Pasolini compie novant’anni
di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti
La via del sangue
Il 4 settembre 1998 Graziano Verzotto – interrogato a Pavia – confida a Calia che per Mauro De Mauro «il sabotaggio del Morane Saulnier [il bireattore su cui è morto Mattei] si spiegava con una pista esclusivamente italiana. Tale pista, secondo De Mauro, portava direttamente ad Eugenio Cefis e a Vito Guarrasi», avvocato palermitano in odore di mafia, già componente del cda della s.a. "l’Ora" di Palermo – il quotidiano vicino al Pci presso cui lavorava De Mauro – e braccio destro di Cefis in Sicilia. È un tardivo riscontro della testimonianza di Junia De Mauro al giudice istruttore di Palermo Mario Fratantonio il 17 marzo 1971: «Sono in grado di affermare con sicurezza che mio padre addossava precise responsabilità per la morte di Mattei all’attuale presidente dell’Eni Eugenio Cefis».
Un rapporto del 1944 custodito a Washington nell’archivio del Dipartimento di Stato, indica Vito Guarrasi tra i componenti di spicco di Cosa nostra nell’isola. Dal 1948 al 1950 Guarrasi ha avuto Alfredo Dell’Utri (padre di Marcello) quale socio nella Ra.Spe.Me. Spa, azienda che operava nel settore medico. Secondo il giornalista di "Epoca" Pietro Zullino, «Cefis aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e Mediterranea di Gaeta. Queste raffinerie sono tra le principali rifornitrici del sistema difensivo Nato per il sud-Europa e della Sesta Flotta americana; raffinano e vendono petrolio Esso e Shell. Mattei cercava di obbligare la Nato mediterranea a diventare cliente dell’Eni; Cefis si opponeva a questo progetto, per via delle sue cointeressenze».
C’è poi il progetto del metanodotto tra la Sicilia e l’Algeria, del valore di 500 miliardi in lire, caldeggiato da Nino Rovelli e Verzotto, appoggiato dalla Regione Sicilia e avversato da Cefis (che possedeva azioni della società proprietaria delle navi metaniere), oltre che dai petrolieri Angelo Moratti (proprietario della società armatrice delle metaniere, che aveva il trasporto del gas liquefatto in appalto da Esso e Eni) e Vincenzo Cazzaniga, presidente di Esso Italia36. Per loro era più redditizio il trasporto via mare dall’Africa fino a Panigaglia presso La Spezia. Verzotto lamentava che «Quasi tutta la stampa nazionale era allineata sulle posizioni dell’Eni perché direttamente o indirettamente finanziata dall’ente»: Eugenio Cefis era infatti chiamato dal presidente della Sir (Società italiana resine) Nino Rovelli «il grande elemosiniere». Rovelli era politicamente sostenuto da Giulio Andreotti, dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli e da Giovanni Leone, e «ambiva a rimpiazzare Cefis nel controllo dei finanziamenti ai partiti. Rovelli e i politici che lo sostenevano ritenevano infatti Cefis troppo potente, in quanto controllava direttamente la Montedison e gestiva l’Eni tramite Girotti» (Richiesta di archiviazione, p. 366. Girotti è stato vicepresidente di Montedison. Nel 1971 prende il posto di Cefis alla guida dell’Eni, carica da cui si dimetterà nel 1975).
A Palermo il quotidiano "l’Ora" smise presto di occuparsi del metanodotto. Verzotto: «Le mie informazioni dell’epoca mi indussero a ritenere che il mutamento di condotta da parte de "l’Ora" fosse stato direttamente ispirato da ‘Botteghe Oscure’, cui faceva comodo l’esclusivo rapporto centralizzato con i finanziamenti dell’Eni, escludendo eventuali finanziamenti periferici difficilmente controllabili dalla direzione del partito». Il progetto del metanodotto «e la nostra posizione politica erano sostenuti dall’agenzia "Roma Informazioni" di Matteo Tocco, non so se collegata a "Milano Informazioni" [di Corrado Ragozzino]. Tale agenzia era la sola che in quel momento non riceveva sussidi dall’Eni, essendo invece finanziata dall’Ente minerario siciliano». Verzotto parla di De Mauro: con il giornalista «c’era una intesa consolidatasi nel tempo. Da ultimo, io gli avevo chiesto di darmi una mano nel sostenere il progetto del metanodotto e nel contrastare chi vi si opponeva. Era inteso che tale aiuto – che De Mauro mi offriva di buon grado – doveva risolversi in articoli e servizi contro l’Eni e il suo vertice e a favore del metanodotto». Secondo Verzotto, per comprendere i motivi del suo sequestro-assassinio è prima «necessario chiarire perché Mauro – apparentemente senza ragione – fosse stato spostato dalla cronaca allo sport, pochi mesi prima» (testimonianza resa il 4 settembre 1998, Richiesta di archiviazione, pp. 341 sgg.). Verzotto pagava De Mauro: «Era tra noi inteso che tale collaborazione sarebbe stata retribuita dall’Ente minerario siciliano. Ci si era regolati così anche in altre precedenti occasioni. La giustificazione formale dell’esborso da parte dell’Ems (o di una società collegata) a favore di De Mauro, sarebbe stato un incarico per una ricerca sociologica affidata ufficialmente al giornalista».
Mauro De Mauro viene "prelevato" a Palermo il 17 settembre 1970. Le indagini portano presto al fermo del commercialista Antonino Buttafuoco, un massone iscritto alla loggia palermitana Armando Diaz (ne faceva parte anche l’amico di Guarrasi Stefano Bontade, il mandante), loggia collegata alla P2. In città si dà ormai per imminente l’arresto di Vito Guarrasi, «tanto che la sede della Rai di Palermo – lo ricorda Giampaolo Pansa – era già stata allertata affinché potesse preparare una scheda biografica filmata del personaggio». Ma ecco il colpo di scena: dopo aver annunciato il 2 novembre l’imminente arresto del «puparo», il questore di Palermo Ferdinando Li Donni fa una tanto repentina quanto apparentemente inspiegabile marcia indietro. Si scoprirà che il 10 novembre 1970 Guarrasi ha incontrato segretamente il comandante della legione Carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pura coincidenza, ma il 17 novembre 1970, poche ore dopo l’incontro «senza apparente ragione le indagini si arrestarono. La squadra mobile abbandonò la "pista Mattei" e, di fatto, le stesse indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro».
Sin dal primo Rapporto del 6 ottobre 1970 l’Arma cerca di depistare le indagini, dall’omicidio Mattei al narcotraffico, ignorando sistematicamente Vito Guarrasi – il cui nome non figurerà mai nei rapporti dei Carabinieri – al contrario della Polizia, che in due indagini parallele (della Squadra mobile e dell’Ufficio politico) perseguiva con decisione la pista Mattei. Mario Fratantonio è il giudice istruttore che segue l’inchiesta sulla scomparsa di De Mauro: «Il col. Dalla Chiesa assunse direttamente a verbale Graziano Verzotto. Il comportamento dell’ufficiale era assolutamente anomalo perché era una ingerenza sull’istruttoria in corso». Ugo Saito è il sostituto procuratore palermitano incaricato dell’indagine: il rapporto dei Carabinieri «almeno nella sua prima stesura, a giudizio sia mio che di Scaglione41, non era nemmeno sufficiente ad avviare delle misure di prevenzione […] Ricordo che il colonnello Dalla Chiesa mi portò personalmente il Rapporto in udienza, accompagnato da operatori della televisione. Rammento che feci presente a Dalla Chiesa che io ero in udienza e che il Rapporto doveva essere depositato, come è norma, nella segreteria della Procura» (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come lamenta Saito, «improvvisamente non ho visto più nessuno. […] Ebbi successivamente occasione di incontrare in procura Boris Giuliano e siccome i nostri rapporti erano molto cordiali, gli chiesi come procedevano le indagini sulla vicenda De Mauro e come mai, improvvisamente, nessuno pareva più interessarsi a tali investigazioni. Boris Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non ero a conoscenza della circostanza che a ‘Villa Boscogrande’, un Night Club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l’ordine di ‘annacquare’ le indagini. [...] Giuliano mi precisò anche che era presente il direttore dei servizi segreti, facendomene anche il nome: oggi non sono più certo se si trattasse di Miceli o Santovito. Si trattava comunque di colui che in quel momento era al vertice dei servizi segreti [ ...] Prima dell’interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l’istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei. Ritenevamo inoltre che il rag. Buttafuoco non era altro che l’ultimo anello di una catena che faceva capo ad Amintore Fanfani e alla sua corrente… naturalmente quando parlo di questa linea investigativa e di queste decisioni, parlo di decisioni cui eravamo giunti, in pieno accordo, il Procuratore Scaglione e io».
