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lunedì 22 aprile 2013

Pier Paolo Pasolini oltre i confini del suo tempo

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Roberto Moro
Globalizzazione: visioni e profezie
Pier Paolo Pasolini oltre i confini del suo tempo



Bisogna rileggere, o almeno leggere Pier Paolo Pasolini, magari a partire dai testi che accompagnano questa riflessione. Perché, a così tanti anni di distanza dalla sua morte, Pasolini è ancora qui sulla nostra strada, la sua visione è il nostro presente e la sua profezia si è realizzata. Il disagio, il silenzio che hanno accompagnato in tanti anni la sua lezione la hanno, in qualche modo preservata, resa intatta e attuale. Questa sorta di magia è stata svelata: Pasolini, poeta, romanziere, regista, saggista è il grande intellettuale di un paese, di una società e di una cultura che più di ogni altra ha, da sempre, dichiarato guerra alla figura sociale della modernità occidentale, l’intellettuale appunto. E di qui possiamo cominciare.
***



Una profezia del presente - L’Intellettuale: crisi e critica della modernità - Metamorfosi e visioni - Visioni e…. - … profezia - La rivoluzione inattesa e incompresa - Lo spettacolo: uno scenario da incubo

Una profezia del presente
Come spiegare il tunnel al quale ci siamo affacciati ? il crac della globalizzazione, il disgregarsi della socialità e l’imbarbarimento del pensiero ? la crisi degli apparati istituzionali, quella dello stato e della sua governance ? Il disordine caotico dell’Europa e, in minuscolo, gli esiti sconcertanti quanto prevedibili e previsti delle elezioni che segnano una incerta deriva del Vecchio continente e del Belpaese ?
Bisogna rileggere, o almeno leggere, Pier Paolo Pasolini magari a partire dai testi che accompagnano questa riflessione. Perché, a così tanti anni di distanza dalla sua morte, Pasolini è ancora qui sulla nostra strada, la sua visione è il nostro presente e la sua profezia è realizzata. Il disagio, il silenzio che hanno accompagnato in tanti anni la sua lezione la hanno, in qualche modo preservata, resa intatta e attuale.
Questa sorta di magia è stata svelata: Pasolini, poeta, romanziere, regista, saggista, attore del suo tempo e della politica del suo tempo, è il grande intellettuale di un paese, di una società e di una cultura che più di ogni altra ha, da sempre, dichiarato guerra alla figura sociale della modernità occidentale, l’intellettuale appunto. E di qui possiamo cominciare.

L’Intellettuale, crisi e critica della modernità
Dopo l’ “umanista” (XVI secolo), l’ “homme de lettre” (XVII secolo), il “philosophe” (XVIII secolo), l’intellettuale è il prodotto della società europea del XIX secolo. La figura sociale che garantisce la vitalità e la rigenerazione del pensiero della modernità e anzi ne è il prodotto eccellente. Si può discutere, e sono stati versati fiumi di inchiostro, sulla genesi di questa figura, ma nella pratica della sua definizione e del suo ruolo sociale intellettuale è colui che esercita la sua capacità conoscitiva (il suo intelletto, la sua intelligenza e la sua “cultura”) nella sfera pubblica per fare, delle sue analisi e delle sue visoni della realtà, una ragione di pubblico dibattito e del dibattito una ragione di socialità e di emancipazione del soggetto nella gestione e revisione dei suoi valori. Proprio per questo l’intellettuale è una figura sociale della contemporaneità, si accompagna all’emergenza del soggetto e alla sua emancipazione intesa come riflessione sulla cittadinanza, sull’attiva partecipazione ai processi alla conservazione, critica e rigenerazione della ragioni di una consapevole socialità. L’intellettuale si configura insomma come un attore della “innovazione sociale”, un educatore al mutamento che la gestione dei valori condivisi imprime alla organizzazione della convivenza nella società ormai aperta alla partecipazione politica dei suoi conviventi. Intellettuale e impegno “politico” di analisi e critica dei comportamenti collettivi sono una sequenza obbligata. E proprio per questo la data di codificazione di questa figura sociale si realizza in occasione del dibattito politico che prende il via dall’Affaire Dreyfus sulla scena politica francese di fine Ottocento.
Insomma l’intellettuale è, per definizione, chi esercita l’ “impegno politico” nel significato alto del termine, le ragioni che lo rendono indispensabile, i valori e l’immaginario che lo sostiene. E per questo infine la figura e il ruolo dell’intellettuale sono indisgiungibili dalla critica e dalla crisi della modernità, della modernità “politica” in particolare. Pier Paolo Pasolini lo incontriamo qui.

