesso nell’edizione definitiva, cioè nella sua Vita di un uomo, la lezione del ’16, ciò non è dovuto a una preferenza tecnica, ma alla coscienza di inserire meglio la lirica nel corso della sua evoluzione interiore. Domandarsi perché si brama Dio è indubbiamente diverso che affermare che lo si brama; tra queste due situazioni psicologiche, che diventano poi due liriche, Ungaretti si è probabilmente ritenuto costretto a scegliere la prima perché meglio corrispondente alla particolare atmosfera della sua religiosità giovanile.
Si legga infatti la terza delle poesie scritte il 29 giugno, Risvegli (dove la stanchezza dell’ispirazione di quel giorno fortunato diviene linguisticamente «tono» nell’effusione, e quasi languore che determina) e si troverà un «Dio cos’è?» che riesce molto indicativo nella sede dove operiamo la nostra ricerca; a parte la tenue fatuità della domanda, coerente del resto col tono della lirica in cui le «cose mortali» si sono mutate nel «bagno di cose consuete» che sorprendono e raddolciscono, è chiaro che qui il «Dio» è ben lontano da quello apostrofato nella Pietà e da quello glorificato in Mio fiume: è ancora impersonale, nozione non ancora semanticamente violata che si identifica con il futuro ponendosi con puro moto musicale in contrasto con il presente. Il Dio dell’Allegria non è che il termine antitetico di «cose mortali»: tutta la lirica si riduce a questi due temi contrapposti ma immobili. Risvegli è una di quelle composizioni rarefatte il cui capolavoro è forse Vanità, dove meglio si configura l’ineffabilità ungarettiana, la parola in trasparenza, il sintagma volatilizzato in nuclei verbali senza peso; e dove si riscontra quella situazione di abbandono, di confidenza, di allegria, molto giovanili, che sono il sottofondo fisico più ancora che psicologico del primo libro ungarettiano; ma la maggior parte dei motivi lirici, se si escludono ancora quelli esterni – ma così intensi e vissuti – come In memoria e Soldati per citare due casi estremi, oppure I fiumi, si stratificano intorno al nucleo «cose mortali», ossia il mondo dalla cui caducità Ungaretti non distingue la propria, e in cui vive immerso, quasi identificandosi, con misticismo di lontanissima origine panico-dannunziana e accenti vociani, con la sua interezza. E questa regressione mistica avviene appunto nell’ambito, strenuamente casto, dell’impurezza, emotività e sensualità giovanili, che sono insieme fonte di gioia e pretesto di scontentezza: leggerezza e peccato. I motivi dell’Allegria, dicevamo, si possono riassumere in un’espressione dello stesso Ungaretti: «barbaglio delle promiscuità», dove un fulgore di gioia giovanile si mescola all’opacità di una sofferenza e di un’intransigenza, ugualmente giovanili, espressa non senza una certa durezza moralistica e intellettualistica, nell’astratto «promiscuità».
Preghiera, la seconda poesia religiosa dell’Allegria, collocata nell’ultima pagina del libro quasi ad aprire una nuova fase, riproduce l’identica situazione di Dannazione, ossia il contrasto tra l’imperfezione («cose mortali», o «barbaglio della promiscuità») e perfezione, ma, ed è questo che importa, il secondo termine è posto nel futuro e inscritto in un paesaggio inimmaginabile (ciò che sostituirà il «cielo stellato»: «una limpida e attonita sfera»). È vero che il futuro con cui si identifica nella Allegria, il tempo di Dio è tanto precorso dalla brama e guardato con tanta limpidezza che viene ad esprimere il più alto grado di probabilità e rientra così nell’ambito dei modi indicativi (certezza) non dei modi congiuntivi (possibilità o volontà); il meccanismo che regola il passaggio tra le due sfere, umana e divina, imperfetta e pura, è presupposto con tale fiducia da accadere quasi fuori dal tempo o in un tempo indifferenziato, sì che il futuro («il cielo stellato finirà», «quando mi desterò») diviene, se si potesse dire, un «futurus pro praesente», un’accensione, una esaltazione del presente. L’effetto lirico che ne deriva è che il discorso è portato sul piano del canto, se il tempo per eccellenza «razionale», il futuro, predica la più irrazionale delle aspirazioni: Dannazione e Preghiera sono dunque due tra le più impressionanti composizioni ungarettiane, di quelle che restano incise nella memoria. Senonché, per riprendere il nostro tema religioso, ci chiediamo, fuori dalla tensione lirica dei testi, se questa identificazione del tempo di Dio con il futuro, non sia, psicologicamente, oltre che una previsione ardentemente consolatoria, anche un differimento. In un certo senso l’Ungaretti «misera barca e oceano libidinoso», l’Ungaretti dell’inquietudine, rimanda la presenza di Dio, come presenza, ancora, non come giudizio, oltre la Todeslinie: è un Dio metafisico il cui pensiero può lenire l’angoscia di trovarsi tra cose dannate all’imperfezione e al peccato, non condannare. Non si è ancora intavolato tra il poeta e Dio il drammatico dialogo della Pietà: nell’Allegria un Dio ignoto («Dio cos’è?») aspetta il poeta silenziosamente, oggetto e identificazione della speranza, simbolo di stasi al cui pensiero la vita sentimentale del poeta si ingorga fino a ripudiarsi, a disgustarsi, ma non ancora fino a creare una strada di salvezza: Dio è soltanto l’eterno. La religiosità ungarettiana è ancora, dunque, a una fase molto giovanile, poco più che inquietudine; ma, se ne osserviamo gli effetti linguistici, non possiamo non convincerci che è già un motivo vitale. Eccettuati rari casi non si trovano nell’Allegria endecasillabi «interi» che abbiano la perfezione e il peso di «anche il cielo stellato finirà» o «il naufragio concedimi Signore | di quel giovane giorno al primo grido» (dove si ha perfino un’inversione e una stupenda allitterazione). Il tempo predicente o vocativo e la chiusura, sempre un poco letteraria, dell’endecasillabo, conferiscono a queste due poesie religiose un’altezza di tono e una pienezza di impasto che le distaccano e le isolano nell’ambito lirico dell’Allegria; siamo fuori dal diarismo (sia pure essenziale o musicale) di questo libro, siamo lontani dal contatto o dall’immersione (sia pure ricca di «raggi e barlumi di allegrezza») nel proprio io corporeo o nel serrato graffito degli avvenimenti; siamo dunque più in là del primo Ungaretti. Come si vede, l’isolamento, magari scolastico, del motivo religioso, può condurci molto lontano, quando si scopra che proprio in quel motivo è più che altrove visibile la matrice del secondo Ungaretti, che è poi la tendenza ad uscire dal presente sensibile verso una maggiore e più articolata durata poetica.
Nella sua inquietudine religiosa, si può dunque rinvenire quella che è forse la sua maggiore individuazione di poeta, la disposizione all’inno; già tutto il materiale lirico Allegria, sensualità, scontentezze, disgusti, estasi e serenità, trovava nella pagina una fisionomia ferma, staccata e svuotata e si disponeva secondo una componente verticale, anche nelle più deliziose e lievi rarefazioni.
Ma il sintomo più chiaro di questa tendenza a uscire dall’occasione e dal sensibile è fornito proprio dal futuro delle due poesie religiose, in un libro scritto tutto al presente; e dal presente il poeta uscirà con le leggende e gli inni del Sentimento e poi del Dolore, ancor più decisamente. È la sua salute che trionfa sulle passeggere traversie giovanili. Intanto Dannazione e Preghiera segnano il primo momento del passaggio dal presente del diario a quello dell’inno.
In molta parte del Sentimento del tempo permane la stessa situazione umana dell’Allegria. C’è sempre una linea della morte da varcare, oltre la quale un futuro predicente (e predicente con la stessa violenza consolatoria dell’Allegria) colloca una fase di interminabile pace. A parte la sontuosità e l’articolazione delle immagini e la civiltà dell’«oratio», tipici del Sentimento, in cui il barbaro Ungaretti fa riverberare il corpo delle sue mitologie, è lo stesso contrasto inquietudine-eternità che si ripete: l’inquietudine è portata su un piano lessicale e metrico più «classico», con un periodare sostenuto nei vocativi, nelle apposizioni, nelle parentesi, nelle inversioni, ma fondamentalmente rimane l’inappagamento dell’Allegria; ugualmente l’eternità si riveste delle attribuzioni del mito, ma fondamentalmente anch’essa rimane «tempo», un tempo nel quale l’assenza della vita è una garanzia di pace e di sollievo dalla vita; ed è in fine un mezzo per procrastinare un giudizio sulla propria condotta e sulla propria sorte.
