"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Prima di leggere L'articolo "Pasolini, l’ombra dei picchiatori fascisti", è necessario partire da una serie di articoli apparsi su "IL Tempo", a partire dal 03/12/2012.
Ovviamente mi astengo dal commentare...
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Quel cadavere in riva al mare su cui inciampò sora Lollobrigida
03/12/2013 06:08
di Ulderico Piernoli
L’alba livida e nebbiosa del 2 novembre 1975 riservò una sgradita sorpresa a Maria Teresa Lollobrigida. Sullo stradone in terra battuta che attraversava le baracche dell'Idroscal...
L’alba livida e nebbiosa del 2 novembre 1975 riservò una sgradita sorpresa a Maria Teresa Lollobrigida. Sullo stradone in terra battuta che attraversava le baracche dell'Idroscalo di Ostia, a ridosso della Torre di San Michele inciampò in «un sacco de monnezza». Imprecò contro quei «zozzoni», si avvicinò per spostarlo e s'accorse che era il cadavere di un uomo. Spaventata, chiamò il marito Alfredo e diedero l'allarme: aveva trovato il corpo dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini. Quando le chiedemmo se sapeva chi era quel morto, rispose: «Sì, me l'hanno detto, un certo Pazzolini, Bazzolini, un regista, un frocio».
Se quelle parole suggellavano la morte del poeta e dello scrittore nella visione popolare, borgatara, sulle pagine di questo giornale Geno Pampaloni ne cantava la visione intellettuale, elevandolo al rango di «santo laico». Prima ancora che la signora Lollobrigida trovasse quel cadavere sfigurato, i carabinieri avevano inseguito e fermato un ragazzotto che viaggiava su un'Alfa Romeo Gt 2000 contromano sul lungomare di Ostia. La macchina apparteneva a Pasolini, il conducente è identificato come Giuseppe Pelosi, 17 anni, un «ragazzo di vita» di Guidonia, con piccoli precedenti penali. Quando arriva la notizia del ritrovamento del cadavere dello scrittore, il ladro diventa assassino. Pressato dagli inquirenti, Pelosi racconta quella che è consacrata come la «verità giudiziaria»: l'incontro alla stazione Termini, la cena al ristorante «Al biondo Tevere», a due passi dalla Basilica di San Paolo, la corsa fino a Ostia, la richiesta di un rapporto sessuale, il rifiuto, la lotta furibonda.
«Si trasformò in una belva - racconta Pelosi - I suoi occhi erano rossi rossi e i tratti del viso si erano contratti fino ad assumere una smorfia disumana...Lo stesso bastone me lo tirò in testa, io mi sentii spaccare in due, il cuore mi batteva fortissimo. Lui si fermava poi ribatteva ancora...Fatto qualche metro mi afferrò e mi tirò un cazzotto sul naso...». Bastonate, cazzotti, Pasolini era forte, Pelosi era alla disperazione, un colpo con una tavola tramortisce lo scrittore, lo fa vacillare, Pelosi ne approfitta, sale sull'Alfa grigio metallizzato e scappa, senza neppure accorgersi che è passato sul corpo di Pasolini e gli ha schiacciato il torace.
Pelosi confessa, anche se tenta di far passare il delitto per legittima difesa o quantomeno per omicidio preterintenzionale. Il caso è risolto.
Era una verità politicamente scomoda, inaccettabile per la sinistra e per l'entourage di Pasolini che puntava a spazzare via lo squallore della sua morte, ammantandola della luce del martirio. Oriana Fallaci racconta che molti hanno visto, dalle baracche che baracche non sono, che hanno arredamenti e servizi igienici di lusso. Si rivelerà un falso scoop. Ma allora, quando uscì quell'articolo sull'Europeo, il capocronista Angelo Frignani se la prese di brutto e mi spedì all'Idroscalo in una notte buia e tempestosa, come si scriverebbe in un romanzo d'appendice. Con una rabbia feroce in corpo, insieme con il fotografo Alfredo Festuccia bussammo a tutte le porte, alcune le sfasciammo, per verificare l'arredamento, provammo a gridare per vedere fin dove si sentivano i rumori, dimostrammo che la Fallaci aveva scritto cose non vere, lo scrivemmo su queste pagine. Ma di fronte al «mito» che poteva valere l'articolo documentato di un cronistello, per di più neppure politicamente corretto?