Nel 1971 l’indagine sulla morte di Mauro De Mauro dei giudici Saito e Fratantonio vide emergere la responsabilità di Fanfani, di Cefis e di una terza persona rimasta ignota quali mandanti della morte di Mattei. I due magistrati trasmisero a Pavia le parti in cui si ipotizzavano «ipotesi di responsabilità a carico di alcuni personaggi di rilievo della vita italiana: Fanfani, Cefis e un altro, di cui non ho adesso memoria» (Fratantonio a Calia il 20 febbraio 1998). I documenti non sono mai giunti alla Procura pavese, e tantomeno si trova traccia della loro trasmissione nel fascicolo processuale di Palermo (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come ricorda Antonio Zaccagni, funzionario dell’ufficio politico della questura di Palermo, «la nostra attività era stata sospesa per espressa richiesta del Questore. […] Da quel momento non ci siamo più interessati del caso De Mauro» (Richiesta di archiviazione, p. 358).
Interrogata da Calia, il 22 maggio 1996 la moglie di De Mauro Elda Barbieri ricorda una visita di Dalla Chiesa dieci giorni dopo il sequestro: «il colonnello «insisteva nel sostenere che De Mauro era stato sequestrato per aver scoperto dove sbarcava la droga destinata alla mafia». La signora replicò sottolineando che il marito «si occupava da oltre un mese esclusivamente della ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Enrico Mattei. Fu a quel punto che Dalla Chiesa mi disse: "signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinnanzi a un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato". Io mi indignai e invitai il colonnello a uscire di casa».
Rispondendo a Calia il 4 settembre 1998, Graziano Verzotto riferisce di aver avuto l’impressione «che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spaventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del metanodotto» (Richiesta di archiviazione, p. 349). Da quel momento migliorano i rapporti economici di Verzotto con Guarrasi. Come si legge nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia, «la Banca Loria, già del gruppo Sindona […], passò nel febbraio 1972 sotto il controllo di una finanziaria, la Gefi, che ne acquistò il pacchetto di maggioranza. Del Consiglio di amministrazione della Gefi faceva parte, già prima dell’acquisto del pacchetto di maggioranza della Banca Loria, l’avvocato Vito Guarrasi. Due mesi dopo l’operazione, il 28 aprile 1972, entrò a far parte dell’operazione anche il senatore Graziano Verzotto»
Coinvolto nello scandalo dei "fondi neri" dell’Ente minerario siciliano (depositati presso l’istituto di credito del banchiere della mafia Michele Sindona), nel 1975 Verzotto fugge a Beirut e infine a Parigi sotto falso nome, "coperto" dai Servizi segreti francesi. Farà ritorno in Italia 16 anni dopo, grazie a un indulto.
Pietro Scaglione, 65 anni, viene assassinato il 5 maggio 1971, qualche ora prima della sua partenza per Milano: il giorno successivo era atteso in Tribunale per testimoniare sulla «telefonata compromettente» di Buttafuoco a Guarrasi poco dopo il rapimento di De Mauro, telefonata che incastrava l’avvocato consulente di Cefis in Sicilia. La trascrizione della telefonata sparisce dal fascicolo giudiziario dell’inchiesta De Mauro. Dagli archivi del Tribunale di Palermo sparisce anche il nastro con la registrazione, insieme a cinque faldoni sulla prima indagine. Scomparse anche le impronte digitali lasciate dai rapitori sull’auto di De Mauro.
Il Cavalier Antonino Buttafuoco verrà scarcerato e poi assolto.
Alcuni anni dopo, il questore Ferdinando Li Donni sarà nominato vice capo della polizia.
Il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (l’ideatore del depistaggio sulla droga) nel 1977 verrà ucciso dalla mafia. Secondo il commissario della Questura di Palermo Bruno Contrada, l’ex partigiano della Brigata Osoppo Giuseppe Russo era in «rapporti con i Servizi segreti militari».
Morte violenta anche per Emanuele D’Agostino, Stefano Giaconia, Nino Grado e Mimmo Teresi, i killer al soldo di Bontade che i "pentiti" Francesco Di Carlo e Gaetano Grado hanno indicato come i sicari di De Mauro.
Nel 1973 Carlo Alberto Dalla Chiesa è promosso generale di brigata. Nominato Prefetto di Palermo nove anni dopo, il 3 settembre 1982 viene ucciso in un agguato mafioso.
Sul futuro Prefetto di Palermo resta l’ombra della P2. Secondo Francesco Cossiga, «Dalla Chiesa era sempre stato massone, lui, il padre e il fratello…». E infatti il nome di Romolo Dalla Chiesa risulta(tessera P2 n. 1611). Ma, prosegue l’ex capo dello Stato, «la P2 con la sua carriera non c’entra» (intervista di Giovanni Minoli a Cossiga, Rai 3, 16 gennaio 2006). L’affiliazione risalirebbe al 1976, su invito del generale dell’Arma Franco Picchiotti (tessera P2 n. 1745). Dagli elenchi degli iscritti alla P2 (ritrovati il 17 maggio 1981 nella casa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo) sarebbe stata sottratta la pagina che conteneva il nome del generale e di suo fratello (l’episodio è risolutamente negato dai parenti di Dalla Chiesa). Nel maggio 1982 il ministro degli Interni Virginio Rognoni lo nomina prefetto di Palermo. Isolato e «disarmato» («mi mandano in realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì») Carlo Alberto Dalla Chiesa muore il 3 settembre 1982, ucciso dalla mafia insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Nella sentenza di condanna degli assassini Vincenzo Garatolo e Antonino Madonia si legge: «Si può convenire con chi sostiene che persistono ampie zone d’ombra concernenti sia le modalità dell’invio in Sicilia del generale, sia la coesistenza di specifici interessi all’interno delle stesse istituzioni alla sua eliminazione».
Scrive Steimetz: «Sarebbe giusto trovare un nuovo De Mauro a prova di lupara. Per risapere quali rivelazioni la mafia ha vietato al giornalista che intendeva far luce sulla fine di Mattei. Peccato davvero che l’uomo di Matelica sia finito così, e così presto. Con lui vivo, Cefis sarebbe appena un funzionario, un vice, anche se con la smania delle immobiliari. O forse Mattei l’avrebbe dopo la prima cacciata, definitivamente estromesso. Invece l’araba fenice è risorta dalle ceneri (altrui), anche se ai funerali di Enrico Mattei l’Eugenio Cefis (che non l’amava in vita) era simpaticamente assente, pur dovendogli tutto: prima e specialmente dopo».
A conclusione della sua inchiesta, nonostante la mancata certificazione di sicari e mandanti, Vincenzo Calia scrive:
Dalle fonti di prova raccolte […] emerge che l’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’Ente petrolifero di Stato. […] la programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono – quantomeno a livello di collaborazione e di copertura – un coinvolgimento degli uomini inseriti nello stesso Ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano. Tale coinvolgimento trova conferma nelle soppressioni di prove e di documenti, nelle pressioni, nelle minacce e nell’assoluta mancanza, in ogni archivio, di qualsiasi documento relativo alle indagini e agli accertamenti sulla morte di uno dei personaggi più eminenti nel quadro politico ed economico dell’epoca. […] È facile arguire che tale imponente attività, protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l’esecuzione del delitto e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta – per la sua stessa complessità, ampiezza e durata – esclusivamente a gruppi criminali, economici, italiani o stranieri a "Sette [...o singole] sorelle" o servizi segreti di altri Paesi, se non con l’appoggio e la fattiva collaborazione – cosciente, volontaria e continuata – di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso Ente petrolifero di Stato, che hanno eseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o con il consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito vantaggi.
Indagando sulla morte del presidente dell’Eni (nonostante l’accertamento del reato, l’inchiesta verrà archiviata per l’impossibilità di incriminare i colpevoli), Calia ha potuto constatare la lucidità dello scrittore "corsaro" nel ricostruire in Petrolio il degrado e la mostruosità italiana, identificando il burattinaio principale in Cefis, affarista e "liberista" tanto quanto Mattei era utopista e "statalista".