Ma si vedano, da questo angolo visuale, tutte le liriche raccolte sotto i titoli di Prime, Fine di Crono, Sogni e accordi: non sono forse gli stessi ingorghi sentimentali, le stesse pienezze e distensioni dell’Allegria trasposti su un diverso piano linguistico? Si tratta del passaggio dal presente dell’immediatezza purificata con istantaneo processo di essenzializzazione, al presente composito del mito non privo di aloni letterari e ambiguità raffinate; lo spostamento sarà quasi completo con le Leggende e gli Inni. Intanto prendiamo, per un rapido confronto, una lirica chiaramente sensuale dell’Allegria, Malinconia, e una qualificabile con la stessa sicurezza del Sentimento, Le stagioni; la diversa intonazione linguistica è già stata studiata e chiarita da lettori di noi ben più provvisti, ma, oltre la conversione a un diverso e almeno aprioristicamente più alto canone poetico (i cui risultati, anche nel puro lessico, nell’esempio ora esaminato, non sono poi così distanti da quelli dell’assai più parlata Allegria), si avverta la stessa corposità verbale, che potrebbe equivalere, per chi volesse interpretarla fuori dalla poesia, ad una ricostruzione del sogno, in cui si traduce appunto la pienezza dei sensi in fase di turbamento:
Abbandono dolce di corpi
pesanti d’amaro
labbra rapprese
in tornitura di labbra lontane
voluttà crudele di corpi estinti
in voglie inappagabili. (da Malinconia)
O leggiadri e giulivi coloriti
che la struggente calma alleva,
e addolcirà,
dall’astro desioso adorni,
torniti da soavità,
o seni appena germogliati,
già sospirosi,
colmi e trepidi alle furtive mire.
(da Le stagioni)
Ma anche là dove l’oggetto generico del desiderio non riappare sulla pagina con tanta succosità e corposità di equivalenza, anche là dove l’inquietudine sensuale è più ambigua, epidermica, addirittura allusiva, e insomma definita in un brivido che, ancora con ingrati termini psicologici, potrebbe essere incluso nei sintomi di una regressione o fissazione, il primo e il secondo Ungaretti, cioè il materiale grezzo dell’Allegria e delle prime tre sezioni del Sentimento, non presentano diversità essenziali. E come il turbamento peccaminoso viene trascritto su una pagina lessicalmente e sintatticamente intensa, tanto da parere non di rado dorata con artificio, e in cui la materia d’ispirazione si «chiude» nel giro, per quanto frammentario e spesso congestionato, di un mito, così anche l’aspirazione dell’assoluto, l’ipotesi di un Dio, il Dio trascendente e antropomorfo Allegria, trova concrezioni linguistiche che ne accentuano il carattere un po’ ingenuamente, ma quanto solennemente, mitico e personale.
E, in tutto il Sentimento, Dio resterà persona: persona collocata in un’altra sfera, a cui il poeta si rivolge dapprima (prime tre sezioni, come nell’Allegria) con la certezza illusoria e liberatoria d’essere esaudito nel suo desiderio di riscattarsi definitivamente della sua «voglia inguaribile d’illusorio peccare», poi (Leggende e Inni) con l’appassionato terrore di una preghiera in forma d’inchiesta, se ormai Dio non è più collocato e quasi respinto oltre la morte, ma presenzia, sempre dal di fuori e sempre biblicamente personale, gli atti della vita.
Solo dunque nella seconda parte del Sentimento ci troviamo di fronte a uno sviluppo della religiosità ungarettiana; a questo sviluppo corrisponde anche una nuova fase linguistica, in cui l’oratio abbandona i giri sintattici letterari e talvolta applicati a priori, le ricchezze degli impasti sillabici talvolta ancora sperimentali, e acquista una serietà drammatica, un’aderenza potente, non più a freddo, tra svolgimento semantico e ritmo.
Gli anni intorno al ’30 sono importantissimi nello svolgimento della poesia ungarettiana, ed è probabile che egli abbia scritto le sue cose più alte, appunto dal ’28 (La pietà) al ’32 (Memoria d’Ofelia d’Alba), come a conclusione di un intenso ciclo d’esperienza. Apriamo il libro sulle Leggende, e sorvolata la leggenda, superba, del Capitano, e quella, ancora un po’ legata all’Ungaretti immediatamente, precedente, del primo amore, giungiamo alla Madre, che venendo dopo Dannazione, La preghiera, Caino, La pietà, porta in sé già ben chiariti i nuovi dati dell’esperienza e della sofferenza. Si confronti intanto la lezione del ’29 (apparsa nell’«Italia letteraria»)
Per il tuo forte amore
mi sarà perdonata
la mia voglia inguaribile
d’illusorio peccare
con quella definitiva (vv. 12-13):
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
In ambedue c’è l’elemento nuovo, il perdono, che implica almeno ipoteticamente un approfondimento radicale del senso del divino, ma, prima ancora, una più decisa presa di coscienza e confessione del proprio stato peccaminoso. Le tentazioni e le angoscie della carne che nell’Allegria erano trascritte in un modo linguistico indiretto, leggero, ambiguo – per cui si sarebbe potuto parlare di una sorta di giovanile esibizionismo, di una forma larvale di processo di autopunizione, che, sul piano etico giungeva solo a una generica conoscenza di sé e non postulava quindi un giudizio e un eventuale perdono – qui quelle tentazioni e angoscie di peccatore sono argomento diretto e dichiarato di poesia, e la ferma e appassionata confessione di esse è già una specie di espiazione. Ma evidentemente il male non risiede nelle tentazioni, nelle vanità, nelle tracotanze, nelle brame, che sono attribuzioni della natura umana, quanto semplicemente nel non saperle vincere in osservanza di un qualsiasi giudizio di specie morale. Pertanto il poeta chiede insistentemente a Dio di guarirlo di un male di cui egli stesso non vuole guarire: la mia voglia inguaribile d’illusorio peccare. C’è sempre in lui, nella congestione di una preghiera senza abbandono, una nostalgia per la colpa, una inclinazione ad assolversi: «Perché crei, mente, corrompendo? | perché t’ascolto? | quale segreto eterno | mi farà sempre gola in te?». Così il perdono, che compare come concetto compiutamente espresso nella Madre (lezione definitiva) in forma di intervento miracoloso, quasi ex machina, di Dio, è un atto sempre un poco esterno, meccanico.
Dobbiamo dunque ripetere che ci troviamo ancora una volta di fronte alla stessa situazione religiosa giovanile: il presente peccaminoso e quindi doloroso al di qua del «muro d’ombra» (la solita morte liberatrice, proprio come atto temporale) che si pone in contrasto e si risolve con il futuro catartico, con la predizione cioè di una fase di immobilità («In ginocchio, decisa, | sarai una statua davanti all’Eterno»). Il perdono è, come si diceva, l’elemento nuovo, che presuppone una maggiore intolleranza da parte del poeta verso la propria imperfezione, ma che d’altra parte non si differenzia ancora nettamente dal meccanismo della morte e della resurrezione a una vita pura ed eterna di diritto: l’atto del perdono dapprima era attribuito all’intervento meritorio della «grande bontà» materna (lezione del ’29), poi ad una decisione divina. Quanto di poco cattolico e di vagamente religioso (malgrado la potente religiosità) ci sia in questi versi, non è difficile vedere: una forma di giansenismo, dunque, in questa attesa della «grazia», trascorsa però in un inoperoso e dolente disgusto per la propria vita, messa, dopo la morte, nelle mani di un Dio troppo buono. Il disgusto non è che il primo, incerto passo verso il rimorso e poi la voglia di guarire, sì che, anche da un punto di vista disinteressatamente laico, sarebbe difficilmente accettabile un simile rapporto con l’Eterno; e questo Dio futuro di Ungaretti, un Dio collocato cioè fuori dalla coscienza, così ingenuamente, e, in sede estetica, così potentemente personale con la sua biblica trascendenza, rischia di non avere altra concretezza che quella poetica. (E si pensi al «bisbiglio» divino di Rebora). La religiosità di Ungaretti è un po’ simile a quella di un uomo semplice (come molta, del resto, della sua vita sentimentale); egli accetta il Dio dell’infanzia, e in questa concezione non priva di conformismo e, d’altra parte, di vivi dati fantastici, Dio non potrà mai essere di aiuto al poeta nella vita, fin che sarà oggetto di una fede voluta accanitamente, e non di una fede professata. È così che l’unica poesia veramente religiosa del secondo Ungaretti è La pietà, in cui Dio viene invocato e fatto rientrare nella vita, viene interpellato e aggredito, viene preteso come immediato bisogno di migliorare un’esistenza senza beneficiare dell’atto risolutivo della morte; viene insomma strappato al suo futuro e inserito nel più tempestoso e incerto dei presenti.