Pasolini «doveva» essere stato ucciso nell'ambito di una «trama nera», di un complotto coperto con l'opportuna confessione di Pelosi, il «colpevole ideale». Tanto più che era difeso dall'avvocato Rocco Mangia (uno dei legali degli assassini del Circeo) e aveva avuto come perito lo «psichiatra nero» Aldo Semerari, poi ammazzato dalla Camorra. Ci si misero anche i carabinieri. Un loro infiltrato nella malavita stracciona del Tiburtino, entrò in contatto con due fratelli di 14 e 16 anni, Franco e Giuseppe Borsellino, orfani di un pugile morto suicida. Credendo di avere a che fare con un malavitoso di rango, i due ragazzi per «accreditarsi» raccontarono di essere complici dell'assassino di Pasolini. Li arrestarono in un amen e in un amen i pubblici ministeri Italo Ormanni e Diana De Martino li misero fuori, il marchio dei millantatori. Ma la frittata era fatta.
Il Tribunale dei minori che giudicava Pino Pelosi lo condannò a una pena relativamente blanda: nove anni, con la «postilla» del «concorso con ignoti». Il Presidente era Alfredo Moro, il fratello di Aldo, uomo integerrimo, qualche dubbio lo ebbe e non se la sentì di chiudere il caso. Lo hanno fatto in seguito la Corte d'Appello e la Cassazione, che cancellarono la postilla.
A distanza di tempo emergono rivelazioni e ricostruzioni a sostegno di tesi una più bislacca delle altre, compreso il furto delle pizze del film «Salò e le 120 giornate di Sodoma» come movente del delitto. Fra una rapina e un soggiorno in centri di disintossicazione, Anche Pelosi ci ha provato, tornando ad accusare i fratelli Borsellino. Nel maggio 2005, alla trasmissione televisiva della Rai «Ombre sul giallo», affermò di non aver partecipato in prima persona all'aggressione di Pasolini, in realtà dovuta a tre persone, a lui sconosciute. Per giustificare la sua reticenza e la confessione del delitto, Pelosi affermò di essere stato minacciato di morte assieme ai suoi genitori e di aver atteso a parlare fino alla morte dei tre.
Vero? Falso? Sicuramente non credibile, almeno per chi, da cronista di questo giornale, ha seguito il caso e le indagini, senza tesi precostituite. Il resto è sovrastruttura politico-intellettuale. E a distanza di quasi 40 si può dire come Tommaso Besozzi per Salvatore Giuliano: di sicuro c'è solo che Pasolini è morto.
DELITTO PASOLINI
Ecco i sospetti sui complici di «Pino la rana»
03/12/2013 06:06
L’inchiesta a una svolta. Ascoltati oltre centoventi testimoni. Molti di loro non erano mai stati sentiti in precedenza.
Delitto di Pier Paolo Pasolini, l’inchiesta a una svolta. Ascoltati oltre centoventi testimoni. Molti di loro non erano mai stati sentiti in precedenza. Nessuno sapeva i loro nomi e cognomi e nessuno, quindi, li aveva mai fatti sedere davanti a un magistrato o a un investigatore per cercare di far luce sull’omicidio del giornalista, sceneggiatore, poeta, regista, attore e scrittore ucciso la notte fra il primo e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia.
Non si sono mai fermate, infatti, le indagini sull’assassinio di Pasolini, per individuare chi avrebbe partecipato, oltre a Pino Pelosi, all’omicidio e per capire quale possa essere stato il movente. Adesso, c’è stata una vera e propria accelerazione nelle indagini, tanto che gli investigatori hanno ascoltato oltre 120 testimoni e hanno eseguito, tra l’altro, esami del Dna di decine di persone sospettate di aver partecipato al delitto.
La procura di Roma sta infatti esaminando dalla scorsa estate i risultati investigativi, passando sotto la lente d’ingrandimento gli interrogatori degli oltre centoventi testimoni e sta esaminando la documentazione depositata dagli investigatori che stanno portando avanti indagini sul cold case.
Tra le carte sul tavolo degli inquirenti, anche i risultati compiuti dai carabinieri del Ris di Roma, che hanno esaminato 19 profili genetici. Non solo. Sulle scrivanie del palazzo di Giustizia, ci sono pure i risultati delle indagini sui presunti complici di «Pino la rana», condannato per l’omicidio dello scrittore.
In base a quanto hanno accertato finora gli inquirenti, ci sarebbero elementi che confermerebbero il fatto che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone.
Insomma, l’inchiesta sul delitto di Pier Paolo Pasolini potrebbe arrivare a una svolta in tempi brevi, non appena, cioé, la procura di Roma terminerà di passare al setaccio la numerosa documentazione depositata dagli investigatori.