Dopo la scalata dell’Eni alla Montedison (il colosso chimico privato acquisito con pubblico denaro), nel 1971 Cefis ne diventa il presidente, lasciando l’Eni (a cui era alla guida dal 1967) al fido Raffaele Girotti. Come ironizza Steimetz, Cefis «si crede un semidio e trova fedeli osservanti in questo suo culto della persona. Se tutti gli danno retta, è ovvio che finisca per convincersi di aver perfettamente e abitualmente ragione. È saccente, tiene a distanza i villani, si lascia appena ossequiare. Ma in Italia lo applaudono ad esempio. L’economia del Paese – come avvertono gli studiosi e i politici seri – va piuttosto male, se non a rotoli, ma lui accantona miliardi senza faticare molto visto il numero di utili idioti che lo favoriscono». Basterebbe aggiungere una bandana estiva, e il ritratto di Steimetz calza alla perfezione con quello di un altro Cavaliere. Chissà, forse Questo è Cefis lo si può trovare anche nella napoleonica villa San Martino di Arcore, acquisita nel 1972 dalla Edilnord – una società immobiliare in quel momento intestata a Mauro Borsani (zio di Berlusconi) e amministrata da Giorgio Dall’Oglio (cognato di Berlusconi) – per una ridicola cifra intorno a 250 milioni in lire (già all’epoca ne valeva 1.700; oggi il suo prezzo salirebbe a 7,3 miliardi delle vecchie lire) completa di parco (1 milione di mq.), di pinacoteca (Tintoretto, Tiepolo, Luini…) e biblioteca con oltre 10.000 volumi (per la loro cura venne assunto nientemeno che Marcello Dell’Utri).
Secondo un rapporto della Guardia di Finanza una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali di Umberto Previti padre di Cesare (già Edilnord sas di Silvio Berlusconi & c.) con sede a Lugano, curiosamente si chiama Cefinvest. Nel 1979 le Fiamme Gialle sottopongono Berlusconi ad indagine. Lui dirà che della Edilnord «è un semplice consulente», verrà creduto e l’indagine sarà archiviata. Il capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria che l’aveva condotta era Massimo Maria Berruti, che «negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò a lungo per conto del gruppo Fininvest» divenendo infine deputato di Forza Italia (Luca Andrei, Tanto denaro dal nulla, in Berlusconeide, "Diario del mese" marzo 2001, p. 112).
Insomma, vent’anni prima di Berlusconi, come scrive Steimetz, anche «Cefis sa quello che vuole e lo ottiene a qualsiasi prezzo, specie quando spende i soldi dello Stato, facendo funzionare gli ingranaggi con l’olio sottratto agli ingranaggi stessi. No, non è un ladro. Amministra fondi dello Stato, li investe, li dispensa come crede, autonomo come glielo garantisce, giustamente, la carica ricevuta». Il presidente di Montedison «Dispone inoltre di un esercito di funzionari, di mezzi di informazione, di centri d’opinione privati e di Stato, di occulte protezioni che lo sostengono e (magari a malincuore) lo riveriscono; si assicura favori e silenzio commissionando spazi pubblicitari».
Secondo Massimo Teodori (radicale, membro della Commissione parlamentare sulla Loggia P2) il capo dell’Eni «diviene progressivamente un vero e proprio potentato, che sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, condiziona pesantemente la stampa, usa illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, pratica l’intimidazione e il ricatto, compie manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompe politici, stabilisce alleanze con ministri, partiti e correnti». Insomma, Cefis corrompe tutto e tutti. Sono da antologia i quotidiani "mattinali" che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli (tessera P2 1605) quotidianamente inoltrava al presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua personale polizia privata. Lo riferisce un’inchiesta di Giuseppe Catalano, pubblicata da "L’espresso" il 4 e l’11 agosto 1974 (articoli che ritroviamo tra le carte di Pasolini al Viesseux). Scrive Catalano:
Nel 1972 Cefis era già da un anno presidente della Montedison. Dopo essere stato alla presidenza dell’Eni per dieci anni esatti. In quel momento il problema principale era proprio l’Eni perché, avendo contribuito a insediare come suo successore Raffaele Girotti ed avendo sperato che Girotti fosse una specie di suo fedele luogotenente lasciato di vigilanza in modo che Eni e Montedison non fossero altro che un unico gruppo guidato ovviamente da Cefis; viceversa in quei primi mesi s’accorse che Girotti dimostrava un’inconsueta e testarda autonomia. Non è da stupirsi se gran parte delle schede informative che il Sid passava a Cefis si riferivano a fatti e orientamenti concernenti l’Eni. Altre preoccupazioni e interessi del nuovo presidente della Montedison erano in quel momento conoscere esattamente cosa avveniva al vertice dei partiti e in particolare del partito socialista, posto che per quanto riguarda la Democrazia cristiana egli aveva fonti dirette e autonome di informazione (Cefis e il Sid. Il mattinale, "L’espresso", 4 agosto 1974. L’inchiesta prosegue l’11 agosto con un secondo articolo di Catalano dal titolo E l’ammiraglio allora disse).
Attraverso spioni di Stato il presidente della Montedison monitorava politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private. Uno scenario inquietante, che entra in Petrolio. Come annota Silvia De Laude, «Pasolini riprende pressoché alla lettera» i "mattinali" del Sid reinventandoli narrativamente (De Laude, pp. 605-06).
Cefis è industriale di Stato e contemporaneamente imprenditore privato. «Quali sono dunque gli addebiti che muoviamo al dott. Eugenio Cefis?», scrive Steimetz: «Anzitutto il fatto di aver intestato alla sua segretaria privata un certo numero di società immobiliari e di partecipazione industriale e commerciale. In secondo luogo quello di essere entrato, attraverso alcune di tali società, in compartecipazioni con gruppi finanziari stranieri, i quali per dislocazione, tradizione e consuetudine puzzano di legale intrallazzo onde evadere il fisco (italiano)» (Feudi e vassalli del Gran barone, p. 197). Insomma, «prosperano più i suoi affari privati che quelli affidati alle sue cure dallo Stato. Si noti inoltre che il brav’uomo finanzia i partiti e dispone pertanto di alleati in ogni posto chiave. In altre parole: nel ’45 Cefis capitali non ne possedeva; oggi ha dei beni valutabili a miliardi» (Altri capoversi per un apologo morale, p. 182) In Questo è Cefis Steimetz elenca poi le società e indica i prestanome: sono i «feudi e vassalli del Gran barone» o, con Pasolini, «Il cosiddetto impero dei Troya».
Nel 1976, a soli 56 anni, improvvisamente Cefis abbandona la direzione di Montedison e si ritira a Lugano. In Svizzera coltiva l’ossessione di cancellare ogni traccia del suo passato: come ricorda l’ex dirigente Eni Mario Pirani, «Cefis appariva a tutti molto misterioso, quasi a volere confermare le proprie origini di ufficiale del Servizio informazioni militare (Sim). Aveva persino proibito che apparisse la sua immagine o il suo nome sui giornali»(Pirani a Calia il 20 febbraio 1996. Richiesta di archiviazione, p. 399). Come, del resto, Troya alias Cefis in Petrolio: «Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile "fonte" d’informazione su di lui era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire» (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, p. 95). E Giorgio Bocca: «In genere, si atteggiava da agente segreto. Quando doveva incontrarsi con qualcuno, lo portava sulla sua Citroën Ds in aperta campagna. Non si fidava di nessuno: era un pessimo personaggio». Un’ossessione di cui quantomeno hanno fatto le spese libri come Questo è Cefis del misterioso Steimetz, e L’uragano Cefis (introvabile pubblicazione di un altrettanto misterioso Giorgio De Masi) e, verosimilmente, Petrolio.
«Ma è possibile che facciano fuori uno scrittore?» La risposta di Calia: «Possibilissimo. E se vuole la mia opinione, io ne sono convinto». Pasolini non è stato ucciso da un "ragazzo di vita" poiché omosessuale, bensì da sicari armati dai poteri, occulti o meno, in quanto oppositore a conoscenza di verità scottanti, elementi e conoscenze che andavano forse ben oltre i mandanti della morte di Mattei. Quali? In un appunto del Servizio segreto militare (Sismi) rintracciato da Calia si afferma nientemeno che Cefis è il vero capo della P2:
Notizie acquisite il 20 settembre 1983, da qualificato professionista molto vicino ad elementi iscritti alla Loggia P2, dei quali non condivide le idee […]. La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti (Rovelli della Sir) contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli […] Alle 15,30 di oggi, 21 settembre 1983, ho conversato telefonicamente con la nota fonte di New York che mi ha confermato. (Richiesta di archiviazione, p. 404).