L’abbondanza, quasi la congestione, dei motivi abbozzati, svolti, oppure appena accennati e immersi nei vuoti della sintassi: negli spazi bianchi, questa volta affollati di una prosa appassionante; la generosità commovente della ispirazione non tutta contenuta, e talvolta genialmente messa allo scoperto e con i modi fraseologici di un nudo e intrattenibile parlato («Non ne posso più»… «E compiangici, dunque»… «Sono stanco»…); l’infierire delle contraddizioni e dei mutamenti di umore che intessono un discorso ineguale nella sua tensione, ritmato nel suo disordine, tanto da divenire una specie di monologo da tragedia a cui il Tu, interpellato, invocato, assalito, conferisce una drammaticità incessante; tutto questo fa sì che non si rilegga mai La pietà senza rinvenirvi qualcosa di nuovo. Tuttavia per un rapido esame chiamato a illustrare una lettura particolare com’è questa, possiamo distinguere almeno tre motivi «umani» che trovano svolgimenti compiuti nel corpo musicale di questa lirica. Il primo accordo, «Sono un uomo ferito», appartiene chiaramente al motivo della peccaminosità detestata e confessata, la quale consiste essenzialmente nel non avere sentimenti «siempre iguales» come dice Jiménez citato da Bo a proposito della poesia religiosa francese, oltreché, naturalmente, nei «desideri senza amore». Il poeta si sente dunque «ferito» e chiede alla pietà di giungere là dove egli è solo, luogo ben conosciuto dai mistici, ma davanti a cui Ungaretti, che non è un mistico, si disorienta e lo concretizza in un’immagine che in certo modo ne tradisce la pura spiritualità; sicché egli ritorna subito al suo esilio in mezzo agli uomini, dove anche la bontà e l’orgoglio sono peccati, dove il suo mestiere di poesia gli è servito unicamente a regnare sopra fantasmi malgrado i sacrifici estremi («ho fatto a pezzi cuore e mente»): tutto ciò è vanità, è «vento», ma nell’arido deserto disteso tra la vita e la morte, egli ha solo l’inattiva coscienza della vanità, se le fonti del rimorso si sono disseccate, se il peccato non conduce più alla purezza, o a un’illusione di purezza, se la carne cede continuamente e l’anima, coi suoi continui dispendi, è giunta quasi a uno stato di demenza: la sua eccessiva maturità fa «urlare senza voce». Il secondo motivo è quello dedicato agli uomini come «fratelli», dilatando su essi il giudizio formulato su di sé e dividendone le responsabilità: tuttavia anche questo motivo ha accenti di vera pietà, tanto più che spesso non è che un ampliamento corale del primo motivo, quello del peccato d’imperfezione dell’io, essendo qui il noi un plurale simpatetico. Il poeta è in esilio tra gli uomini ma soffre per essi perché, come lui, non conoscono più Dio che di nome. Così appoggiandosi ai diritti di una comunità oltre che ai propri egli può accendersi e inveire: «Dio, guarda la nostra debolezza. Vorremmo una certezza. Di noi nemmeno più ridi? E compiangici, dunque, crudeltà». Ed eccoci a uno dei momenti più poetici della Pietà, l’identificazione improvvisa, irrichiesta, tutta fantastica, puro dolore ed esaltazione, tra i vivi e i morti: «È nei vivi la strada dei defunti, siamo noi la fiumana d’ombre…» Ci troviamo dunque in pieno dubbio, se si teme che la nostra sorte non sia altro che la speranza di un mucchio d’ombra e, temerariamente, si vuole almeno che Dio sia un sogno, ma sia, benché questo si debba evidentemente a uno stato di ostinata demenza; tanto è vero che questo Dio-sogno è sempre nominato invano («E per pensarti, Eterno, non ha che le bestemmie»). Terzo motivo: Dio. S’è già detto che è un Dio compartecipe alla vita, chiamato in causa, coinvolto nel male delle sue creature che cercano in lui, faziosamente, un rimedio. Egli è intanto colui che «scaccia dalla vita» (si legga: «dalla voglia inguaribile di peccare») e che può scacciare dalla morte (si legga: «dalla limpida e attonita sfera»); puro mistero, sia in un ordine metafisico che in un ordine etico, davanti a Lui non resta che mettersi in un puro stato interrogativo: «la tua legge qual è? E tu non saresti che un sogno, Dio? Più non abbagli tu, se non uccidi?». Pertanto Egli «in noi sta e langue, piaga misteriosa».
Come si vede, la vita religiosa e il Dio di questo Ungaretti sono pura tendenza, inquietudine, dinamica; della religione mancano la pratica e la confessione; l’unica speranza resta ancora la morte. Non manca nel Sentimento, tuttavia, un avvertimento di quella che sarà l’ulteriore poesia religiosa di Ungaretti, ossia una professione di fede, un ritorno alla rivelazione.
È La preghiera, dove si leggono fra gli altri meno indicativi e anche un po’ deboli («La vita gli è di peso enorme | come liggiù quell’ale d’ape morta | alla formicola che la trascina»), questi versi:
Oh rasserena questi figli
fa’ che l’uomo torni a sentire
che, uomo, fino a te salisti
per l’infinita sofferenza,
che decisamente ricordano, quelli, quanto più persuasi, di Mio fiume anche tu:
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che ti immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo…
Comunque anche La preghiera ricalca il cammino dal presente (la carne ingannatrice) al futuro, posteriore alla morte, sonno felice nell’eternità di un Dio generoso. S’intende che, fuori dalla poesia, la parte umanamente valida è la prima, cioè l’inquietudine, sia come peccato che come rimorso impotente e pretesa di Dio; e la stupenda Pietà rimane come «il pianto del poeta», se lo stesso poeta, dopo venti anni, lo allude fantasticamente: «Come nel sogno di Michelangelo dove il Padre, per darle vita, tocca il dito a poca terra, il poeta nuovo vorrebbe udire nelle sue povere parole, tornata nel mondo la voce di quella grazia. Per questo ha anche gridato. Per questo ha anche pianto» (G. Ungaretti, Il pianto del poeta, «Gazzettino» dell’11 agosto ’48).
Rimane ora da parlare del Dolore, cioè della più completa e ricca sezione della poesia religiosa ungarettiana; anzi, proprio della terza e ultima parte del dramma, quella risolutiva; e risolutiva non per un improvviso scioglimento, come una storia portata ad una tensione tale per cui il ridiscendere su un piano normale, purificante, fosse necessario. Il «ritorno» di Ungaretti era già in potenza fin dai primi due testi dell’Allegria (si ricordi la citazione: «Di quel giovane giorno al primo grido…»), era già in potenza in tutto il Sentimento del tempo, nonché nello shakespeariano monologo della Pietà. Tutto il motivo religioso ungarettiano si muove lungo la costante stilistica del «ritorno»: il ripristino di una lingua tradizionale, la ricostituzione dei modi istituzionali.
Come sempre, la ricerca linguistica precedeva, intuitivamente, la ricerca interiore: la scoperta di una parola, di un nesso, di un ritmo non poteva essere che l’indice preciso di una immediatamente anteriore scoperta nella storia dell’uomo. La ricerca dell’essenziale, in sede estetica, che cosa era infine – allora inconsapevolmente, se non nei due altissimi brani dell’Allegria – se non una ricerca dell’Essenziale per definizione?
La ricostituzione linguistica all’incirca rondiana del Sentimento era, in altra sede, un riavvicinamento al rapporto costituito con quell’Essenziale, a un dialogo non più come nell’Allegria crudamente e deliziosamente paratattico. E adesso, col Dolore, la reinvenzione di una sintassi, quasi rigidamente tradizionale, coinciderà semplicemente con l’adesione, quasi rigidamente confessionale, al Credo cattolico.
L’Essenziale – alla fine del ciclo – è stato così raggiunto, dal basso all’alto, dall’interno all’esterno; dalla concentrazione all’espansione. Da una ricerca linguistica, che, nel senso negativo della eversione della lingua logica tradizionale, poteva dirsi definitivamente compiuta con l’Allegria, Ungaretti ha ripercorso la strada (le cui tappe erano state bruciate all’andata così fulmineamente) lentamente e faticosamente; e man mano che la lingua del poeta si spiegava, man mano che l’essenzialità si liberava dal nucleo in cui si era concentrata al calore dell’Allegria, per successivi raffreddamenti, in forme più aperte e riconoscibili, Dio si attuava nel suo pensiero. Da puro presagio lirico a crisi (dall’Allegria alla Pietà), da crisi a confessione (dalla Pietà al Dolore).
Autentico e più profondo contenuto di una delle forme poetiche più difficili e pure del nostro tempo, il motivo religioso si sviluppa così in Ungaretti nello stesso ordine intellettuale della poesia, causandola, necessitandola, facendone una sua concezione anche là dove l’argomento era il più profano: questa intellettualità, per cui la ricerca di Dio era unicamente la ricerca della sua essenza, e non mai un avvicinamento a Lui per le povere vie umane, un bisogno di perfettibilità – un problema concretamente morale, ecco – dà ai testi ungarettiani una purezza assoluta; ma questo superamento, ingenuo e solo poetico, del bene e del male, non poteva restare senza riflessi sulla poesia. Si può, letteralmente, dire che in Ungaretti l’ansia fondamentale del cristianesimo, quella del peccato, non esista. Nella Pietà, dove un’eco di quest’ansia pure drammaticamente risuonava, il peccato è quello di non conoscere Dio, di non essere perfetti, di non capire l’essenziale. Era sempre il risultato del peccato: e quindi una posizione morale inattiva e astratta. In Ungaretti non si trova mai un ragionamento di questa specie: «Io sono un peccatore per queste ragioni, e allora tu, Dio, aiutami a giungere a questa salvezza». Dio è sempre futuro, è sempre dopo la morte.