Per lungo tempo l’opinione pubblica venne tenuta all’oscuro sugli sviluppi delle indagini e del processo, restando del parere di un delitto scaturito in circostanze «oscure». Tra le numerose ipotesi del delitto dello scrittore, «giochi» di potere, lotta al petrolchimico e a trame internazionali. Nel 2010 spuntò un «super» testimone che sollevò il coperchio sul fatto che Pelosi non avesse agito da solo. Ma da quella testimonianza non ci furono sviluppi investigativi concreti. Soltanto un anno dopo, nel 2011, gli inquirenti ripressero in mano il fascicolo dell’omicidio del poeta e a far confluire in un unico fascicolo processuale tutti i documenti che facevano riferimento al delitto del regista.
Quindi, appena le carte sono state raccolte in un unico procedimento, due anni fa è ricominciata la caccia ai complici. Tanto che gli investigatori negli ultimi due anni hanno anche recuperato i reperti esaminati in passato per riavviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano. Adesso la parola è passata al magistrato romano titolare dell’inchiesta, che da mesi ha sulla scrivania i risultati investigativi che portano a ipotizzare, in base a nuovi accertamenti, che Pelosi non abbia agito da solo. E non è escluso che dalle decine e decine di testimonianze possa emergere anche il movente finora rimasto un mistero.
Pelosi: «Non vogliono scoprire la verità»
04/12/2013 06:07
Parla l’unico condannato per l’omicidio del regista Pier Paolo Pasolini. E dalle intercettazioni conferme sul coinvolgimento di altre persone
«Non vogliono scoprire la verità». Ne è convinto Giuseppe Pelosi, detto «Pino la rana», l’unico condannato per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Un delitto che dopo 38 anni e una sentenza, non è stato ancora mandato in «archivio». Il motivo? La procura di Roma è convinta che Pelosi non abbia agito da solo la notte tra il primo e il 2 novembre del 1975, quando fu trovato senza vita il regista Pasolini all’Idroscalo di Ostia.
«Chi indaga non ha intenzione di scoprire la verità, chi ha partecipato al delitto - continua «Pino la rana» - se volesse veramente capire chi c’è dietro quell’omicidio dovrebbe andare a citofonare a certe persone, come a casa di quel politico lì....quello famoso». Pelosi, che considera le indagini della procura di Roma «inutili» se non scavano in «determinati» ambienti, è stupefatto dagli accertamenti che sono stati compiuti fino ad oggi. Tanto da aggiungere che «se si vuole scoprire come stanno le cose basterebbe andare a indagare nella cerchia di Pasolini, chi frequentava, tra i quali anche politici».
Le considerazioni dell’unico condannato non si fermano qui. Anzi. Per «Pino la rana» nel corso degli anni sarebbero stati distrutti elementi utili a conoscere la verità, che se fossero stati presi in esame oggi, utilizzando le nuove tecnologie, il caso sarebbe stato già risolto. Ma chi ha distrutto queste «prove» processuali? Per Pelosi persone che non sono state mai prese in considerazione durante le indagini. «Non so quali nomi abbiano in mano gli inquirenti - dice Pelosi - ma credo che alcune posizioni non sono state mai esaminate».
Sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori che si occupano di risolvere il «cold case» che risale a 38 anni fa, ci sono, comunque, decine e decine di persone che non sarebbero state mai ascoltate nel corso delle diverse inchieste. Dalla primavera del 2011 alla scorsa estate, sono state svolte numerose indagini disposte dalla magistratura romana. Che hanno portato a convincere gli investigatori ad affermare che l’omicidio di Pier Paolo Pasolini è stato compiuto da più persone oltre a Giuseppe Pelosi. E quali sono, tra gli altri, gli elementi che hanno portato le forze dell’ordine a raggiungere questa conclusione e a metterla nera su bianco? Le «intercettazioni preventive» compiute dalla riapertura delle indagini. Nelle mani della procura, dunque, ci sarebbero anche le conversazioni che sono state registrate dagli investigatori nel corso dei mesi per tentare di dare un nome e un volto ai presunti complici di Pelosi.
Sono gli stessi investigatori, infatti, che hanno riferito al pm titolare delle indagini che gli accertamenti fanno ipotizzare la possiblità che «Pino la rana» non abbia agito da solo. Il magistrato, dunque, appena terminerà di esaminare i cinque faldoni pieni dei risultati investigativi, stabilirà quali atti processuali disporre per andare avanti nelle indagini e valutare quindi quali provvedimenti prendere, semmai, nei confronti di chi è stato ascoltato dagli investigatori: oltre centoventi persone.