Da un altro appunto del Sisde del 17 settembre 1982 si apprende che «Intensi contatti sarebbero intercorsi in Svizzera, fino al mese di agosto u.s., tra Licio Gelli ed Eugenio Cefis, presidente della Montedison International». Come ha scritto Gianluigi Melega, intorno a Cefis orbitavano molti personaggi nell’elenco della P2: «Albanese Gioacchino (tessera P2 n. 2210). Entra nell’Eni come assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali. Nel 1966 ne esce per fare l’assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali, il democristiano di sinistra Carlo Bo. Rientra all’Eni come assistente di Eugenio Cefis con delega alle relazioni esterne e ai rapporti con la stampa. È uno dei tessitori della scalata Eni alla Montedison, poi dell’acquisto del "Messaggero" e del controllo indiretto del "Corriere della Sera" ai tempi di Angelone Rizzoli (tessera n. 1977) e Bruno Tassan Din (tessera n. 1633), direttore Franco Di Bella (tessera n. 1887). Dopo l’abbandono di Cefis, Albanese passa per pochi mesi nella direzione dell’impero edilizio di Mario Genchini (tessera n. 1627), ma con l’arrivo all’Eni di Giorgio Mazzanti presidente (tessera n. 2111) e di Leonardo Di Donna potentissimo direttore finanziario (tessera 2086) ritorna alla grande come vice presidente dell’Anic» ( "L’espresso", 4 settembre 1997).
La "strategia della tensione" non vuole destabilizzare; al contrario vuole consolidare un sistema che si muove con le bombe degli anni Settanta per arrivare con mezzi più subdoli alla presa del potere dei nostri giorni. La chiave di lettura di questo criminale asse politico-economico tentacolare sta in gran parte in Questo è Cefis e nel "visionario" e mutilato Petrolio: preannunciato di 2.000 pagine, e destinato a rimanere incompiuto, Petrolio è anche un romanzo-verità sull’Italia del doppio boom, sviluppo e bombe. Bombe stragiste, piduiste e mafiose. Uno «Stato nello Stato» che nel 1962 ha tolto di mezzo Mattei, nel 1968 De Mauro, nel 1971 il giudice Pietro Scaglione e nel 1975, con ogni probabilità, lo stesso Pasolini. A loro va aggiunto il vice questore di Palermo Boris Giuliano, ucciso da Leoluca Bagarella il 21 luglio 1979.
La storia d’Italia è piena di capitoli oscuri che a decenni di distanza non sono stati ancora chiariti: bombe, omicidi, finti suicidi, sparizioni, finti incidenti, Mattei, De Mauro, Scaglione, Feltrinelli, Falcone, Borsellino, Giuliano, Rostagno, Ilaria Alpi, D’Antona, Biagi, Michele Landi, tutti i testimoni di Ustica… e la lista potrebbe continuare. A ogni morte un fascicolo distrutto, un memoriale scomparso, un computer manomesso. Anche l’omicidio di Pasolini è uno di quei capitoli bui?
Nel corso delle indagini siciliane sulla morte di Mattei, Boris Giuliano si ritrovò a indagare Vito Guarrasi. Secondo una nota del Sisde del 25 luglio 1979, «Da una ampia azione informativa e di sondaggio, sviluppata anche in collaborazione di alcune fonti "qualificate", in ordine alle recenti uccisioni dell’avv. Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, e del vice Questore Boris Giuliano, Capo della Squadra mobile di Palermo, sono emerse le seguenti indicazioni […] Si vocifera che il defunto vice Questore Giuliano si occupasse, quasi a titolo personale, cercando di evitare ogni indiscrezione, della scomparsa del noto giornalista Mauro De Mauro, eliminato – si afferma – per aver trovato il bandolo della matassa sull’incidente aereo che costò la vita al presidente Enrico Mattei. In proposito un magistrato della Procura di Roma, collegando l’intera vicenda, avrebbe confidato a persona amica che, secondo il suo giudizio, l’eliminazione di De Mauro, dell’On. Mattei e del vice Questore Giuliano, gli richiamerebbe il nome dell’ex Presidente della Montedison Eugenio Cefis». Dopo la morte di Giuliano, a capo della Mobile di Palermo verrà nominato Giuseppe Impallomeni (tessera P2 n. 2213), che subito sopprime la sezione Antimafia e la sezione Catturandi della Mobile. Impallomeni era stato allontanato dalla Mobile di Firenze per un giro di tangenti. Dal 309° posto della graduatoria dei vice questori aggiunti, era inopinatamente passato al 13° posto, fatto che gli consentì l’incarico alla Questura di Palermo. Questore del capoluogo siciliano fu nominato Giuseppe Nicolicchia, di cui venne rinvenuta la domanda d’iscrizione alla P2 nel 1981. L’antistato di Eugenio Cefis, Licio Gelli, Umberto Ortolani e Elio Vito Rondanelli consegna infine il testimone alla monocrazia mediatica dell’affiliato Silvio Berlusconi (tessera P2 n. 1816), che il 18 gennaio 1994 insieme a Marcello Dell’Utri (membro dell’Opus Dei e amico di Gaetano Cinà, esponente della famiglia mafiosa dei Malaspina, vicina al boss Stefano Bontade, coinvolto nell’omicidio di Mattei) fonda Forza Italia. Non è nota la provenienza dei capitali che inaugurano l’"irresistibile" ascesa dell’uomo di Arcore.
La lucidità visionaria di Petrolio, l’inquietante intreccio tra politica criminalità e affari che lì si racconta, sarà chiaro solo molti anni dopo, così come la strategia delle stragi fasciste e di Stato che passa, anche terminologicamente, dagli articoli al romanzo. Così scrive Pasolini nel famoso articolo Il romanzo delle stragi (quello che inizia con «Io so. Io so i nomi….»), uscito il 14 novembre 1974 sul "Corriere della sera":
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. […] Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico […] Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono […] verità politica da pratica politica.
Come si è visto, Pasolini entra in possesso di Questo è Cefis a partire dalla fine del settembre 1974, «almeno due settimane dopo che la cugina Graziella Chiarcossi, su richiesta dell’autore, fece una fotocopia del dattiloscritto, per paura che questo andasse perduto come precedentemente accadde a Primo Levi per il furto dell’auto. Sappiamo allora che le accuse luterane del Processo ai Nixon italiani furono speculari alla stesura delle pagine più politiche di Petrolio, e che se di giorno Pasolini scriveva «di sapere ma di non avere le prove» di notte stillava i nomi e i cognomi e i retroscena di quelle trame eversive che per più di un decennio adulterarono la prassi democratica nel nostro Paese». (Antoniani, Contro tutto questo)
A sinistra il Pci sa e ha le prove, ma sta a guardare. Il partito «pulito» rivendica la sua diversità antropologica mentre il suo "doppio" partecipa come tutti al banchetto Enimont, amministra clientele, soffoca i movimenti e ogni altro embrione di nuove culture politiche libertarie. È la palestra alla quale si forma buona parte della classe dirigente immortale e immorale che continua a guidare il Partito democratico. Rimanendo all’inchiesta di Calia, una nota di Polizia del 18 marzo 1974 riporta quanto segue: «Non è un segreto che, per tenersi buono il Pci, vi sono grossissime società private che, quando decidono di fare le loro campagne pubblicitarie a tutta pagina, includono nei loro budget anche la stampa comunista. Lo stesso criterio – per non essere accusati d’intolleranza – impiegano le grosse società di mano pubblica, quali l’Eni, l’Iri, la Montedison, ecc… Ciononostante, poiché tradizionalmente i quotidiani del pomeriggio sono ritenuti un cattivo veicolo pubblicitario, in rapporto ai quotidiani del mattino, "l’Ora" non ospita quasi mai grossi quantitativi di questo tipo di pubblicità, che normalmente viene pagata a tariffa piena (una pagina di pubblicità Spi costa attorno ai due milioni). Per tale motivo, il quotidiano palermitano, ormai da diversi anni, non attende che sia la Spi a fornirgli la pubblicità, ma tenta d’acquisirla direttamente dalle Società e dagli Enti […] In proposito, si ricorda, che nel settembre scorso su "l’Ora" (che riprendeva integralmente gli articoli che apparivano sul confratello "Paese Sera") apparve un’inchiesta sui petrolieri italiani condotta da Miriam Mafai. L’inchiesta passò al pettine l’origine e la natura delle fortune finanziarie dei petrolieri quali Monti, Moratti, Garrone, Rovelli, etc. Visti i sistemi con cui opera "l’Ora", non si può escludere che i petrolieri e l’Unione petrolifera abbiano versato denaro contante al giornale o si siano impegnati in contratti pubblicitari, con pubblicità tabellare o redazionale. Si sa per certo, ad esempio, che dopo un periodo di polemica con la Sir dell’ing. Rovelli, "l’Ora", da alcuni mesi, marcia in perfetto accordo con l’industriale: segno che avrà cominciato a intrattenere "rapporti" concreti con lui» (Richiesta di archiviazione, p. 346).