I piccoli peccati, veniali o mortali che siano, non possono e non devono contare: conta un unico peccato che è quello di essere uomo. Ma Ungaretti doveva in un modo o nell’altro scontare – nella poesia – questa sua sordità di fronte al peccato concreto, al problema morale concreto: questa sua posizione religiosa troppo intellettuale, e mai impoetica. Ecco perché il suo ritorno – e tanto meglio per lui, per la sua umanità, per la sua poesia – è sempre in fondo illusorio. La lingua istituzionale è lontana dal Dolore quanto è stata lontana dall’Allegria. La sua parola, nel Dolore come prima, resta sempre calda del fuoco vitale, sconvolta e attonita dal disordine da cui è appena emersa – anche se apparentemente fissa in un discorso che assume l’irrazionale nei sintagmi più complessamente razionali. L’ingenuità anteriore alla parola, l’infanzia, si apprende indelebilmente all’espressione ungarettiana anche quando si fa più sontuosa e classica, fino a decomporre la sua sintassi, a farne stridere le giunture; e la parola che tende a isolarsi, a gravare unicamente su di sé, respinta dal sistema da una latente forza esplosiva, serba in questa sua tendenza una certa fatica, un peso troppo fisico, – così che tra parola e parola spesso si avverte una frizione che minaccia di disgregarne l’unione, di infiammarne il connettivo fino a lederlo. Molte volte si ha l’impressione che basterebbe un minimo urto per respingere questa sintassi al caos della origine, al balbettio, magari ancora potente, di un uomo vichianamente bambino, prossimo all’infanzia, alla freschezza della creazione. Così la persistenza minacciosa del momento creativo, tende di continuo a dissociare la sua lingua; per accertare questo, si guardi la prosa di Ungaretti, sia d’arte che critica, dove il rischio di un dissolvimento, l’urto tra le parti del discorso forzate a sostenere il peso di una verginità divenuta un poco a priori, la forza centrifuga che tende a rilanciare i pezzi della sintassi nella materia da cui erano stati ordinati – con minore necessità e ispirazione che nei testi poetici – potrebbero addirittura far pensare a un Ungaretti fauve: un fauve assolutamente particolare, il barbaro vichiano, insomma, balbettante alla origine della lingua. E questa ingenuità spinta fino al limite dell’impotenza espressiva, scoperta in fondo alla tecnica ungarettiana a risolvere in parte il segreto della sua verginità linguistica, si vorrebbe presentare in altra sede come il fondo dell’imperfezione, del non-essere, dell’inquietudine, che egli davanti alla pagina sempre strenuamente poetica ha trascurato e ignorato. Così tra le righe dei testi ungarettiani, chi lo volesse, potrebbe leggere la storia di un uomo che anziché annotare le sue lotte e le sue rivolte contro se stesso e il peccato (meglio: i peccati) a cui è dannato, preferisca fermare nella pagina i momenti dell’attesa di una Grazia che da se stessa lo redima, e, risparmiandogli di ricorrere a tutti gli inutili e incostanti tentativi, all’uso delle sue povere forze, lo assuma nella sfera dell’essenziale.
Cosa che dovrebbe essere avvenuta nel Dolore. Infatti, concretandola graficamente, topograficamente, si può dire che la sua scrittura vi sia giunta a quella stasi verticale cui tendeva già fino dalle prime prove: all’inno. Stasi: e infatti mai come in Mio fiume anche tu la parola ha contato nel discorso con un così immobile peso di splendida materia linguistica. Mai la sintassi è stata così ferma; aggettivi, verbi, ogni parte del discorso è stata violentata in modo da farle raggiungere costantemente la massa del sostantivo. Non c’è azione o attribuzione se non meramente grammaticale, fittizia: tutto è sostantivato; e infatti si veda il valore costruttivo, nel senso dell’immobilità, che ha questo periodo, dove non è concepibile che l’inversione – addirittura alla latina – come un potente gioco d’incastro, e ogni proposizione è un blocco. Ecco perché il metro tradizionale, per es. quello della canzone leopardiana, è puramente illusorio. Endecasillabi che abbiano validità e conclusione in quanto tali, come «di quel giovane giorno al primo grido», sono rari nel Dolore come lo erano appunto nell’Allegria. E hanno piuttosto il pudibondo valore di un «improvviso», di una clausola rivelatrice. E infatti si legga l’endecasillabo che apre l’inno del Credo: «Mio fiume anche tu, Tevere fatale». Dove ogni comune accentuazione scompare, cadendo praticamente l’accento sulla quinta, la sesta e la decima (e su tre vocali diverse, dando così all’endecasillabo una ancora maggiore eccezionalità di suoni). Disponendo le parole, almeno grammaticalmente, secondo lo schema di una sintassi tradizionale, a sua volta applicata a uno schema metrico tradizionale, Ungaretti, come abbiamo accennato, continua a sentirle nel loro peso di oggetto, sempre fondamentalmente isolate dalla sintassi: il gioco delle inversioni, delle posposizioni, degli enjambements, tanto più impensati in quanto il metro è spesso quasi puramente applicato, invisibile, non serve ad altro che a mantenere la parola intatta nel suo alone, gravitante nel suo centro. Così, volendo attribuire alla «quantità» sillabica delle parole un valore semplicemente e gratuitamente fantastico, si potrebbe dire che il metro ungarettiano è un metro quantitativo: e quanto la sua metrica sia poco «romanza», con tutto ciò che di romantico, e anche di cristiano, la parola implica… lo mostra chiaramente l’assenza di qualsiasi forma melodica di ritmo e l’inesistenza della rima.
La storia della poesia di Ungaretti si svolge dunque per definizione al centro della storia della poesia del Novecento. E quanto di radicalmente italiano è in essa, quanto di istituito in una vicenda secolare che implica una storia del costume e della razza, coincide sempre puntualmente coi risultati della sua lingua. La possibilità che ha Ungaretti di essere in tanti modi, e da tanti, amato, dipende da questo: da questo suo stare al centro. La sua storia d’uomo non è mai una disperazione privata: è sempre trascritta in un ordine poetico o altamente letterario. Nessuno dei poeti contemporanei ha tanto creduto e crede nella poesia. Fino alla convenzione può giungere talvolta il suo distacco, e fino alla reazione il suo ritorno ai modi aprioristici del metro e della grammatica: dopo le ufficialità carducciane o dannunziane, l’Italia, in un certo modo (absit iniuria verbis) può aver trovato in lui il suo poeta ufficiale, almeno nel senso che egli si colloca nel centro della sua lingua letteraria. Si badi che Ungaretti è l’unico che dalla «Voce» alla «Ronda», all’ermetismo, al dopoguerra, abbia sempre occupato una posizione di costante attualità: altri poeti, come Saba, pur parlandoci con uguale costanza, sono rimasti al margine (si badi però che questo non vuol essere un giudizio di valore), e altri poeti, come Sbarbaro, Rebora o Campana, pur parlandoci con uguale violenza, sono rimasti indietro, alla soglia del Novecento, magari a proporci la possibilità di un riallacciamento alla loro posizione, dopo la reazione ermetica, a riprendere il motivo della loro disperazione, ma non certo come Ungaretti a spiegarsi con esempi così chiari.
Resta sempre da vedere però se è poi veramente possibile essere al «centro», senza evaporare nelle astrazioni dell’istituto, nell’anonimo solenne della convenzione letteraria: e abbiamo visto infatti che in Ungaretti i dati del ritorno non sono che dati apparenti. La sua ingenuità e la sua passione bruciano continuamente il suo rigore, lo respingono alla condizione d’eccezione, all’irripetibilità dell’individuo infante e «attonito – come scrive Leopardi – di vedere verificata in sé la regola generale», minacciano di dissociarne le più ardue e solide costruzioni stilistiche. Nel suo classicismo incide sempre un’istanza romantica, come un’istanza eretica incide sempre nel suo cattolicesimo. Ecco perché il Credo del Dolore è quasi confessionale, e la sua lingua è quasi quella della tradizione. Ungaretti resta molto più fedele e vicino di quanto comunemente si creda all’Allegria, questo libriccino che non finisce mai di deliziarci.
1948-51
Ritornando a questa Dannazione si noti appunto come l’«essenzialità» in accezione di verginità linguistica non risieda né nell’isolamento della parola né nell’isolamento del verso, intesi come puri nuclei fonetici dotati come tali di contenuto non logico, ma risieda nella forte e scolpita semanticità della parola, estremamente disadorna («chiuso», «fra», «cose», «mortali» ecc.) il cui incanto nasce da una straordinaria coerenza prima ancora logica che musicale. Certo è che con questa lirica Ungaretti è in piena «allegria», proprio nell’interpretazione data a questa parola-tesi dal Contini (Esercizi di lettura) che cita una «allegrezza» da Leopardi, come momento attivo dell’atto liberatorio della poesia, come passaggio dal piano della vicissitudine umana al piano linguistico. Nell’atto di scrivere Dannazione è ben visibile come Ungaretti vivesse un momento di «consolazione», con un largo margine di sicurezza tra sé e la sua vita (inquietudine, ricerca di Dio), margine riempito, psicologicamente, da quell’«aura di prosperità e vigor d’animo» che è l’allegria. Il giorno 29 giugno 1916 ci offre la possibilità di entrare, forse un po’ indiscretamente, nel laboratorio poetico ungarettiano, fin là dove entrano in scena fatti esteriori e temporali. In Peso c’è tutta la freschezza (un po’ acre) e la sicurezza (un po’ sovrabbondante) di un poeta riposato che non trova quasi resistenze sulla pagina; di qui quella leggera modulazione dal «verbum» all’«oratio», quella pronuncia che accentua il mutamento ritmico dalla prima alla seconda strofa.