Metamorfosi e visioni
Il ruolo di intellettuale, Pasolini, lo interpretò in modo esclusivo, profondo e radicale, senza compiacimenti e mediazioni. Fu davvero un “chierico” del pensiero critico, nel senso che accolse la missione della fede laica di un umanesimo senza confini teorici e disciplinari. Pagò il prezzo della su ricerca per intero e fino in fondo. Ma guardava dall’alto, vedeva lontano.
Così nella grande trasformazione e nell’unico processo di radicale modernizzazione del Belpaese che si realizzò negli anni del miracolo, lo sguardo di Pasolini fu per certo (e ora lo sappiamo) il più lucido, il più penetrante e lungimirante. Che la modernizzazione dell’Italia fascista, rurale, miserabile, fosse un percorso di sradicamento non solo sociale, ma soprattutto morale e un processo di omologazione (diremmo oggi di globalizzazione) verso le tenebre del nuovo fu la sua denuncia. Un evento, inconciliabile con l’emancipazione umana, di tale portata da erodere e rendere impossibile l’effettiva gestione delle istituzioni democratiche e risolversi in un profondo, strutturale modello di società totalitaria: la società di massa, la società dei consumi.
“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava letteramorta. […] Oggi, al contrario, l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è compiuta. […] L'antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l'unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l'edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c'è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s'intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?”. 1973. [Acculturazione e acculturazione]
Dall’alto della sua sensibilità estetica e morale, Pasolini, vedeva lontano, vedeva fin qui, fino a noi.


Visioni e….

Di qui la visione di un volto ormai sfigurato, remoto, presente e futuro al tempo stesso del potere: un “potere senza volto”.
“Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo "Potere" con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). 1974. [Il potere senza volto]
Alla luce del labirinto nel quale avremmo dovuto girare e ancor oggi giriamo dalla Prima alla Seconda, financo alla Terza repubblica (che oggi va di gran moda), dell’emergere delle organizzazioni criminali come poteri forti del controllo/organizzazione della socialità (e della prassi democratica) e nel quale ci siamo affacciati, questo potere un tempo “interclassista” ci appare oggi come l’immaginario di un potere condiviso per complicità più che per convinzione, per interesse più che per libera scelta. Ma il suo volto rimane ancora celato nei fumi di un quotidiano spettacolo di fragorosi fuochi d’artificio.
E certo, a fronte di questo spettacolo universale, certo si può ben capire non la nostalgia (si farebbe torto all’autore definirla così), ma la volontà del nostro Autore di riappropriazione di un mondo sconfitto, un territorio devastato dai bombardamenti di un nuovo conflitto mondiale: un mondo da ricostruire.
Un mondo nel quale “la vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent'anni non è più cambiata: non dico i suoi valori, ma le apparenze parevano dotate del dono dell'eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi”. 1973. [Che paese meraviglioso era l’Italia …]
Lo sappiamo e lo si sente nell’intimo. Oggi questo passato remoto è divenuto il futuro anche di tutti coloro (i giovani, i giovanissimi) che di questa dimensione storica del vivere umano neppure hanno memoria: è una visione, un cammino incerto, un programma di ricostruzione.
Ecco: la profezia di Pasolini che ci porta fin qui, al nostro presente, è semplice e ormai generalmente condivisa.