Pasolini, l’ombra dei picchiatori fascisti
Martina Di Matteo, Simona Zecchi
Pino Pelosi ricostruisce la notte dell’omicidio del poeta. E conferma la presenza all’idroscalo di Ostia di almeno altre sei persone oltre a lui
Le indagini stanno andando avanti: cosa ne pensi di ciò che è appena uscito?
Pelosi ride beffardo Spero che approdino a qualcosa. Io ho già fatto i nomi dei Borsellino al tempo, gli atri 4 non li conoscevo, era notte, non si vedeva nulla.
Pino, tu avevi indicato delle persone presenti quella notte, un numero preciso. Oltre a te, altri 6: i Borsellino, due picchiatori insieme all’uomo con la barba, un uomo nella seconda macchina (nel 2010 un nuovo testimone Silvio Parrello rivelò della presenza di una seconda macchina e l’identità dell’uomo che l’avrebbe guidata). L’uomo con la barba ti avrebbe minacciato. Durante la prima intervista, dopo 30 anni di silenzio, avevi dichiarato che l’uomo avesse un accento siciliano. Elemento che non hai più ritrattato. Confermi?
Lo avevo detto per depistare, era italiano, basta.
Gli altri due erano romani? I Borsellino, di cui tu hai già parlato erano vicini al circolo Msi del Tiburtino. Anche i due picchiatori facevano parte dello stesso ambiente?
Si, poteva essere.
Nel 2011 hai rilasciato alcune dichiarazioni a Valter Veltroni in cui asserivi che la tua prima deposizione ti fosse stata imbeccata. È così?
Confermo di essere stato minacciato dall’uomo con la barba, che mi ha gettato l’anello sul posto e mi ha detto di inventarmi la versione. In carcere poi mi venivano a trovare per dirmi di continuare così.
Avevi 17 anni, come hai fatto ad avere sempre la lucidità per mantenere la stessa versione ogni volta?
Ero un ragazzino: a vivere nel terrore rimani lucido, freddo e concentrato a non sbagliare.
Quando hai ricevuto in carcere il famoso telegramma che indicava Rocco Mangia come nuovo difensore da nominare, hai mai pensato che avessero proposto denaro ai tuoi genitori? E come facevano a conoscere Francesco Salomone (l’allora giornalista de Il Tempo, tessera P2 nr. 1911– Ansa 21/05/1981, che aveva indicato ai genitori di Pelosi di assumere Rocco Mangia come avvocato, ndr)?
A me non piacciono queste associazioni con quel mondo. Dicevano che Rocco Mangia era l’avvocato degli assassini del Circeo e dei fascisti.
Certo, ma quello era in buona parte il mondo da cui proveniva la manovalanza.
Si ma io non c’entro niente con quel mondo.
L’uomo con la barba è vivo? (ride) Gli altri due, sono morti?
I due picchiatori? Non li ho visti bene ma erano più giovani del “barbone” che all’epoca aveva 40 anni. Quell’uomo era più importante dei picchiatori, gestiva tutto. Certo potrebbe appartenere all’altro livello.
Non lo conosci o hai paura?
Non so nulla. Però mi chiedo perché non interrogano anche tra le passate conoscenze dello scrittore, Ninetto Davoli: perché ha fatto rottamare la macchina che Pasolini gli aveva lasciato? Perché non glielo chiedono? La macchina di Pasolini poteva essere ulteriormente analizzata.
Se, come hai detto, il sangue sul tettuccio della macchina (lasciata poi incustodita dall’autorità giudiziaria, ndr, sangue lavato via dalla pioggia, era di Pasolini, cos’altro potevano trovare in quella macchina, oltre ai reperti rinvenuti e oggi sotto esame?
Sotto il sedile.
Cosa poteva esserci sotto il sedile?
Non lo so. Sotto il sedile… niente…
Cosa c’era?
Ma l’accendino mio l’hanno trovato?
È importante questo accendino?
Può essere importante come l’anello. Dov’è, chi l’ha preso? È sparito.
Ricostruiamo quella notte: tu eri davvero al ristorante con lui quella sera o eri già all’Idroscalo?
No io ero con lui e con lui sono andato all’idroscalo.
Vincenzo Panzironi proprietario de «Il Biondo Tevere» fece una tua descrizione che però non sembra corrisponderti (biondo, con i capelli lunghi fino al collo)…
Può darsi che Panzironi abbia fatto confusione con i giorni: il giorno prima Pasolini era in compagnia di un biondo.
Dove ti hanno fermato i carabinieri quella notte?
Non mi hanno arrestato davanti alla fontanella di Piazza Gasparri ma davanti al locale Tibidabo.