Al contrario interessantissimi sono i rifacimenti di Dannazione, e tali da richiedere tutto un discorso a sé; e non c’è da meravigliarsi, se qui il poeta passa da una semplice constatazione sentimentale («Ma ben sola e ben nuda») a un approfondimento che tocca una delle zone più delicate della casistica sentimentale dell’Allegria («chiuso fra cose mortali»).
Dalla prima lezione (Udine 1916, Vallecchi, 1919) che risulta: «Chiuso fra cose mortali | (anche il gran cielo stellato finirà) | perché bramo Dio?», abbiamo dapprima: «Chiuso fra cose mortali | anche il gran cielo stellato finirà | perché bramo Dio» (La Spezia 1923), dove è già caduta la parentesi, e ciò che molto più importa, il punto di domanda: siamo dunque di fronte a una nuova lirica, a cui con l’abolizione dell’attributo «gran», inutilmente accrescitivo, viene data nella terza lezione (Milano 1931, Roma 1936) una veste definitiva e perfetta. Due liriche, dunque (e l’Anceschi le ha raccolte tutt’e due, come autonome, nella sua antologia), che debbono la loro differenziazione semantica e ritmica al mutamento di una proposizione interrogativa («perché bramo Dio?») in una causale («perché bramo Dio»).
Ma nel ’43, edizione Mondadori, ritroviamo la parentesi e il punto di domanda; che cosa ha spinto Ungaretti a questa resipiscenza? Come un lettore attento capisce bene, non si tratta qui di una questione meramente filologica; al contrario è l’intero problema religioso ungarettiano, isolato come elemento della sua poesia, che viene investito. È chiaro che se il poeta ha riammesso nell’edizione definitiva, cioè nella sua Vita di un uomo, la lezione del ’16, ciò non è dovuto a una preferenza tecnica, ma alla coscienza di inserire meglio la lirica nel corso della sua evoluzione interiore. Domandarsi perché si brama Dio è indubbiamente diverso che affermare che lo si brama; tra queste due situazioni psicologiche, che diventano poi due liriche, Ungaretti si è probabilmente ritenuto costretto a scegliere la prima perché meglio corrispondente alla particolare atmosfera della sua religiosità giovanile.
Si legga infatti la terza delle poesie scritte il 29 giugno, Risvegli (dove la stanchezza dell’ispirazione di quel giorno fortunato diviene linguisticamente «tono» nell’effusione, e quasi languore che determina) e si troverà un «Dio cos’è?» che riesce molto indicativo nella sede dove operiamo la nostra ricerca; a parte la tenue fatuità della domanda, coerente del resto col tono della lirica in cui le «cose mortali» si sono mutate nel «bagno di cose consuete» che sorprendono e raddolciscono, è chiaro che qui il «Dio» è ben lontano da quello apostrofato nella Pietà e da quello glorificato in Mio fiume: è ancora impersonale, nozione non ancora semanticamente violata che si identifica con il futuro ponendosi con puro moto musicale in contrasto con il presente. Il Dio dell’Allegria non è che il termine antitetico di «cose mortali»: tutta la lirica si riduce a questi due temi contrapposti ma immobili. Risvegli è una di quelle composizioni rarefatte il cui capolavoro è forse Vanità, dove meglio si configura l’ineffabilità ungarettiana, la parola in trasparenza, il sintagma volatilizzato in nuclei verbali senza peso; e dove si riscontra quella situazione di abbandono, di confidenza, di allegria, molto giovanili, che sono il sottofondo fisico più ancora che psicologico del primo libro ungarettiano; ma la maggior parte dei motivi lirici, se si escludono ancora quelli esterni – ma così intensi e vissuti – come In memoria e Soldati per citare due casi estremi, oppure I fiumi, si stratificano intorno al nucleo «cose mortali», ossia il mondo dalla cui caducità Ungaretti non distingue la propria, e in cui vive immerso, quasi identificandosi, con misticismo di lontanissima origine panico-dannunziana e accenti vociani, con la sua interezza. E questa regressione mistica avviene appunto nell’ambito, strenuamente casto, dell’impurezza, emotività e sensualità giovanili, che sono insieme fonte di gioia e pretesto di scontentezza: leggerezza e peccato. I motivi dell’Allegria, dicevamo, si possono riassumere in un’espressione dello stesso Ungaretti: «barbaglio delle promiscuità», dove un fulgore di gioia giovanile si mescola all’opacità di una sofferenza e di un’intransigenza, ugualmente giovanili, espressa non senza una certa durezza moralistica e intellettualistica, nell’astratto «promiscuità».
Preghiera, la seconda poesia religiosa dell’Allegria, collocata nell’ultima pagina del libro quasi ad aprire una nuova fase, riproduce l’identica situazione di Dannazione, ossia il contrasto tra l’imperfezione («cose mortali», o «barbaglio della promiscuità») e perfezione, ma, ed è questo che importa, il secondo termine è posto nel futuro e inscritto in un paesaggio inimmaginabile (ciò che sostituirà il «cielo stellato»: «una limpida e attonita sfera»). È vero che il futuro con cui si identifica nella Allegria, il tempo di Dio è tanto precorso dalla brama e guardato con tanta limpidezza che viene ad esprimere il più alto grado di probabilità e rientra così nell’ambito dei modi indicativi (certezza) non dei modi congiuntivi (possibilità o volontà); il meccanismo che regola il passaggio tra le due sfere, umana e divina, imperfetta e pura, è presupposto con tale fiducia da accadere quasi fuori dal tempo o in un tempo indifferenziato, sì che il futuro («il cielo stellato finirà», «quando mi desterò») diviene, se si potesse dire, un «futurus pro praesente», un’accensione, una esaltazione del presente. L’effetto lirico che ne deriva è che il discorso è portato sul piano del canto, se il tempo per eccellenza «razionale», il futuro, predica la più irrazionale delle aspirazioni: Dannazione e Preghiera sono dunque due tra le più impressionanti composizioni ungarettiane, di quelle che restano incise nella memoria. Senonché, per riprendere il nostro tema religioso, ci chiediamo, fuori dalla tensione lirica dei testi, se questa identificazione del tempo di Dio con il futuro, non sia, psicologicamente, oltre che una previsione ardentemente consolatoria, anche un differimento. In un certo senso l’Ungaretti «misera barca e oceano libidinoso», l’Ungaretti dell’inquietudine, rimanda la presenza di Dio, come presenza, ancora, non come giudizio, oltre la Todeslinie: è un Dio metafisico il cui pensiero può lenire l’angoscia di trovarsi tra cose dannate all’imperfezione e al peccato, non condannare. Non si è ancora intavolato tra il poeta e Dio il drammatico dialogo della Pietà: nell’Allegria un Dio ignoto («Dio cos’è?») aspetta il poeta silenziosamente, oggetto e identificazione della speranza, simbolo di stasi al cui pensiero la vita sentimentale del poeta si ingorga fino a ripudiarsi, a disgustarsi, ma non ancora fino a creare una strada di salvezza: Dio è soltanto l’eterno. La religiosità ungarettiana è ancora, dunque, a una fase molto giovanile, poco più che inquietudine; ma, se ne osserviamo gli effetti linguistici, non possiamo non convincerci che è già un motivo vitale. Eccettuati rari casi non si trovano nell’Allegria endecasillabi «interi» che abbiano la perfezione e il peso di «anche il cielo stellato finirà» o «il naufragio concedimi Signore | di quel giovane giorno al primo grido» (dove si ha perfino un’inversione e una stupenda allitterazione). Il tempo predicente o vocativo e la chiusura, sempre un poco letteraria, dell’endecasillabo, conferiscono a queste due poesie religiose un’altezza di tono e una pienezza di impasto che le distaccano e le isolano nell’ambito lirico dell’Allegria; siamo fuori dal diarismo (sia pure essenziale o musicale) di questo libro, siamo lontani dal contatto o dall’immersione (sia pure ricca di «raggi e barlumi di allegrezza») nel proprio io corporeo o nel serrato graffito degli avvenimenti; siamo dunque più in là del primo Ungaretti. Come si vede, l’isolamento, magari scolastico, del motivo religioso, può condurci molto lontano, quando si scopra che proprio in quel motivo è più che altrove visibile la matrice del secondo Ungaretti, che è poi la tendenza ad uscire dal presente sensibile verso una maggiore e più articolata durata poetica.
Nella sua inquietudine religiosa, si può dunque rinvenire quella che è forse la sua maggiore individuazione di poeta, la disposizione all’inno; già tutto il materiale lirico Allegria, sensualità, scontentezze, disgusti, estasi e serenità, trovava nella pagina una fisionomia ferma, staccata e svuotata e si disponeva secondo una componente verticale, anche nelle più deliziose e lievi rarefazioni.
Ma il sintomo più chiaro di questa tendenza a uscire dall’occasione e dal sensibile è fornito proprio dal futuro delle due poesie religiose, in un libro scritto tutto al presente; e dal presente il poeta uscirà con le leggende e gli inni del Sentimento e poi del Dolore, ancor più decisamente. È la sua salute che trionfa sulle passeggere traversie giovanili. Intanto Dannazione e Preghiera segnano il primo momento del passaggio dal presente del diario a quello dell’inno.