C’è poi il progetto del metanodotto tra la Sicilia e l’Algeria, del valore di 500 miliardi in lire, caldeggiato da Nino Rovelli e Verzotto, appoggiato dalla Regione Sicilia e avversato da Cefis (che possedeva azioni della società proprietaria delle navi metaniere), oltre che dai petrolieri Angelo Moratti (proprietario della società armatrice delle metaniere, che aveva il trasporto del gas liquefatto in appalto da Esso e Eni) e Vincenzo Cazzaniga, presidente di Esso Italia36. Per loro era più redditizio il trasporto via mare dall’Africa fino a Panigaglia presso La Spezia. Verzotto lamentava che «Quasi tutta la stampa nazionale era allineata sulle posizioni dell’Eni perché direttamente o indirettamente finanziata dall’ente»: Eugenio Cefis era infatti chiamato dal presidente della Sir (Società italiana resine) Nino Rovelli «il grande elemosiniere». Rovelli era politicamente sostenuto da Giulio Andreotti, dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli e da Giovanni Leone, e «ambiva a rimpiazzare Cefis nel controllo dei finanziamenti ai partiti. Rovelli e i politici che lo sostenevano ritenevano infatti Cefis troppo potente, in quanto controllava direttamente la Montedison e gestiva l’Eni tramite Girotti» (Richiesta di archiviazione, p. 366. Girotti è stato vicepresidente di Montedison. Nel 1971 prende il posto di Cefis alla guida dell’Eni, carica da cui si dimetterà nel 1975).
A Palermo il quotidiano "l’Ora" smise presto di occuparsi del metanodotto. Verzotto: «Le mie informazioni dell’epoca mi indussero a ritenere che il mutamento di condotta da parte de "l’Ora" fosse stato direttamente ispirato da ‘Botteghe Oscure’, cui faceva comodo l’esclusivo rapporto centralizzato con i finanziamenti dell’Eni, escludendo eventuali finanziamenti periferici difficilmente controllabili dalla direzione del partito». Il progetto del metanodotto «e la nostra posizione politica erano sostenuti dall’agenzia "Roma Informazioni" di Matteo Tocco, non so se collegata a "Milano Informazioni" [di Corrado Ragozzino]. Tale agenzia era la sola che in quel momento non riceveva sussidi dall’Eni, essendo invece finanziata dall’Ente minerario siciliano». Verzotto parla di De Mauro: con il giornalista «c’era una intesa consolidatasi nel tempo. Da ultimo, io gli avevo chiesto di darmi una mano nel sostenere il progetto del metanodotto e nel contrastare chi vi si opponeva. Era inteso che tale aiuto – che De Mauro mi offriva di buon grado – doveva risolversi in articoli e servizi contro l’Eni e il suo vertice e a favore del metanodotto». Secondo Verzotto, per comprendere i motivi del suo sequestro-assassinio è prima «necessario chiarire perché Mauro – apparentemente senza ragione – fosse stato spostato dalla cronaca allo sport, pochi mesi prima» (testimonianza resa il 4 settembre 1998, Richiesta di archiviazione, pp. 341 sgg.). Verzotto pagava De Mauro: «Era tra noi inteso che tale collaborazione sarebbe stata retribuita dall’Ente minerario siciliano. Ci si era regolati così anche in altre precedenti occasioni. La giustificazione formale dell’esborso da parte dell’Ems (o di una società collegata) a favore di De Mauro, sarebbe stato un incarico per una ricerca sociologica affidata ufficialmente al giornalista».
Mauro De Mauro viene "prelevato" a Palermo il 17 settembre 1970. Le indagini portano presto al fermo del commercialista Antonino Buttafuoco, un massone iscritto alla loggia palermitana Armando Diaz (ne faceva parte anche l’amico di Guarrasi Stefano Bontade, il mandante), loggia collegata alla P2. In città si dà ormai per imminente l’arresto di Vito Guarrasi, «tanto che la sede della Rai di Palermo – lo ricorda Giampaolo Pansa – era già stata allertata affinché potesse preparare una scheda biografica filmata del personaggio». Ma ecco il colpo di scena: dopo aver annunciato il 2 novembre l’imminente arresto del «puparo», il questore di Palermo Ferdinando Li Donni fa una tanto repentina quanto apparentemente inspiegabile marcia indietro. Si scoprirà che il 10 novembre 1970 Guarrasi ha incontrato segretamente il comandante della legione Carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pura coincidenza, ma il 17 novembre 1970, poche ore dopo l’incontro «senza apparente ragione le indagini si arrestarono. La squadra mobile abbandonò la "pista Mattei" e, di fatto, le stesse indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro».
Sin dal primo Rapporto del 6 ottobre 1970 l’Arma cerca di depistare le indagini, dall’omicidio Mattei al narcotraffico, ignorando sistematicamente Vito Guarrasi – il cui nome non figurerà mai nei rapporti dei Carabinieri – al contrario della Polizia, che in due indagini parallele (della Squadra mobile e dell’Ufficio politico) perseguiva con decisione la pista Mattei. Mario Fratantonio è il giudice istruttore che segue l’inchiesta sulla scomparsa di De Mauro: «Il col. Dalla Chiesa assunse direttamente a verbale Graziano Verzotto. Il comportamento dell’ufficiale era assolutamente anomalo perché era una ingerenza sull’istruttoria in corso». Ugo Saito è il sostituto procuratore palermitano incaricato dell’indagine: il rapporto dei Carabinieri «almeno nella sua prima stesura, a giudizio sia mio che di Scaglione41, non era nemmeno sufficiente ad avviare delle misure di prevenzione […] Ricordo che il colonnello Dalla Chiesa mi portò personalmente il Rapporto in udienza, accompagnato da operatori della televisione. Rammento che feci presente a Dalla Chiesa che io ero in udienza e che il Rapporto doveva essere depositato, come è norma, nella segreteria della Procura» (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come lamenta Saito, «improvvisamente non ho visto più nessuno. […] Ebbi successivamente occasione di incontrare in procura Boris Giuliano e siccome i nostri rapporti erano molto cordiali, gli chiesi come procedevano le indagini sulla vicenda De Mauro e come mai, improvvisamente, nessuno pareva più interessarsi a tali investigazioni. Boris Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non ero a conoscenza della circostanza che a ‘Villa Boscogrande’, un Night Club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l’ordine di ‘annacquare’ le indagini. [...] Giuliano mi precisò anche che era presente il direttore dei servizi segreti, facendomene anche il nome: oggi non sono più certo se si trattasse di Miceli o Santovito. Si trattava comunque di colui che in quel momento era al vertice dei servizi segreti [ ...] Prima dell’interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l’istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei. Ritenevamo inoltre che il rag. Buttafuoco non era altro che l’ultimo anello di una catena che faceva capo ad Amintore Fanfani e alla sua corrente… naturalmente quando parlo di questa linea investigativa e di queste decisioni, parlo di decisioni cui eravamo giunti, in pieno accordo, il Procuratore Scaglione e io».
Nel 1971 l’indagine sulla morte di Mauro De Mauro dei giudici Saito e Fratantonio vide emergere la responsabilità di Fanfani, di Cefis e di una terza persona rimasta ignota quali mandanti della morte di Mattei. I due magistrati trasmisero a Pavia le parti in cui si ipotizzavano «ipotesi di responsabilità a carico di alcuni personaggi di rilievo della vita italiana: Fanfani, Cefis e un altro, di cui non ho adesso memoria» (Fratantonio a Calia il 20 febbraio 1998). I documenti non sono mai giunti alla Procura pavese, e tantomeno si trova traccia della loro trasmissione nel fascicolo processuale di Palermo (Richiesta di archiviazione, p. 332). Come ricorda Antonio Zaccagni, funzionario dell’ufficio politico della questura di Palermo, «la nostra attività era stata sospesa per espressa richiesta del Questore. […] Da quel momento non ci siamo più interessati del caso De Mauro» (Richiesta di archiviazione, p. 358).