… profezia

Oggi lo sappiamo per quotidiana esperienza della globalizzazione nel suo significato più ampio. La rottura dei confini (di mercato) non produce “innovazione sociale”, così come il liberismo (economico) non produce libertà, anzi. Quello che un tempo era il “neocapitalismo” poi ipercapitalismo, capitalismo diffuso, finanziarizzazione dell’economia con tutto il convoglio semantico che porta con sé (società postmoderna, di massa, dei consumi, mediatica, dell’accesso, liquida, postindustriale, e così via) ha materializzato quel “nuovo” potere senza volto che “non sappiamo in cosa consista e chi lo rappresenti. Sappiamo semplicemente che c’è”.
I processi di integrazione economica, politica e sociale sembrano trasformarsi in conflitti permanenti, guerre civili non dichiarate. E la crisi della modernità/modernizzazione rischia di trasformarsi in procedura di “genocidio culturale” e avvento di nuove barbarie.
Lo certifica il più sofisticato processo di integrazione/globalizzazione di cui siamo attori e testimoni, che è quello dell’Unione Europea pur fondato su radici culturali e storiche esclusive e collaudate nei secoli. Divisa, impoverita, dispersa e in frantumi, l’Europa appare quasi una vittima sacrificale del balzo planetario della cultura occidentale. Perché? La risposta che ci offre l’analisi critica di Pasolini è ancor oggi, e forse oggi più che mia, robusta e convincente. È la materia prima su cui la globalizzazione si fonda che fa difetto, e cioè è l’antropologia stessa delle modernità ha creare ragione di crisi e di declino.
Il processo di acculturazione forzato allo sviluppo economico (e non al “progresso” votato all’emancipazione morale e sociale) è, in tutta evidenza, sradicamento, perdita di identità, distruzione sistematica della socialità e di una intera civiltà del pensiero. Comporta automaticamente mercificazione, spoliazione di valori e quindi emarginazione: “edonismo di massa” senza più freni né desiderio. Ciò che appunto Pasolini indicava come emergenza di un “sottoproletariato” universale dimentico di ogni passato e di ogni futuro.
La sequenza è semplice: modernizzazione = sviluppo economico = mercificazione dalla cultura = distruzioni della capacità critica = civiltà di massa = civiltà dei consumi = emergenza del sottoproletariato = crisi dei processi di modernizzazione. È un cerchio vizioso, un anello di retroazione.
Ovviamente le varianti sono infinite, ma il processo di frantumazione dei sistemi politico-sociali che abbiamo sotto gli occhi e viviamo sulla nostra pelle, hanno al cuore questa catena sistemica. La globalizzazione come processo forzato di acculturazione alla mondializzazione del modello di sviluppo capitalistico funziona così. Vogliamo negarlo ? Vogliamo negare che la globalizzazione e il costituirsi di una “cultura planetaria” altro non sia che il riflesso di una concentrazione di potere totalitario mai visto nel cammino dell’esperienza umana ?
C’è di peggio. Questo percorso obbligato di mutazione antropologica verso la dimensione totalitaria che trasforma il cittadino in consumatore, il consumatore in suddito, il suddito in servo e il servo in compiaciuto complice di uno smisurato potere che lo domina, mette a profitto strumenti e tecniche di dominio forse non nuove, ma certo dotate ormai di una comprovata efficacia e ormai del tutto fuori controllo. E queste tecniche, ci avverte Pasolini in tempi non sospetti, consistono nella forza di selezione e rappresentazione dei simboli che fondano i valori stessi e li rendono condivisi. La società dei consumi, abitata da un sottoproletariato universale, ha conferito la produzione dei valori e la loro diffusione ai mezzi di comunicazione di massa.



La rivoluzione inattesa e … incompresa

Proprio a causa di questa lucida visione, Pasolini, da vivo, e anche a lungo dopo la sua morte, è stato vittima dell’inveterato e invincibile provincialismo della cultura del Belpaese, un provincialismo di comodo, buono a dissimulare una battaglia campale contro la modernità, contro la tolleranza, contro l’Europa (ci siamo inventati la Padania) e che sempre ha fatto dello spirito della Controriforma l’antidoto alla libertà di pensiero, allo spirito critico e libertino. Le due “chiese” nazionali che ancor oggi officiano il nostro quotidiano, di Pasolini hanno solo colto la natura di grande intellettuale: quanto basta per le persecuzione e la condanna. “Destra e Sinistra si sono contese orribilmente il suo pensiero (a volte solo brandelli di esso) depredandolo e facendone scempio con audacia e ignobile approssimazione. E così finti esegeti, armati in realtà solo di avvolgenti rampini ideologici, hanno tentato d’imprigionare nelle galere dell’ortodossia l’unico vero corsaro che abbia mai imperversato nei mari cupi e tremebondi della cosiddetta cultura comunicativa in Italia. […] Ma Pasolini non si lascia imprigionare da nessuno, né tantomeno i tentativi di appropriazione postuma, di Destra come di Sinistra, possono minimamente scalfire quella che ormai dovrebbe essere stata acquisita come categoria onnicomprensiva del pensiero poetante e corsaro di Pasolini: l’impura incollocabilità. […] Pasolini, trasversale ante-litteram, ha infatti attraversato le due più rilevanti culture del tempo, quella marxista e quella cattolica, senza mai farsi intrappolare dalla loro ortodossia. Grande sperimentatore di linguaggi, ha coltivato linguaggi letterari e gauchistes, ma non è mai diventato militante di quell’anticonformismo per partito preso che ha conformizzato l’Italia per oltre un decennio”. [L’eresia e la visione]
È su questa pista che incontriamo il Pasolini critico della rivoluzione, da lui del tutto percepita nei sui potenziali effetti, della comunicazione mediatica e di sé stesso in quanto intellettuale alla mercé del potere dei media. Un potere di manipolazione della spirito e della coscienze sino alla reinvenzione della natura umana.
Qui, in questa profetica visione, il suo pensiero si intreccia con quello di Guy Debord al quale dobbiamo un’altra profezia che, proclamata nel 1967, ora si è da tempo pienamente realizzata.
“Marx, già un secolo e mezzo fa, aveva capito che il capitalismo sarebbe degenerato verso la forma del più bieco consumismo. Egli tuttavia credeva che la morte del capitalismo si sarebbe verificata nel momento in cui l’offerta avrebbe superato la domanda, in una spaventosa abbondanza delle merci al consumo. Le cose sono andate un po’ diversamente. Nel nostro secolo almeno due “profeti” vanno menzionati in tal senso, per la loro opera di prosecuzione del pensiero di Marx nell’analisi della società consumistica: Pier Paolo Pasolini e Guy Debord rappresentano due punti di riferimento per tutti coloro i quali avvertono l’esigenza del cambiamento attraverso la critica sociale”. [La società dello spettacolo da Pasolini a Guy Debord]