In molta parte del Sentimento del tempo permane la stessa situazione umana dell’Allegria. C’è sempre una linea della morte da varcare, oltre la quale un futuro predicente (e predicente con la stessa violenza consolatoria dell’Allegria) colloca una fase di interminabile pace. A parte la sontuosità e l’articolazione delle immagini e la civiltà dell’«oratio», tipici del Sentimento, in cui il barbaro Ungaretti fa riverberare il corpo delle sue mitologie, è lo stesso contrasto inquietudine-eternità che si ripete: l’inquietudine è portata su un piano lessicale e metrico più «classico», con un periodare sostenuto nei vocativi, nelle apposizioni, nelle parentesi, nelle inversioni, ma fondamentalmente rimane l’inappagamento dell’Allegria; ugualmente l’eternità si riveste delle attribuzioni del mito, ma fondamentalmente anch’essa rimane «tempo», un tempo nel quale l’assenza della vita è una garanzia di pace e di sollievo dalla vita; ed è in fine un mezzo per procrastinare un giudizio sulla propria condotta e sulla propria sorte.
Ma si vedano, da questo angolo visuale, tutte le liriche raccolte sotto i titoli di Prime, Fine di Crono, Sogni e accordi: non sono forse gli stessi ingorghi sentimentali, le stesse pienezze e distensioni dell’Allegria trasposti su un diverso piano linguistico? Si tratta del passaggio dal presente dell’immediatezza purificata con istantaneo processo di essenzializzazione, al presente composito del mito non privo di aloni letterari e ambiguità raffinate; lo spostamento sarà quasi completo con le Leggende e gli Inni. Intanto prendiamo, per un rapido confronto, una lirica chiaramente sensuale dell’Allegria, Malinconia, e una qualificabile con la stessa sicurezza del Sentimento, Le stagioni; la diversa intonazione linguistica è già stata studiata e chiarita da lettori di noi ben più provvisti, ma, oltre la conversione a un diverso e almeno aprioristicamente più alto canone poetico (i cui risultati, anche nel puro lessico, nell’esempio ora esaminato, non sono poi così distanti da quelli dell’assai più parlata Allegria), si avverta la stessa corposità verbale, che potrebbe equivalere, per chi volesse interpretarla fuori dalla poesia, ad una ricostruzione del sogno, in cui si traduce appunto la pienezza dei sensi in fase di turbamento:
Abbandono dolce di corpi
pesanti d’amaro
labbra rapprese
in tornitura di labbra lontane
voluttà crudele di corpi estinti
in voglie inappagabili. (da Malinconia)
O leggiadri e giulivi coloriti
che la struggente calma alleva,
e addolcirà,
dall’astro desioso adorni,
torniti da soavità,
o seni appena germogliati,
già sospirosi,
colmi e trepidi alle furtive mire.
(da Le stagioni)
Ma anche là dove l’oggetto generico del desiderio non riappare sulla pagina con tanta succosità e corposità di equivalenza, anche là dove l’inquietudine sensuale è più ambigua, epidermica, addirittura allusiva, e insomma definita in un brivido che, ancora con ingrati termini psicologici, potrebbe essere incluso nei sintomi di una regressione o fissazione, il primo e il secondo Ungaretti, cioè il materiale grezzo dell’Allegria e delle prime tre sezioni del Sentimento, non presentano diversità essenziali. E come il turbamento peccaminoso viene trascritto su una pagina lessicalmente e sintatticamente intensa, tanto da parere non di rado dorata con artificio, e in cui la materia d’ispirazione si «chiude» nel giro, per quanto frammentario e spesso congestionato, di un mito, così anche l’aspirazione dell’assoluto, l’ipotesi di un Dio, il Dio trascendente e antropomorfo Allegria, trova concrezioni linguistiche che ne accentuano il carattere un po’ ingenuamente, ma quanto solennemente, mitico e personale.
E, in tutto il Sentimento, Dio resterà persona: persona collocata in un’altra sfera, a cui il poeta si rivolge dapprima (prime tre sezioni, come nell’Allegria) con la certezza illusoria e liberatoria d’essere esaudito nel suo desiderio di riscattarsi definitivamente della sua «voglia inguaribile d’illusorio peccare», poi (Leggende e Inni) con l’appassionato terrore di una preghiera in forma d’inchiesta, se ormai Dio non è più collocato e quasi respinto oltre la morte, ma presenzia, sempre dal di fuori e sempre biblicamente personale, gli atti della vita.
Solo dunque nella seconda parte del Sentimento ci troviamo di fronte a uno sviluppo della religiosità ungarettiana; a questo sviluppo corrisponde anche una nuova fase linguistica, in cui l’oratio abbandona i giri sintattici letterari e talvolta applicati a priori, le ricchezze degli impasti sillabici talvolta ancora sperimentali, e acquista una serietà drammatica, un’aderenza potente, non più a freddo, tra svolgimento semantico e ritmo.
Gli anni intorno al ’30 sono importantissimi nello svolgimento della poesia ungarettiana, ed è probabile che egli abbia scritto le sue cose più alte, appunto dal ’28 (La pietà) al ’32 (Memoria d’Ofelia d’Alba), come a conclusione di un intenso ciclo d’esperienza. Apriamo il libro sulle Leggende, e sorvolata la leggenda, superba, del Capitano, e quella, ancora un po’ legata all’Ungaretti immediatamente, precedente, del primo amore, giungiamo alla Madre, che venendo dopo Dannazione, La preghiera, Caino, La pietà, porta in sé già ben chiariti i nuovi dati dell’esperienza e della sofferenza. Si confronti intanto la lezione del ’29 (apparsa nell’«Italia letteraria»)
Per il tuo forte amore
mi sarà perdonata
la mia voglia inguaribile
d’illusorio peccare
con quella definitiva (vv. 12-13):
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
In ambedue c’è l’elemento nuovo, il perdono, che implica almeno ipoteticamente un approfondimento radicale del senso del divino, ma, prima ancora, una più decisa presa di coscienza e confessione del proprio stato peccaminoso. Le tentazioni e le angoscie della carne che nell’Allegria erano trascritte in un modo linguistico indiretto, leggero, ambiguo – per cui si sarebbe potuto parlare di una sorta di giovanile esibizionismo, di una forma larvale di processo di autopunizione, che, sul piano etico giungeva solo a una generica conoscenza di sé e non postulava quindi un giudizio e un eventuale perdono – qui quelle tentazioni e angoscie di peccatore sono argomento diretto e dichiarato di poesia, e la ferma e appassionata confessione di esse è già una specie di espiazione. Ma evidentemente il male non risiede nelle tentazioni, nelle vanità, nelle tracotanze, nelle brame, che sono attribuzioni della natura umana, quanto semplicemente nel non saperle vincere in osservanza di un qualsiasi giudizio di specie morale. Pertanto il poeta chiede insistentemente a Dio di guarirlo di un male di cui egli stesso non vuole guarire: la mia voglia inguaribile d’illusorio peccare. C’è sempre in lui, nella congestione di una preghiera senza abbandono, una nostalgia per la colpa, una inclinazione ad assolversi: «Perché crei, mente, corrompendo? | perché t’ascolto? | quale segreto eterno | mi farà sempre gola in te?». Così il perdono, che compare come concetto compiutamente espresso nella Madre (lezione definitiva) in forma di intervento miracoloso, quasi ex machina, di Dio, è un atto sempre un poco esterno, meccanico.
Dobbiamo dunque ripetere che ci troviamo ancora una volta di fronte alla stessa situazione religiosa giovanile: il presente peccaminoso e quindi doloroso al di qua del «muro d’ombra» (la solita morte liberatrice, proprio come atto temporale) che si pone in contrasto e si risolve con il futuro catartico, con la predizione cioè di una fase di immobilità («In ginocchio, decisa, | sarai una statua davanti all’Eterno»). Il perdono è, come si diceva, l’elemento nuovo, che presuppone una maggiore intolleranza da parte del poeta verso la propria imperfezione, ma che d’altra parte non si differenzia ancora nettamente dal meccanismo della morte e della resurrezione a una vita pura ed eterna di diritto: l’atto del perdono dapprima era attribuito all’intervento meritorio della «grande bontà» materna (lezione del ’29), poi ad una decisione divina. Quanto di poco cattolico e di vagamente religioso (malgrado la potente religiosità) ci sia in questi versi, non è difficile vedere: una forma di giansenismo, dunque, in questa attesa della «grazia», trascorsa però in un inoperoso e dolente disgusto per la propria vita, messa, dopo la morte, nelle mani di un Dio troppo buono. Il disgusto non è che il primo, incerto passo verso il rimorso e poi la voglia di guarire, sì che, anche da un punto di vista disinteressatamente laico, sarebbe difficilmente accettabile un simile rapporto con l’Eterno; e questo Dio futuro di Ungaretti, un Dio collocato cioè fuori dalla coscienza, così ingenuamente, e, in sede estetica, così potentemente personale con la sua biblica trascendenza, rischia di non avere altra concretezza che quella poetica. (E si pensi al «bisbiglio» divino di Rebora). La religiosità di Ungaretti è un po’ simile a quella di un uomo semplice (come molta, del resto, della sua vita sentimentale); egli accetta il Dio dell’infanzia, e in questa concezione non priva di conformismo e, d’altra parte, di vivi dati fantastici, Dio non potrà mai essere di aiuto al poeta nella vita, fin che sarà oggetto di una fede voluta accanitamente, e non di una fede professata. È così che l’unica poesia veramente religiosa del secondo Ungaretti è La pietà, in cui Dio viene invocato e fatto rientrare nella vita, viene interpellato e aggredito, viene preteso come immediato bisogno di migliorare un’esistenza senza beneficiare dell’atto risolutivo della morte; viene insomma strappato al suo futuro e inserito nel più tempestoso e incerto dei presenti.