Interrogata da Calia, il 22 maggio 1996 la moglie di De Mauro Elda Barbieri ricorda una visita di Dalla Chiesa dieci giorni dopo il sequestro: «il colonnello «insisteva nel sostenere che De Mauro era stato sequestrato per aver scoperto dove sbarcava la droga destinata alla mafia». La signora replicò sottolineando che il marito «si occupava da oltre un mese esclusivamente della ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Enrico Mattei. Fu a quel punto che Dalla Chiesa mi disse: "signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse, ci troveremmo dinnanzi a un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato". Io mi indignai e invitai il colonnello a uscire di casa».
Rispondendo a Calia il 4 settembre 1998, Graziano Verzotto riferisce di aver avuto l’impressione «che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spaventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del metanodotto» (Richiesta di archiviazione, p. 349). Da quel momento migliorano i rapporti economici di Verzotto con Guarrasi. Come si legge nella Relazione della Commissione parlamentare antimafia, «la Banca Loria, già del gruppo Sindona […], passò nel febbraio 1972 sotto il controllo di una finanziaria, la Gefi, che ne acquistò il pacchetto di maggioranza. Del Consiglio di amministrazione della Gefi faceva parte, già prima dell’acquisto del pacchetto di maggioranza della Banca Loria, l’avvocato Vito Guarrasi. Due mesi dopo l’operazione, il 28 aprile 1972, entrò a far parte dell’operazione anche il senatore Graziano Verzotto»
Coinvolto nello scandalo dei "fondi neri" dell’Ente minerario siciliano (depositati presso l’istituto di credito del banchiere della mafia Michele Sindona), nel 1975 Verzotto fugge a Beirut e infine a Parigi sotto falso nome, "coperto" dai Servizi segreti francesi. Farà ritorno in Italia 16 anni dopo, grazie a un indulto.
Pietro Scaglione, 65 anni, viene assassinato il 5 maggio 1971, qualche ora prima della sua partenza per Milano: il giorno successivo era atteso in Tribunale per testimoniare sulla «telefonata compromettente» di Buttafuoco a Guarrasi poco dopo il rapimento di De Mauro, telefonata che incastrava l’avvocato consulente di Cefis in Sicilia. La trascrizione della telefonata sparisce dal fascicolo giudiziario dell’inchiesta De Mauro. Dagli archivi del Tribunale di Palermo sparisce anche il nastro con la registrazione, insieme a cinque faldoni sulla prima indagine. Scomparse anche le impronte digitali lasciate dai rapitori sull’auto di De Mauro.
Il Cavalier Antonino Buttafuoco verrà scarcerato e poi assolto.
Alcuni anni dopo, il questore Ferdinando Li Donni sarà nominato vice capo della polizia.
Il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (l’ideatore del depistaggio sulla droga) nel 1977 verrà ucciso dalla mafia. Secondo il commissario della Questura di Palermo Bruno Contrada, l’ex partigiano della Brigata Osoppo Giuseppe Russo era in «rapporti con i Servizi segreti militari».
Morte violenta anche per Emanuele D’Agostino, Stefano Giaconia, Nino Grado e Mimmo Teresi, i killer al soldo di Bontade che i "pentiti" Francesco Di Carlo e Gaetano Grado hanno indicato come i sicari di De Mauro.
Nel 1973 Carlo Alberto Dalla Chiesa è promosso generale di brigata. Nominato Prefetto di Palermo nove anni dopo, il 3 settembre 1982 viene ucciso in un agguato mafioso.
Sul futuro Prefetto di Palermo resta l’ombra della P2. Secondo Francesco Cossiga, «Dalla Chiesa era sempre stato massone, lui, il padre e il fratello…». E infatti il nome di Romolo Dalla Chiesa risulta(tessera P2 n. 1611). Ma, prosegue l’ex capo dello Stato, «la P2 con la sua carriera non c’entra» (intervista di Giovanni Minoli a Cossiga, Rai 3, 16 gennaio 2006). L’affiliazione risalirebbe al 1976, su invito del generale dell’Arma Franco Picchiotti (tessera P2 n. 1745). Dagli elenchi degli iscritti alla P2 (ritrovati il 17 maggio 1981 nella casa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo) sarebbe stata sottratta la pagina che conteneva il nome del generale e di suo fratello (l’episodio è risolutamente negato dai parenti di Dalla Chiesa). Nel maggio 1982 il ministro degli Interni Virginio Rognoni lo nomina prefetto di Palermo. Isolato e «disarmato» («mi mandano in realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì») Carlo Alberto Dalla Chiesa muore il 3 settembre 1982, ucciso dalla mafia insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Nella sentenza di condanna degli assassini Vincenzo Garatolo e Antonino Madonia si legge: «Si può convenire con chi sostiene che persistono ampie zone d’ombra concernenti sia le modalità dell’invio in Sicilia del generale, sia la coesistenza di specifici interessi all’interno delle stesse istituzioni alla sua eliminazione».
Scrive Steimetz: «Sarebbe giusto trovare un nuovo De Mauro a prova di lupara. Per risapere quali rivelazioni la mafia ha vietato al giornalista che intendeva far luce sulla fine di Mattei. Peccato davvero che l’uomo di Matelica sia finito così, e così presto. Con lui vivo, Cefis sarebbe appena un funzionario, un vice, anche se con la smania delle immobiliari. O forse Mattei l’avrebbe dopo la prima cacciata, definitivamente estromesso. Invece l’araba fenice è risorta dalle ceneri (altrui), anche se ai funerali di Enrico Mattei l’Eugenio Cefis (che non l’amava in vita) era simpaticamente assente, pur dovendogli tutto: prima e specialmente dopo».
A conclusione della sua inchiesta, nonostante la mancata certificazione di sicari e mandanti, Vincenzo Calia scrive:
Dalle fonti di prova raccolte […] emerge che l’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’Ente petrolifero di Stato. […] la programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono – quantomeno a livello di collaborazione e di copertura – un coinvolgimento degli uomini inseriti nello stesso Ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano. Tale coinvolgimento trova conferma nelle soppressioni di prove e di documenti, nelle pressioni, nelle minacce e nell’assoluta mancanza, in ogni archivio, di qualsiasi documento relativo alle indagini e agli accertamenti sulla morte di uno dei personaggi più eminenti nel quadro politico ed economico dell’epoca. […] È facile arguire che tale imponente attività, protrattasi nel tempo, prima per la preparazione e l’esecuzione del delitto e poi per disinformare e depistare, non può essere ascritta – per la sua stessa complessità, ampiezza e durata – esclusivamente a gruppi criminali, economici, italiani o stranieri a "Sette [...o singole] sorelle" o servizi segreti di altri Paesi, se non con l’appoggio e la fattiva collaborazione – cosciente, volontaria e continuata – di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nello stesso Ente petrolifero di Stato, che hanno eseguito ordini o consigli, deliberato autonomamente o con il consenso e il sostegno di interessi coincidenti, ma che, comunque, da quel delitto hanno conseguito vantaggi.
Indagando sulla morte del presidente dell’Eni (nonostante l’accertamento del reato, l’inchiesta verrà archiviata per l’impossibilità di incriminare i colpevoli), Calia ha potuto constatare la lucidità dello scrittore "corsaro" nel ricostruire in Petrolio il degrado e la mostruosità italiana, identificando il burattinaio principale in Cefis, affarista e "liberista" tanto quanto Mattei era utopista e "statalista".
Dopo la scalata dell’Eni alla Montedison (il colosso chimico privato acquisito con pubblico denaro), nel 1971 Cefis ne diventa il presidente, lasciando l’Eni (a cui era alla guida dal 1967) al fido Raffaele Girotti. Come ironizza Steimetz, Cefis «si crede un semidio e trova fedeli osservanti in questo suo culto della persona. Se tutti gli danno retta, è ovvio che finisca per convincersi di aver perfettamente e abitualmente ragione. È saccente, tiene a distanza i villani, si lascia appena ossequiare. Ma in Italia lo applaudono ad esempio. L’economia del Paese – come avvertono gli studiosi e i politici seri – va piuttosto male, se non a rotoli, ma lui accantona miliardi senza faticare molto visto il numero di utili idioti che lo favoriscono». Basterebbe aggiungere una bandana estiva, e il ritratto di Steimetz calza alla perfezione con quello di un altro Cavaliere. Chissà, forse Questo è Cefis lo si può trovare anche nella napoleonica villa San Martino di Arcore, acquisita nel 1972 dalla Edilnord – una società immobiliare in quel momento intestata a Mauro Borsani (zio di Berlusconi) e amministrata da Giorgio Dall’Oglio (cognato di Berlusconi) – per una ridicola cifra intorno a 250 milioni in lire (già all’epoca ne valeva 1.700; oggi il suo prezzo salirebbe a 7,3 miliardi delle vecchie lire) completa di parco (1 milione di mq.), di pinacoteca (Tintoretto, Tiepolo, Luini…) e biblioteca con oltre 10.000 volumi (per la loro cura venne assunto nientemeno che Marcello Dell’Utri).