Lo spettacolo: uno scenario da incubo

Oggi anche questa sequenza ci è chiara. La modernizzazione, intesa come emergenza del modello capitalistico nella sua forma più avanzata, produce una società dei consumi e questa altro non è che una società di massa la cui cultura, i cui valori condivisi sono il frutto, a loro volta, di una “produzione” culturale alla quale è affidato il compito di imporre (per processi di acculturazione forzata) le rappresentazione simboliche di questi valori: i prodotti materiali (i “beni” di consumo) e le motivazioni al loro consumo. La merce e lo scambio delle merci (lavoro in cambio di danaro che garantisce il consumo che garantisce il lavoro) sono il cuore pulsante della cultura di massa del sottoproletariato universale. E così la televisione e la manipolazione dei media sale sul banco degli accusati di un irreversibile processo di disumanizzazione e di imbarbarimento. La televisione (e oggi diremmo la comunicazione digitale in tutte le sue forme) diviene lo strumento di dominio e alienazione indispensabile per la gestione del potere nel nuovo modello di civiltà, il “mondo Nuovo”. Berlusconi insegna.
In piena sintonia con Pasolini, Guy Debord aggiunge una visione più ampia del processo di distanziamento della cultura dalla realtà che fa la cifra della globalizzazione economica che stiamo oggi vivendo. Quel che Pasolini ha intuito senza averlo mai formalizzato è stato svelato con clamore (un clamore che ancora non si è spento) da Guy Debord.
“Al pensiero di Pasolini mancava ancora un tassello, un’ultima tessera del puzzle per avere l’immagine nitida della realtà sociale che si stava configurando. La genesi del cancro è stata descritta da Guy Debord quando, nel saggio “La società dello spettacolo” del 1967, ha compreso il segno dell’irreparabile nella deriva consumistica dei lavoratori. Il capitale non opprime più l’operaio solo all’interno della fabbrica o dell’ufficio, ma è fuoriuscito convertendo il lavoratore in consumatore. Anche il concetto marxiano di alienazione subisce una mutazione, un cambiamento radicale portato dal fatto che lo spreco del tempo libero diventa essenziale all’abbattimento, da parte del capitale, di ogni velleità rivoluzionaria. Mentre in passato era essenziale per il rivoluzionario mettere a buon fine il proprio tempo libero, pianificando la lotta da porre in essere contro la classe dominante, oggi il consumatore passa le proprie ore ad istupidirsi di fronte agli spettacoli che i suoi sfruttatori generano per lui. Baudrillard ha egregiamente sintetizzato questo concetto nella frase: Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare” [La società dello spettacolo da Pasolini a Guy Debord].
La rivoluzione davvero è stata fatta e, trionfante, si è definitivamente conclusa, nessun altra sarà più possibile e l’espropriazione è totale e il potere totalitario ha vinto per sempre. L’uomo diviene straniero alla realtà, spettatore passivo di uno spettacolo che emargina il suo ruolo dal mondo: “lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”.
Uno scenario da incubo, si dirà, e degno di un romanzo di fantascienza. Ma, guardandoci intorno, eccoci qui a subire la spettacolarizzazione dei prodotti che i media ci impongono i ci costringono a divorare, compresa quella della politica che ci fa sentire, al vivo, il totalitarismo della società nella quale viviamo. Siamo qui a sentire i racconti che ci vengono quotidianamente proposti sulla crescita prossima ventura, sulla necessità di riformare il lavoro per produrre di più, consumare di più e così facendo trasformarlo da ragione stessa della socialità in merce di scambio della vita stessa. Siamo qui ogni giorno in un grande spettacolo, uno spettacolo universale che, da un capo all’altro del mondo, ci avvolge, ci convince, ci rende complici di un potere totale a noi estraneo, un Potere (con la P maiuscola) senza volto che è il riflesso delle nostre turbate coscienze. Un incubo che proprio oggi ci accompagna ogni giorno con mille avvincenti rappresentazioni.
E la domanda conclusiva, come in ogni buon romanzo di fantascienza, quella che fissa la trama degli eventi, è: siamo ancora in grado di controllare la forza del nostro pensiero, l’immaginario che si impone su di noi e ci sta mutando? E gli stessi media sono in grado di controllare sé stessi, darsi un intelligenza al nostro servizio? Il potere remoto oltre ogni confine, totale nello spazio e signore del nostro tempo, potrà mai esserci restituito, avere ancora un volto umano?
Erano questi gli interrogativi che Pier Paolo Pasolini, nella ricerca disperata della sua libertà, ha posto al nostro presente, qui e ora. E in questo senso il maestro di Casarsa è un attore del nostro presente, qui e ora. Rileggiamolo con affetto e con cura.