L’abbondanza, quasi la congestione, dei motivi abbozzati, svolti, oppure appena accennati e immersi nei vuoti della sintassi: negli spazi bianchi, questa volta affollati di una prosa appassionante; la generosità commovente della ispirazione non tutta contenuta, e talvolta genialmente messa allo scoperto e con i modi fraseologici di un nudo e intrattenibile parlato («Non ne posso più»… «E compiangici, dunque»… «Sono stanco»…); l’infierire delle contraddizioni e dei mutamenti di umore che intessono un discorso ineguale nella sua tensione, ritmato nel suo disordine, tanto da divenire una specie di monologo da tragedia a cui il Tu, interpellato, invocato, assalito, conferisce una drammaticità incessante; tutto questo fa sì che non si rilegga mai La pietà senza rinvenirvi qualcosa di nuovo. Tuttavia per un rapido esame chiamato a illustrare una lettura particolare com’è questa, possiamo distinguere almeno tre motivi «umani» che trovano svolgimenti compiuti nel corpo musicale di questa lirica. Il primo accordo, «Sono un uomo ferito», appartiene chiaramente al motivo della peccaminosità detestata e confessata, la quale consiste essenzialmente nel non avere sentimenti «siempre iguales» come dice Jiménez citato da Bo a proposito della poesia religiosa francese, oltreché, naturalmente, nei «desideri senza amore». Il poeta si sente dunque «ferito» e chiede alla pietà di giungere là dove egli è solo, luogo ben conosciuto dai mistici, ma davanti a cui Ungaretti, che non è un mistico, si disorienta e lo concretizza in un’immagine che in certo modo ne tradisce la pura spiritualità; sicché egli ritorna subito al suo esilio in mezzo agli uomini, dove anche la bontà e l’orgoglio sono peccati, dove il suo mestiere di poesia gli è servito unicamente a regnare sopra fantasmi malgrado i sacrifici estremi («ho fatto a pezzi cuore e mente»): tutto ciò è vanità, è «vento», ma nell’arido deserto disteso tra la vita e la morte, egli ha solo l’inattiva coscienza della vanità, se le fonti del rimorso si sono disseccate, se il peccato non conduce più alla purezza, o a un’illusione di purezza, se la carne cede continuamente e l’anima, coi suoi continui dispendi, è giunta quasi a uno stato di demenza: la sua eccessiva maturità fa «urlare senza voce». Il secondo motivo è quello dedicato agli uomini come «fratelli», dilatando su essi il giudizio formulato su di sé e dividendone le responsabilità: tuttavia anche questo motivo ha accenti di vera pietà, tanto più che spesso non è che un ampliamento corale del primo motivo, quello del peccato d’imperfezione dell’io, essendo qui il noi un plurale simpatetico. Il poeta è in esilio tra gli uomini ma soffre per essi perché, come lui, non conoscono più Dio che di nome. Così appoggiandosi ai diritti di una comunità oltre che ai propri egli può accendersi e inveire: «Dio, guarda la nostra debolezza. Vorremmo una certezza. Di noi nemmeno più ridi? E compiangici, dunque, crudeltà». Ed eccoci a uno dei momenti più poetici della Pietà, l’identificazione improvvisa, irrichiesta, tutta fantastica, puro dolore ed esaltazione, tra i vivi e i morti: «È nei vivi la strada dei defunti, siamo noi la fiumana d’ombre…» Ci troviamo dunque in pieno dubbio, se si teme che la nostra sorte non sia altro che la speranza di un mucchio d’ombra e, temerariamente, si vuole almeno che Dio sia un sogno, ma sia, benché questo si debba evidentemente a uno stato di ostinata demenza; tanto è vero che questo Dio-sogno è sempre nominato invano («E per pensarti, Eterno, non ha che le bestemmie»). Terzo motivo: Dio. S’è già detto che è un Dio compartecipe alla vita, chiamato in causa, coinvolto nel male delle sue creature che cercano in lui, faziosamente, un rimedio. Egli è intanto colui che «scaccia dalla vita» (si legga: «dalla voglia inguaribile di peccare») e che può scacciare dalla morte (si legga: «dalla limpida e attonita sfera»); puro mistero, sia in un ordine metafisico che in un ordine etico, davanti a Lui non resta che mettersi in un puro stato interrogativo: «la tua legge qual è? E tu non saresti che un sogno, Dio? Più non abbagli tu, se non uccidi?». Pertanto Egli «in noi sta e langue, piaga misteriosa».
Come si vede, la vita religiosa e il Dio di questo Ungaretti sono pura tendenza, inquietudine, dinamica; della religione mancano la pratica e la confessione; l’unica speranza resta ancora la morte. Non manca nel Sentimento, tuttavia, un avvertimento di quella che sarà l’ulteriore poesia religiosa di Ungaretti, ossia una professione di fede, un ritorno alla rivelazione.
È La preghiera, dove si leggono fra gli altri meno indicativi e anche un po’ deboli («La vita gli è di peso enorme | come liggiù quell’ale d’ape morta | alla formicola che la trascina»), questi versi:
Oh rasserena questi figli
fa’ che l’uomo torni a sentire
che, uomo, fino a te salisti
per l’infinita sofferenza,
che decisamente ricordano, quelli, quanto più persuasi, di Mio fiume anche tu:
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nelle umane tenebre,
Fratello che ti immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo…
Comunque anche La preghiera ricalca il cammino dal presente (la carne ingannatrice) al futuro, posteriore alla morte, sonno felice nell’eternità di un Dio generoso. S’intende che, fuori dalla poesia, la parte umanamente valida è la prima, cioè l’inquietudine, sia come peccato che come rimorso impotente e pretesa di Dio; e la stupenda Pietà rimane come «il pianto del poeta», se lo stesso poeta, dopo venti anni, lo allude fantasticamente: «Come nel sogno di Michelangelo dove il Padre, per darle vita, tocca il dito a poca terra, il poeta nuovo vorrebbe udire nelle sue povere parole, tornata nel mondo la voce di quella grazia. Per questo ha anche gridato. Per questo ha anche pianto» (G. Ungaretti, Il pianto del poeta, «Gazzettino» dell’11 agosto ’48).
Rimane ora da parlare del Dolore, cioè della più completa e ricca sezione della poesia religiosa ungarettiana; anzi, proprio della terza e ultima parte del dramma, quella risolutiva; e risolutiva non per un improvviso scioglimento, come una storia portata ad una tensione tale per cui il ridiscendere su un piano normale, purificante, fosse necessario. Il «ritorno» di Ungaretti era già in potenza fin dai primi due testi dell’Allegria (si ricordi la citazione: «Di quel giovane giorno al primo grido…»), era già in potenza in tutto il Sentimento del tempo, nonché nello shakespeariano monologo della Pietà. Tutto il motivo religioso ungarettiano si muove lungo la costante stilistica del «ritorno»: il ripristino di una lingua tradizionale, la ricostituzione dei modi istituzionali.
Come sempre, la ricerca linguistica precedeva, intuitivamente, la ricerca interiore: la scoperta di una parola, di un nesso, di un ritmo non poteva essere che l’indice preciso di una immediatamente anteriore scoperta nella storia dell’uomo. La ricerca dell’essenziale, in sede estetica, che cosa era infine – allora inconsapevolmente, se non nei due altissimi brani dell’Allegria – se non una ricerca dell’Essenziale per definizione?
La ricostituzione linguistica all’incirca rondiana del Sentimento era, in altra sede, un riavvicinamento al rapporto costituito con quell’Essenziale, a un dialogo non più come nell’Allegria crudamente e deliziosamente paratattico. E adesso, col Dolore, la reinvenzione di una sintassi, quasi rigidamente tradizionale, coinciderà semplicemente con l’adesione, quasi rigidamente confessionale, al Credo cattolico.
L’Essenziale – alla fine del ciclo – è stato così raggiunto, dal basso all’alto, dall’interno all’esterno; dalla concentrazione all’espansione. Da una ricerca linguistica, che, nel senso negativo della eversione della lingua logica tradizionale, poteva dirsi definitivamente compiuta con l’Allegria, Ungaretti ha ripercorso la strada (le cui tappe erano state bruciate all’andata così fulmineamente) lentamente e faticosamente; e man mano che la lingua del poeta si spiegava, man mano che l’essenzialità si liberava dal nucleo in cui si era concentrata al calore dell’Allegria, per successivi raffreddamenti, in forme più aperte e riconoscibili, Dio si attuava nel suo pensiero. Da puro presagio lirico a crisi (dall’Allegria alla Pietà), da crisi a confessione (dalla Pietà al Dolore).