Secondo un rapporto della Guardia di Finanza una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali di Umberto Previti padre di Cesare (già Edilnord sas di Silvio Berlusconi & c.) con sede a Lugano, curiosamente si chiama Cefinvest. Nel 1979 le Fiamme Gialle sottopongono Berlusconi ad indagine. Lui dirà che della Edilnord «è un semplice consulente», verrà creduto e l’indagine sarà archiviata. Il capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria che l’aveva condotta era Massimo Maria Berruti, che «negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò a lungo per conto del gruppo Fininvest» divenendo infine deputato di Forza Italia (Luca Andrei, Tanto denaro dal nulla, in Berlusconeide, "Diario del mese" marzo 2001, p. 112).
Insomma, vent’anni prima di Berlusconi, come scrive Steimetz, anche «Cefis sa quello che vuole e lo ottiene a qualsiasi prezzo, specie quando spende i soldi dello Stato, facendo funzionare gli ingranaggi con l’olio sottratto agli ingranaggi stessi. No, non è un ladro. Amministra fondi dello Stato, li investe, li dispensa come crede, autonomo come glielo garantisce, giustamente, la carica ricevuta». Il presidente di Montedison «Dispone inoltre di un esercito di funzionari, di mezzi di informazione, di centri d’opinione privati e di Stato, di occulte protezioni che lo sostengono e (magari a malincuore) lo riveriscono; si assicura favori e silenzio commissionando spazi pubblicitari».
Secondo Massimo Teodori (radicale, membro della Commissione parlamentare sulla Loggia P2) il capo dell’Eni «diviene progressivamente un vero e proprio potentato, che sfruttando le risorse imprenditoriali pubbliche, condiziona pesantemente la stampa, usa illecitamente i servizi segreti dello Stato a scopo di informazione, pratica l’intimidazione e il ricatto, compie manovre finanziarie spregiudicate oltre i limiti della legalità, corrompe politici, stabilisce alleanze con ministri, partiti e correnti». Insomma, Cefis corrompe tutto e tutti. Sono da antologia i quotidiani "mattinali" che il capo dei Servizi segreti Vito Miceli (tessera P2 1605) quotidianamente inoltrava al presidente di Montedison, quasi che il Sid fosse una sua personale polizia privata. Lo riferisce un’inchiesta di Giuseppe Catalano, pubblicata da "L’espresso" il 4 e l’11 agosto 1974 (articoli che ritroviamo tra le carte di Pasolini al Viesseux). Scrive Catalano:
Nel 1972 Cefis era già da un anno presidente della Montedison. Dopo essere stato alla presidenza dell’Eni per dieci anni esatti. In quel momento il problema principale era proprio l’Eni perché, avendo contribuito a insediare come suo successore Raffaele Girotti ed avendo sperato che Girotti fosse una specie di suo fedele luogotenente lasciato di vigilanza in modo che Eni e Montedison non fossero altro che un unico gruppo guidato ovviamente da Cefis; viceversa in quei primi mesi s’accorse che Girotti dimostrava un’inconsueta e testarda autonomia. Non è da stupirsi se gran parte delle schede informative che il Sid passava a Cefis si riferivano a fatti e orientamenti concernenti l’Eni. Altre preoccupazioni e interessi del nuovo presidente della Montedison erano in quel momento conoscere esattamente cosa avveniva al vertice dei partiti e in particolare del partito socialista, posto che per quanto riguarda la Democrazia cristiana egli aveva fonti dirette e autonome di informazione (Cefis e il Sid. Il mattinale, "L’espresso", 4 agosto 1974. L’inchiesta prosegue l’11 agosto con un secondo articolo di Catalano dal titolo E l’ammiraglio allora disse).
Attraverso spioni di Stato il presidente della Montedison monitorava politici, industriali, giornalisti, aziende pubbliche e private. Uno scenario inquietante, che entra in Petrolio. Come annota Silvia De Laude, «Pasolini riprende pressoché alla lettera» i "mattinali" del Sid reinventandoli narrativamente (De Laude, pp. 605-06).
Cefis è industriale di Stato e contemporaneamente imprenditore privato. «Quali sono dunque gli addebiti che muoviamo al dott. Eugenio Cefis?», scrive Steimetz: «Anzitutto il fatto di aver intestato alla sua segretaria privata un certo numero di società immobiliari e di partecipazione industriale e commerciale. In secondo luogo quello di essere entrato, attraverso alcune di tali società, in compartecipazioni con gruppi finanziari stranieri, i quali per dislocazione, tradizione e consuetudine puzzano di legale intrallazzo onde evadere il fisco (italiano)» (Feudi e vassalli del Gran barone, p. 197). Insomma, «prosperano più i suoi affari privati che quelli affidati alle sue cure dallo Stato. Si noti inoltre che il brav’uomo finanzia i partiti e dispone pertanto di alleati in ogni posto chiave. In altre parole: nel ’45 Cefis capitali non ne possedeva; oggi ha dei beni valutabili a miliardi» (Altri capoversi per un apologo morale, p. 182) In Questo è Cefis Steimetz elenca poi le società e indica i prestanome: sono i «feudi e vassalli del Gran barone» o, con Pasolini, «Il cosiddetto impero dei Troya».
Nel 1976, a soli 56 anni, improvvisamente Cefis abbandona la direzione di Montedison e si ritira a Lugano. In Svizzera coltiva l’ossessione di cancellare ogni traccia del suo passato: come ricorda l’ex dirigente Eni Mario Pirani, «Cefis appariva a tutti molto misterioso, quasi a volere confermare le proprie origini di ufficiale del Servizio informazioni militare (Sim). Aveva persino proibito che apparisse la sua immagine o il suo nome sui giornali»(Pirani a Calia il 20 febbraio 1996. Richiesta di archiviazione, p. 399). Come, del resto, Troya alias Cefis in Petrolio: «Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare nell’ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile "fonte" d’informazione su di lui era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire» (Appunto 22. Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya, p. 95). E Giorgio Bocca: «In genere, si atteggiava da agente segreto. Quando doveva incontrarsi con qualcuno, lo portava sulla sua Citroën Ds in aperta campagna. Non si fidava di nessuno: era un pessimo personaggio». Un’ossessione di cui quantomeno hanno fatto le spese libri come Questo è Cefis del misterioso Steimetz, e L’uragano Cefis (introvabile pubblicazione di un altrettanto misterioso Giorgio De Masi) e, verosimilmente, Petrolio.
«Ma è possibile che facciano fuori uno scrittore?» La risposta di Calia: «Possibilissimo. E se vuole la mia opinione, io ne sono convinto». Pasolini non è stato ucciso da un "ragazzo di vita" poiché omosessuale, bensì da sicari armati dai poteri, occulti o meno, in quanto oppositore a conoscenza di verità scottanti, elementi e conoscenze che andavano forse ben oltre i mandanti della morte di Mattei. Quali? In un appunto del Servizio segreto militare (Sismi) rintracciato da Calia si afferma nientemeno che Cefis è il vero capo della P2:
Notizie acquisite il 20 settembre 1983, da qualificato professionista molto vicino ad elementi iscritti alla Loggia P2, dei quali non condivide le idee […]. La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita sino a quando è rimasto presidente della Montedison. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo Ortolani-Gelli, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti (Rovelli della Sir) contro uomini legati ad Andreotti con il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli […] Alle 15,30 di oggi, 21 settembre 1983, ho conversato telefonicamente con la nota fonte di New York che mi ha confermato. (Richiesta di archiviazione, p. 404).