Roberto Moro
Fonte:
http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=242&arg=6&red=2


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Pasolini l’impuro in un paese orribilmente sporco

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Antonella Pierangeli
L’eresia e la visione:
Pasolini l’impuro in un paese orribilmente sporco

Nel corso degli anni che ci separano dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini è stato fatto oggetto di espliciti, ripetuti, quanto indebiti tentativi di appropriazione politica. Destra e Sinistra si sono contese orribilmente il suo pensiero, facendone spesso scempio con audacia e ignobile approssimazione. Ma Pasolini non si lascia imprigionare da nessuno; né tantomeno i tentativi di appropriazione postuma, di Destra come di Sinistra, possono minimamente scalfire quella che ormai dovrebbe essere stata acquisita come categoria onnicomprensiva del pensiero poetante e corsaro di Pasolini: l’impura incollocabilità, l’alterità, l’antinomia, l’opposizione. In altre parole, la sua impurezza estrema.
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“La libertà si manifesta nell’azione del capire”Pier Paolo Pasolini

Nel corso degli anni che ci separano dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini è stato fatto oggetto di espliciti, ripetuti, quanto indebiti tentativi di appropriazione politica. Destra e Sinistra si sono contese orribilmente il suo pensiero ( a volte solo brandelli di esso) depredandolo e facendone scempio con audacia e ignobile approssimazione. E così finti esegeti, armati in realtà solo di avvolgenti rampini ideologici hanno tentato d’imprigionare nelle galere dell’ortodossia l’unico vero corsaro che abbia mai imperversato nei mari cupi e tremebondi della cosiddetta cultura comunicativa in Italia.
Finché era vivo Destra e Sinistra l’hanno criminalizzato, processato, tentato di marginalizzarlo in tutti i modi. Alla Destra del Potere - in senso foucaultiano un vero e proprio cadavere semantico - non piaceva il suo j’accuse contro il tecno-fascismo, il suo dichiarasi antropologicamente comunista, il suo essere intellettuale civile, la sua sfrontata sfida omosessuale. La Sinistra del Potere, invece, lo considerava reazionario, nostalgico paladino del mondo contadino, antiprogressista; oltre che inaffidabile perché “non organico”, indisciplinato, irregolare, imprevedibile.
Prima della sua morte tutti hanno tentato di ucciderlo, dopo la sua morte tutti hanno tentato di fagocitarlo, di digerirlo, come un bolo alimentare indesiderato o, peggio ancora, di appropriarsi del suo ricordo. Niente altro che patetici tentativi di damnatio memoriae attraverso la furbizia del pasolinismo postumo e di comodo, del sì, celebriamolo, osanniamolo e come tutti i martiri assunti in cielo, liberiamocene per carità… Ingombrante da vivo, intollerabilmente presente da morto.
Ma Pasolini non si lascia imprigionare da nessuno, né tantomeno i tentativi di appropriazione postuma, di Destra come di Sinistra, possono minimamente scalfire quella che ormai dovrebbe essere stata acquisita come categoria onnicomprensiva del pensiero poetante e corsaro di Pasolini: l’impura incollocabilità. Qualcosa che somiglia al “pensatore dai mille volti” di foucaultiana memoria. Niente di più visceralmente assimilabile: “Io sono un artificiere. Fabbrico qualcosa che alla fine serve ad un assedio, a una guerra, a una distruzione. Io sono per la distruzione ma sono a favore del fatto che si possa passare, che si possa avanzare, che si possano abbattere i muri”. Questo scriveva di sé Michel Foucault negli anni Settanta, anni cruciali anche per Pasolini. Gli anni dell’irriducibilità ad ogni appartenenza per entrambi.
Pasolini, trasversale ante – litteram, ha infatti attraversato le due più rilevanti culture del tempo, quella marxista e quella cattolica, senza mai farsi intrappolare dalla loro ortodossia. Grande sperimentatore di linguaggi, ha coltivato linguaggi letterari e gauchistes, ma non è mai diventato militante di quell’anticonformismo per partito preso che ha conformizzato l’Italia per oltre un decennio. Sì, è vero, la borghesia ha cercato di corteggiarne la figura di maudit, ha cercato di vampirizzarne la parole, ma lui non ha mai permesso che ciò corrompesse il suo cristologico “amore per il popolo” e per il suo “corpo”. Certo, è vero, ha amato il popolo, ma sempre viaggiando con sofisticata eleganza e partecipazione, nella grande cultura borghese del Novecento.