Autentico e più profondo contenuto di una delle forme poetiche più difficili e pure del nostro tempo, il motivo religioso si sviluppa così in Ungaretti nello stesso ordine intellettuale della poesia, causandola, necessitandola, facendone una sua concezione anche là dove l’argomento era il più profano: questa intellettualità, per cui la ricerca di Dio era unicamente la ricerca della sua essenza, e non mai un avvicinamento a Lui per le povere vie umane, un bisogno di perfettibilità – un problema concretamente morale, ecco – dà ai testi ungarettiani una purezza assoluta; ma questo superamento, ingenuo e solo poetico, del bene e del male, non poteva restare senza riflessi sulla poesia. Si può, letteralmente, dire che in Ungaretti l’ansia fondamentale del cristianesimo, quella del peccato, non esista. Nella Pietà, dove un’eco di quest’ansia pure drammaticamente risuonava, il peccato è quello di non conoscere Dio, di non essere perfetti, di non capire l’essenziale. Era sempre il risultato del peccato: e quindi una posizione morale inattiva e astratta. In Ungaretti non si trova mai un ragionamento di questa specie: «Io sono un peccatore per queste ragioni, e allora tu, Dio, aiutami a giungere a questa salvezza». Dio è sempre futuro, è sempre dopo la morte.
I piccoli peccati, veniali o mortali che siano, non possono e non devono contare: conta un unico peccato che è quello di essere uomo. Ma Ungaretti doveva in un modo o nell’altro scontare – nella poesia – questa sua sordità di fronte al peccato concreto, al problema morale concreto: questa sua posizione religiosa troppo intellettuale, e mai impoetica. Ecco perché il suo ritorno – e tanto meglio per lui, per la sua umanità, per la sua poesia – è sempre in fondo illusorio. La lingua istituzionale è lontana dal Dolore quanto è stata lontana dall’Allegria. La sua parola, nel Dolore come prima, resta sempre calda del fuoco vitale, sconvolta e attonita dal disordine da cui è appena emersa – anche se apparentemente fissa in un discorso che assume l’irrazionale nei sintagmi più complessamente razionali. L’ingenuità anteriore alla parola, l’infanzia, si apprende indelebilmente all’espressione ungarettiana anche quando si fa più sontuosa e classica, fino a decomporre la sua sintassi, a farne stridere le giunture; e la parola che tende a isolarsi, a gravare unicamente su di sé, respinta dal sistema da una latente forza esplosiva, serba in questa sua tendenza una certa fatica, un peso troppo fisico, – così che tra parola e parola spesso si avverte una frizione che minaccia di disgregarne l’unione, di infiammarne il connettivo fino a lederlo. Molte volte si ha l’impressione che basterebbe un minimo urto per respingere questa sintassi al caos della origine, al balbettio, magari ancora potente, di un uomo vichianamente bambino, prossimo all’infanzia, alla freschezza della creazione. Così la persistenza minacciosa del momento creativo, tende di continuo a dissociare la sua lingua; per accertare questo, si guardi la prosa di Ungaretti, sia d’arte che critica, dove il rischio di un dissolvimento, l’urto tra le parti del discorso forzate a sostenere il peso di una verginità divenuta un poco a priori, la forza centrifuga che tende a rilanciare i pezzi della sintassi nella materia da cui erano stati ordinati – con minore necessità e ispirazione che nei testi poetici – potrebbero addirittura far pensare a un Ungaretti fauve: un fauve assolutamente particolare, il barbaro vichiano, insomma, balbettante alla origine della lingua. E questa ingenuità spinta fino al limite dell’impotenza espressiva, scoperta in fondo alla tecnica ungarettiana a risolvere in parte il segreto della sua verginità linguistica, si vorrebbe presentare in altra sede come il fondo dell’imperfezione, del non-essere, dell’inquietudine, che egli davanti alla pagina sempre strenuamente poetica ha trascurato e ignorato. Così tra le righe dei testi ungarettiani, chi lo volesse, potrebbe leggere la storia di un uomo che anziché annotare le sue lotte e le sue rivolte contro se stesso e il peccato (meglio: i peccati) a cui è dannato, preferisca fermare nella pagina i momenti dell’attesa di una Grazia che da se stessa lo redima, e, risparmiandogli di ricorrere a tutti gli inutili e incostanti tentativi, all’uso delle sue povere forze, lo assuma nella sfera dell’essenziale.
Cosa che dovrebbe essere avvenuta nel Dolore. Infatti, concretandola graficamente, topograficamente, si può dire che la sua scrittura vi sia giunta a quella stasi verticale cui tendeva già fino dalle prime prove: all’inno. Stasi: e infatti mai come in Mio fiume anche tu la parola ha contato nel discorso con un così immobile peso di splendida materia linguistica. Mai la sintassi è stata così ferma; aggettivi, verbi, ogni parte del discorso è stata violentata in modo da farle raggiungere costantemente la massa del sostantivo. Non c’è azione o attribuzione se non meramente grammaticale, fittizia: tutto è sostantivato; e infatti si veda il valore costruttivo, nel senso dell’immobilità, che ha questo periodo, dove non è concepibile che l’inversione – addirittura alla latina – come un potente gioco d’incastro, e ogni proposizione è un blocco. Ecco perché il metro tradizionale, per es. quello della canzone leopardiana, è puramente illusorio. Endecasillabi che abbiano validità e conclusione in quanto tali, come «di quel giovane giorno al primo grido», sono rari nel Dolore come lo erano appunto nell’Allegria. E hanno piuttosto il pudibondo valore di un «improvviso», di una clausola rivelatrice. E infatti si legga l’endecasillabo che apre l’inno del Credo: «Mio fiume anche tu, Tevere fatale». Dove ogni comune accentuazione scompare, cadendo praticamente l’accento sulla quinta, la sesta e la decima (e su tre vocali diverse, dando così all’endecasillabo una ancora maggiore eccezionalità di suoni). Disponendo le parole, almeno grammaticalmente, secondo lo schema di una sintassi tradizionale, a sua volta applicata a uno schema metrico tradizionale, Ungaretti, come abbiamo accennato, continua a sentirle nel loro peso di oggetto, sempre fondamentalmente isolate dalla sintassi: il gioco delle inversioni, delle posposizioni, degli enjambements, tanto più impensati in quanto il metro è spesso quasi puramente applicato, invisibile, non serve ad altro che a mantenere la parola intatta nel suo alone, gravitante nel suo centro. Così, volendo attribuire alla «quantità» sillabica delle parole un valore semplicemente e gratuitamente fantastico, si potrebbe dire che il metro ungarettiano è un metro quantitativo: e quanto la sua metrica sia poco «romanza», con tutto ciò che di romantico, e anche di cristiano, la parola implica… lo mostra chiaramente l’assenza di qualsiasi forma melodica di ritmo e l’inesistenza della rima.
La storia della poesia di Ungaretti si svolge dunque per definizione al centro della storia della poesia del Novecento. E quanto di radicalmente italiano è in essa, quanto di istituito in una vicenda secolare che implica una storia del costume e della razza, coincide sempre puntualmente coi risultati della sua lingua. La possibilità che ha Ungaretti di essere in tanti modi, e da tanti, amato, dipende da questo: da questo suo stare al centro. La sua storia d’uomo non è mai una disperazione privata: è sempre trascritta in un ordine poetico o altamente letterario. Nessuno dei poeti contemporanei ha tanto creduto e crede nella poesia. Fino alla convenzione può giungere talvolta il suo distacco, e fino alla reazione il suo ritorno ai modi aprioristici del metro e della grammatica: dopo le ufficialità carducciane o dannunziane, l’Italia, in un certo modo (absit iniuria verbis) può aver trovato in lui il suo poeta ufficiale, almeno nel senso che egli si colloca nel centro della sua lingua letteraria. Si badi che Ungaretti è l’unico che dalla «Voce» alla «Ronda», all’ermetismo, al dopoguerra, abbia sempre occupato una posizione di costante attualità: altri poeti, come Saba, pur parlandoci con uguale costanza, sono rimasti al margine (si badi però che questo non vuol essere un giudizio di valore), e altri poeti, come Sbarbaro, Rebora o Campana, pur parlandoci con uguale violenza, sono rimasti indietro, alla soglia del Novecento, magari a proporci la possibilità di un riallacciamento alla loro posizione, dopo la reazione ermetica, a riprendere il motivo della loro disperazione, ma non certo come Ungaretti a spiegarsi con esempi così chiari.
Resta sempre da vedere però se è poi veramente possibile essere al «centro», senza evaporare nelle astrazioni dell’istituto, nell’anonimo solenne della convenzione letteraria: e abbiamo visto infatti che in Ungaretti i dati del ritorno non sono che dati apparenti. La sua ingenuità e la sua passione bruciano continuamente il suo rigore, lo respingono alla condizione d’eccezione, all’irripetibilità dell’individuo infante e «attonito – come scrive Leopardi – di vedere verificata in sé la regola generale», minacciano di dissociarne le più ardue e solide costruzioni stilistiche. Nel suo classicismo incide sempre un’istanza romantica, come un’istanza eretica incide sempre nel suo cattolicesimo. Ecco perché il Credo del Dolore è quasi confessionale, e la sua lingua è quasi quella della tradizione. Ungaretti resta molto più fedele e vicino di quanto comunemente si creda all’Allegria, questo libriccino che non finisce mai di deliziarci.
1948-51
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