Da un altro appunto del Sisde del 17 settembre 1982 si apprende che «Intensi contatti sarebbero intercorsi in Svizzera, fino al mese di agosto u.s., tra Licio Gelli ed Eugenio Cefis, presidente della Montedison International». Come ha scritto Gianluigi Melega, intorno a Cefis orbitavano molti personaggi nell’elenco della P2: «Albanese Gioacchino (tessera P2 n. 2210). Entra nell’Eni come assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali. Nel 1966 ne esce per fare l’assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali, il democristiano di sinistra Carlo Bo. Rientra all’Eni come assistente di Eugenio Cefis con delega alle relazioni esterne e ai rapporti con la stampa. È uno dei tessitori della scalata Eni alla Montedison, poi dell’acquisto del "Messaggero" e del controllo indiretto del "Corriere della Sera" ai tempi di Angelone Rizzoli (tessera n. 1977) e Bruno Tassan Din (tessera n. 1633), direttore Franco Di Bella (tessera n. 1887). Dopo l’abbandono di Cefis, Albanese passa per pochi mesi nella direzione dell’impero edilizio di Mario Genchini (tessera n. 1627), ma con l’arrivo all’Eni di Giorgio Mazzanti presidente (tessera n. 2111) e di Leonardo Di Donna potentissimo direttore finanziario (tessera 2086) ritorna alla grande come vice presidente dell’Anic» ( "L’espresso", 4 settembre 1997).
La "strategia della tensione" non vuole destabilizzare; al contrario vuole consolidare un sistema che si muove con le bombe degli anni Settanta per arrivare con mezzi più subdoli alla presa del potere dei nostri giorni. La chiave di lettura di questo criminale asse politico-economico tentacolare sta in gran parte in Questo è Cefis e nel "visionario" e mutilato Petrolio: preannunciato di 2.000 pagine, e destinato a rimanere incompiuto, Petrolio è anche un romanzo-verità sull’Italia del doppio boom, sviluppo e bombe. Bombe stragiste, piduiste e mafiose. Uno «Stato nello Stato» che nel 1962 ha tolto di mezzo Mattei, nel 1968 De Mauro, nel 1971 il giudice Pietro Scaglione e nel 1975, con ogni probabilità, lo stesso Pasolini. A loro va aggiunto il vice questore di Palermo Boris Giuliano, ucciso da Leoluca Bagarella il 21 luglio 1979.
La storia d’Italia è piena di capitoli oscuri che a decenni di distanza non sono stati ancora chiariti: bombe, omicidi, finti suicidi, sparizioni, finti incidenti, Mattei, De Mauro, Scaglione, Feltrinelli, Falcone, Borsellino, Giuliano, Rostagno, Ilaria Alpi, D’Antona, Biagi, Michele Landi, tutti i testimoni di Ustica… e la lista potrebbe continuare. A ogni morte un fascicolo distrutto, un memoriale scomparso, un computer manomesso. Anche l’omicidio di Pasolini è uno di quei capitoli bui?
Nel corso delle indagini siciliane sulla morte di Mattei, Boris Giuliano si ritrovò a indagare Vito Guarrasi. Secondo una nota del Sisde del 25 luglio 1979, «Da una ampia azione informativa e di sondaggio, sviluppata anche in collaborazione di alcune fonti "qualificate", in ordine alle recenti uccisioni dell’avv. Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona, e del vice Questore Boris Giuliano, Capo della Squadra mobile di Palermo, sono emerse le seguenti indicazioni […] Si vocifera che il defunto vice Questore Giuliano si occupasse, quasi a titolo personale, cercando di evitare ogni indiscrezione, della scomparsa del noto giornalista Mauro De Mauro, eliminato – si afferma – per aver trovato il bandolo della matassa sull’incidente aereo che costò la vita al presidente Enrico Mattei. In proposito un magistrato della Procura di Roma, collegando l’intera vicenda, avrebbe confidato a persona amica che, secondo il suo giudizio, l’eliminazione di De Mauro, dell’On. Mattei e del vice Questore Giuliano, gli richiamerebbe il nome dell’ex Presidente della Montedison Eugenio Cefis». Dopo la morte di Giuliano, a capo della Mobile di Palermo verrà nominato Giuseppe Impallomeni (tessera P2 n. 2213), che subito sopprime la sezione Antimafia e la sezione Catturandi della Mobile. Impallomeni era stato allontanato dalla Mobile di Firenze per un giro di tangenti. Dal 309° posto della graduatoria dei vice questori aggiunti, era inopinatamente passato al 13° posto, fatto che gli consentì l’incarico alla Questura di Palermo. Questore del capoluogo siciliano fu nominato Giuseppe Nicolicchia, di cui venne rinvenuta la domanda d’iscrizione alla P2 nel 1981. L’antistato di Eugenio Cefis, Licio Gelli, Umberto Ortolani e Elio Vito Rondanelli consegna infine il testimone alla monocrazia mediatica dell’affiliato Silvio Berlusconi (tessera P2 n. 1816), che il 18 gennaio 1994 insieme a Marcello Dell’Utri (membro dell’Opus Dei e amico di Gaetano Cinà, esponente della famiglia mafiosa dei Malaspina, vicina al boss Stefano Bontade, coinvolto nell’omicidio di Mattei) fonda Forza Italia. Non è nota la provenienza dei capitali che inaugurano l’"irresistibile" ascesa dell’uomo di Arcore.
La lucidità visionaria di Petrolio, l’inquietante intreccio tra politica criminalità e affari che lì si racconta, sarà chiaro solo molti anni dopo, così come la strategia delle stragi fasciste e di Stato che passa, anche terminologicamente, dagli articoli al romanzo. Così scrive Pasolini nel famoso articolo Il romanzo delle stragi (quello che inizia con «Io so. Io so i nomi….»), uscito il 14 novembre 1974 sul "Corriere della sera":
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano. […] Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico […] Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono […] verità politica da pratica politica.
Come si è visto, Pasolini entra in possesso di Questo è Cefis a partire dalla fine del settembre 1974, «almeno due settimane dopo che la cugina Graziella Chiarcossi, su richiesta dell’autore, fece una fotocopia del dattiloscritto, per paura che questo andasse perduto come precedentemente accadde a Primo Levi per il furto dell’auto. Sappiamo allora che le accuse luterane del Processo ai Nixon italiani furono speculari alla stesura delle pagine più politiche di Petrolio, e che se di giorno Pasolini scriveva «di sapere ma di non avere le prove» di notte stillava i nomi e i cognomi e i retroscena di quelle trame eversive che per più di un decennio adulterarono la prassi democratica nel nostro Paese». (Antoniani, Contro tutto questo)
A sinistra il Pci sa e ha le prove, ma sta a guardare. Il partito «pulito» rivendica la sua diversità antropologica mentre il suo "doppio" partecipa come tutti al banchetto Enimont, amministra clientele, soffoca i movimenti e ogni altro embrione di nuove culture politiche libertarie. È la palestra alla quale si forma buona parte della classe dirigente immortale e immorale che continua a guidare il Partito democratico. Rimanendo all’inchiesta di Calia, una nota di Polizia del 18 marzo 1974 riporta quanto segue: «Non è un segreto che, per tenersi buono il Pci, vi sono grossissime società private che, quando decidono di fare le loro campagne pubblicitarie a tutta pagina, includono nei loro budget anche la stampa comunista. Lo stesso criterio – per non essere accusati d’intolleranza – impiegano le grosse società di mano pubblica, quali l’Eni, l’Iri, la Montedison, ecc… Ciononostante, poiché tradizionalmente i quotidiani del pomeriggio sono ritenuti un cattivo veicolo pubblicitario, in rapporto ai quotidiani del mattino, "l’Ora" non ospita quasi mai grossi quantitativi di questo tipo di pubblicità, che normalmente viene pagata a tariffa piena (una pagina di pubblicità Spi costa attorno ai due milioni). Per tale motivo, il quotidiano palermitano, ormai da diversi anni, non attende che sia la Spi a fornirgli la pubblicità, ma tenta d’acquisirla direttamente dalle Società e dagli Enti […] In proposito, si ricorda, che nel settembre scorso su "l’Ora" (che riprendeva integralmente gli articoli che apparivano sul confratello "Paese Sera") apparve un’inchiesta sui petrolieri italiani condotta da Miriam Mafai. L’inchiesta passò al pettine l’origine e la natura delle fortune finanziarie dei petrolieri quali Monti, Moratti, Garrone, Rovelli, etc. Visti i sistemi con cui opera "l’Ora", non si può escludere che i petrolieri e l’Unione petrolifera abbiano versato denaro contante al giornale o si siano impegnati in contratti pubblicitari, con pubblicità tabellare o redazionale. Si sa per certo, ad esempio, che dopo un periodo di polemica con la Sir dell’ing. Rovelli, "l’Ora", da alcuni mesi, marcia in perfetto accordo con l’industriale: segno che avrà cominciato a intrattenere "rapporti" concreti con lui» (Richiesta di archiviazione, p. 346).
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