Contraddittorio come egli voleva e come, anche volendo, non poteva non essere, Pasolini ha lanciato oltre ogni limite la sua individualità. Ha brandito come un’arma la sua irregolarità, ha infine insegnato con serena pedagogia ad amare la singolarità dell’umano, che se vissuta con coraggio testimonia sempre la libertà di ognuno ma anche di tutti. Ecco, dunque in un paese curiale, in un paese assolutamente non cristiano, in uno Stato colmo di oligarchie che si sono finte popolari, ecco che in un “paese orribilmente sporco” egli ha rappresentato l’alterità, l’antinomia, l’opposizione. L’impurezza estrema.
Ondate di profezie bagnano le sue ultime pagine corsare e luterane. Leggendole di nuovo, ora, a distanza di un trentennio, si scoprirà che dagli anni Cinquanta e Sessanta - e anche nei due decenni successivi - nulla è cambiato, i problemi del Paese sono sempre gli stessi, tanto che l’utopista, il provocatorio Pasolini, appare a distanza sempre di più come una sorta di riformista allucinato e pragmatico, non appena si riflette sul fatto che le classi dirigenti che si sono avvicendate negli anni, nulla hanno fatto perché fosse portato a soluzione ciò che Pasolini disperatamente intuiva come fondamentale per il destino italiano.
La scuola, la televisione, l’inesistenza di un’etica pubblica, la volgarità e la corruzione del potere: le visioni di Pasolini poco o nulla possono proporci nell’immediato, si tratta pur sempre delle provocazioni di un poeta. Eppure se governare un Paese significa anche capire per tempo i suoi problemi – e proporre soluzioni positive – bisognerà pure dire che, forse nella folle corsa alla distruzione dell’Italia hanno partecipato proprio le classi dirigenti. E che Pasolini invece, testardo intellettuale d’opposizione, proponeva inascoltato, l’unico metodo di governo possibile: prevedere per prevenire, prevenire per riformare.
C’è del metodo, dunque, nella sua follia. E si sente soprattutto il corrucciato vagabondare intellettuale di un italiano senza Italia, di un profeta senza nazione, di un uomo dotato di sensibilità eccezionale, di una lucidità senza padrone, che cerca una ragione pubblica nella quale credere, bussando di porta in porta senza mai trovarla, come in una notte di Betlemme dell’identità.
Pasolini vede e conosce l’Italia e vuole riconoscere il volto della sua gens, ma si trova invece inerme e spaventato dentro un universo senza caratteri, privo di segni distintivi, ostile anzi alle differenze e alle diversità per genocidio antropologico, tutto paralizzato com’è prima dall’omologazione del potere e poi dall’omologazione dei consumi. E’ proprio allora che la potenza della preveggenza di Pasolini, anticipa fortemente quella che sarà la “fame” di valori e di un nuovo equilibrato rapporto tra “radici e mondo” che caratterizzano l’epoca successiva alla sua morte e che caratterizzano ancora quella che viviamo.
Ma c’è dell’altro, ovviamente. Al di là di questo, Pasolini fu, essenzialmente, un solitario. Come tutti i solitari fu incompreso. Come tutti i profeti è stato poi assunto da tutti.
Ma, come sempre “in direzione ostinata e contraria”, Pasolini, all’opposto di molti profeti e solitari, rimane incollocabile.
E questa categoria dell’incollocabilità è e rimane la rabbia e il cruccio miserabile di tutti i suoi detrattori, la caratura del livore dei Salieri di ogni tempo, coloro che non potendo per mancanza sop-periscono nelle sabbie mobili dell’anonima presenza.
È dunque molto meglio riconoscere ciò che di lui non si condivide e contestarlo apertamente (ed armarsi però di titaniche competenze ed esegetica volontà, altrimenti una risata – in primis la mia – potrebbe seppellire l’incauto ermeneuta), piuttosto che tardivamente quanto inopportunamente fingersi pasoliniani, per usare un’odiosa quanto semanticamente putrescente categoria.
Dunque, ammettiamolo – cioè ammettetelo – in un Paese in cui continuano a prevalere nella comunicazione pubblica, l’omertà, la disonestà intellettuale, le logiche di clan e di appartenenza, la follia della sconcezza ideologica, l’irregolarità di Pasolini si staglia come una stella polare di civiltà e coraggio.
Non scimmiottiamolo dunque, ma se si può, se si trovano il cuore e le viscere per farlo, nell’esercizio quotidiano della vita, tentiamo di fare nostro il suo metodo. Rendere cioè regola la corsarità. Fare della propria vita l’impurezza estrema.