Sei scappato da solo su quella macchina?
Sì.
Chi era l’uomo che guidava la seconda macchina?
Non lo so. Non si vedeva da qui a tre metri. Ho visto invece bene in faccia l’uomo con la barba, assomigliava all’ispettore Camilli della foto (riferimento alla foto de Il Tempo del 4 dicembre 2013, ndr).
Dici di non conoscere i due picchiatori ma hai fatto i nomi dei fratelli Borsellino quando erano già morti, sarà così anche per i due picchiatori?
Non dirò mai nulla.
I Borsellino quando sono andati via: prima o dopo di te?
Non li vedevo perché erano lontani, non so nemmeno se hanno partecipato anche loro al pestaggio. Ma sono arrivati dopo, con la moto.
Riprende poi dal mazzo dei ricordi: Un massacro orrendo che ho potuto rivivere interamente solo durante le riprese del film di Federico Bruno, (film diretto e prodotto da Bruno: Pasolini. La Verità nascosta, ndr) Mi ha fatto impressione vedere Alberto (Testone l’attore che interpreta il poeta e saggista, ndr) con tutto il sangue addosso… Quella sera gridava mamma mi stanno ammazzando.
Perché eravate lì?
Per recuperare le pizze del film Salò o Le 120 giornate di Sodoma: Pasolini ci teneva molto, erano gli originali e voleva proprio quelle.
Chi ti ha detto che era per le bobine l’incontro?
I Borsellino.
E a loro chi lo ha detto?
Non lo so, quando fai certe cose non chiedi niente. Dovevo guadagnare due lire per portarlo lì ma non sapevo cosa sarebbe successo dopo, non sapevo dell’agguato. I suoi amici lo hanno usato, come Citti, l’ho scritto nel mio libro (Io so… come hanno ucciso Pasolini. — Storia di un’amicizia e di un omicidio, Vertigo 2011).
No, io c’ho solo rimesso famiglia, vita tutto.
In una recente intervista hai fatto riferimento a un uomo politico dicendo: «Chi indaga dovrebbe andare a citofonare a certe persone, come a casa di quel politico lì… quello famoso». Un politico del presente o del passato?
Una dichiarazione mal interpretata non mi riferivo a un politico in particolare. Anche se fosse così non lo direi, non dirò più nulla. Poi il riferimento era se mai a tutta quella classe politica a lui vicina che non si muove davvero per scoprire chi lo ammazzò.
Chi sono gli intoccabili di cui parli più volte?
Qualcuno è morto, qualcuno è vivo.
Secondo la tua esperienza, per com’erano le cose in quegli anni, cosa significava pestare quasi a morte qualcuno?
Una punizione, una tortura… forse per qualcosa che lui aveva scritto sui giornali causando danni a qualcuno. Bisognerebbe capire chi c’era oltre, qual era l’altro livello.
Fonte:
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Dubbi sulle presunte novità sull’omicidio
Martina Di Matteo, Simona Zecchi
Le novità riportate da «Il Tempo» sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini non convincono l’avvocato Stefano Maccioni, consulente di parte di Guido Mazzon, l’unico familiare di Pasolini a interessarsi ancora al caso. L’avvocato, depositario insieme alla criminologa Simona Ruffini della richiesta per la riapertura delle indagini nel 2009, è anche co-autore con la stessa Ruffini e il giornalista Valter Rizzo del libro «Nessuna Pietà per Pasolini» (Editori Internazionali Riuniti, 2011). «La notizia così formulata mi ha sorpreso», dice Maccioni. In realtà non dice niente di nuovo a parte i 120 testimoni. Insomma si sapeva che la procura stesse sentendo nuovi testimoni e che dunque le indagini stessero andando avanti. Sono in attesa della imminente chiusura del caso da parte del magistrato Francesco Minisci. Noi abbiamo depositato molte indagini difensive, abbiamo partecipato all’analisi dei reperti e adesso aspettiamo di vedere cosa abbia raccolto l’accusa; siamo alla fine del percorso dopo l’elaborazione dei dati raccolti dai carabinieri. Se fosse una richiesta di archiviazione a cambiare dei dati di quella notte, fondata sull’impossibilità di condannare perché le persone sono scomparse, ma che dica che i moventi erano diversi e che Pelosi non era solo sarebbe già una nuova verità e non solo storica. Se il pm chiede l’archiviazione me ne darà avviso e io mi potrei opporre, ma bisogna capire cosa dirà il gip. Io credo in una richiesta di archiviazione perché se avesse individuato qualcuno non avrebbe fatto passare così tanto tempo».
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