“…E io
ritardatario sulla morte, in anticipo
sulla vita vera, bevo l’incubo
della luce come un vino smagliante.”
Pier Paolo Pasolini, 12 giugno 1962

Antonella Pierangeli

Fonte:
http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=238&arg=6&red=2

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Pasolini e Gramsci - Crisi e declino dell’intellettuale organico

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Claudio Valerio Vettraino
Crisi e declino dell’intellettuale organico
Pasolini e Gramsci

In una personale ma allo stesso tempo radicalmente sociale riflessione, amara e pessimistica, Pasolini analizza l’ineludibile metamorfosi che sta trasfigurando il Paese da agricolo a industriale-terziario (nel breve arco di dieci anni, dal 1955-1965) e in cui si riflette la totalità dell’azione intellettuale dell’epoca, certificandone l’incapacità di attecchire e di preconizzare una possibile utopia, foss’anche artistica e di ridefinizione complessiva di un linguaggio, di uno spazio comunicativo orizzontale e democratico, in cui tutti possano dire la loro e denunciare il proprio stato di minorità e sottomissione. Nella progressiva emarginazione del suo essere coscienza “illuminata” d’avanguardia, Pasolini iscrive attentamente il processo storico attraverso cui il soggetto fino allora idealisticamente dominante e cioè la volontà-coscienza dell’autore o dell’intellettuale nel suo rapporto con la realtà, cede inesorabilmente il passo all’oggetto stesso del divenire storico, ai processi epocali che quotidianamente lo ridefiniscono agli occhi di chi lo sa carpire e comunicare attraverso l’arte, il cinema e la poesia.
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La funzione dell’intellettuale organico - Pasolini coscienza “illuminata d’avanguardia”: il feticismo del denaro e l’omologazione consumistica - La metamorfosi dell’intellettuale: da Gramsci all’afasia etico-comunicativa.

La funzione dell’intellettuale organico
In quasi dieci anni, da Uccellacci e Uccellini del 1966 a Salò del 1975, si consuma la parabola umana, artistica ed intellettuale di Pier Paolo Pasolini.
Uccellacci e Uccellini rappresenta a tutti gli effetti il tentativo di una riflessione pasoliniana non solo dell’esaurirsi oggettivo di un mondo politico e sociale (o viceversa il suo acuirsi barbarico e perciò regressivamente trasfigurante dello stesso), del sottoproletariato urbano espulso dalle campagne, con tutta la sua millenaria cultura e simbolismi tradizionali, ormai in stato confusionale, assoggettato alle logiche della “civiltà dei consumi” e dell’alienazione di massa, ma della funzione dell’intellettuale come elemento organico ad un determinato blocco storico-sociale, di chiara impronta gramsciana . E’ emblematica di questa precisa metamorfosi storico-linguistica, di questa profonda rivoluzione antropologica oltre che psicologica e sociale – come asserirà lo stesso Pasolini riflettendo sull’onnipervasività del boom economico italiano –, una battuta sussurrata con amarezza in Uccellacci e Uccellini dal corvo-intellettuale di sinistra che segue il pellegrinaggio tragicomico di Totò e Ninetto Davoli attraverso le baraccopoli, le rovine, i vecchi casali caduchi dell’estrema periferia romana, posta anch’essa (non sappiamo se volontariamente) al confine tra città e campagna, simbolo stesso del limite che separa intellettuali e classe operaia, “complessità dell’autore” e “semplicità degli uomini che descrive”: «Non vi chiedo neppure dove andate..Le mie parole cadono nel vuoto, parlo a uomini che non sanno più dove andare..».
In questa personale ma allo stesso tempo radicalmente sociale riflessione amara e pessimistica di Pasolini, sull’impotenza del verbo poetico e filmico nel proporre un argine critico concreto a questa ineludibile metamorfosi che sta trasfigurando il Paese da agricolo a industriale-terziario (nel breve arco di dieci anni, dal 1955-1965), si riflette la totalità dell’azione intellettuale dell’epoca, certificandone l’incapacità di attecchire e di preconizzare una possibile utopia, foss’anche artistica e di ridefinizione complessiva di un linguaggio, di uno spazio comunicativo orizzontale e democratico, in cui tutti possano dire la loro e denunciare il proprio stato di minorità e sottomissione.

Pasolini coscienza “illuminata d’avanguardia”: il feticismo del denaro e l’omologazione consumistica.
L’incontenibile eros vitale e di gaia incoscienza nel dolore, la millenaria abilità nel mantenersi “semplici” creature del mondo connessa alla lotta brutale per la sopravvivenza dei sottoproletari e in genere “della gente del popolo” (senza vedere in questa definizione alcuna retorica ottocentesca o risorgimentale), si contrappone e demolisce nei fatti, la centralità strategica del pedagogismo intellettuale degli anni ’50 e ’60.
Nella progressiva emarginazione del suo essere coscienza “illuminata” d’avanguardia, Pasolini iscrive attentamente il processo storico attraverso cui il soggetto fino allora idealisticamente dominante e cioè la volontà-coscienza dell’autore o dell’intellettuale nel suo rapporto con la realtà, cede inesorabilmente il passo all’oggetto stesso del divenire storico, ai processi epocali che quotidianamente lo ridefiniscono agli occhi di chi lo sa carpire e comunicare attraverso l’arte, il cinema e la poesia. In questa dialettica ormai sbilanciata verso l’oggettività operante del processo storico (non sempre progressivo ), diretta a valorizzare gli agenti che soggettivamente – attraverso la formula hegeliana dell’eterogenesi dei fini o “della mano invisibile di Smith” – articolano un percorso e un destino comune nell’elaborazione di un tessuto economico-sociale determinato, il ruolo tradizionale della riflessione intellettuale viene meno, la coscienza preconizzante (o forse qualsiasi forma di coscienza) viene meno, non riuscendo più a interloquire con i bisogni reali di quelle stesse masse o soggettività rivoluzionarie che pretenderebbe di risvegliare ed organizzare oltre che a ritagliarsi un determinato spazio di linguistico-comunicativo meticoloso ed efficace per definirli e riqualificarli, renderli vivi, concreti ed auspicabili, porli come premessa di quella che Agnes Heller, nel suo La teoria dei bisogni in Marx, definisce rivoluzione sociale totale, il ritorno dell’umanità a sé dopo il superamento dell’alienazione capitalistica.
Nell’afasia e nel mal celato scherno che intercorre tra il corvo-intellettuale (che rappresenta, dobbiamo dirlo, una determinata tipologia e funzione storica dell’intellettuale e non l’intellettuale tout court) e i due protagonisti Totò e suo figlio Ninetto, vi è non solo il cronico distacco, ormai millenario, tra coscienza soggettiva e realtà oggettiva, che neppure le rivoluzioni borghesi e quella russa di Lenin sono riuscite a colmare, data la forza schiacciante della scissione capitalistica mondiale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, segnalando con ciò l’impossibilità di un effettivo ritorno dell’umanità a sé auspicato dalla Heller, ma la tragica consapevolezza dell’impotenza storica dell’intellettuale nell’indicare un’utopia per quanto possibile concreta, una prospettiva comune, preconizzare un linguaggio critico condiviso e comprensibile, comunicabile, avvertire di un pericolo ritenuto – forse ingenuamente – imminente, la fine di un mondo che probabilmente è la fine del mondo, emancipare – con lo sforzo artistico - le masse dalla propria alienazione, dal feticismo del denaro e dell’omologazione consumistica; le masse vivono nell’alienazione, si riflettono nella loro stessa essenza-esistenza alienata ed alienante, seguendo le indicazioni di Marcuse, come fosse la loro stessa quotidiana normalità, o meglio, è la loro quotidiana normalità, ne respirano l’aria senza accorgersene, costruiscono i loro simbolismi, le loro abitudini, le loro tradizioni, il loro modo di essere al mondo nell’alienazione, nel loro costante proiettarsi al di fuori di sé, rendendosi in qualche modo complici oggettive de suo ridefinirsi sociale complessivo; viceversa se decidono di uscirne lo fanno autonomamente, istintivamente, intuitivamente, irrazionalmente (recuperando la loro stessa dimensione etico-naturale “primitiva” ed elementare di soggetti irriducibilmente antagonisti al piano di sviluppo capitalistico ), senza ricorrere alle fantasie analitiche, alle necessità scientifico-filosofiche dell’intellettuale.

La metamorfosi dell’intellettuale: da Gramsci all’afasia etico-comunicativa
Per riassumere, l’intera stesura di Uccellacci e Uccellini, con tutta la pletora dei suoi personaggi tratti, se vogliamo, dalla cruda commedia della vita , permette a Pasolini di preconizzare il passaggio epocale dall’intellettuale organico gramsciano (in base alla convinzione che non vi sia più un mondo storico-sociale e un soggetto rivoluzionario determinato da rappresentare ) all’osservatore critico, all’opinionista disorganico , all’intellettuale soggettivo, anche se non meccanicamente individualista e soggettivista, che può ricostruire con enorme fatica (in epoca di totale omologazione e reificazione del Logos in quanto pensiero-parola), un vocabolario che non miri idealisticamente ad essere omogeneo all’estro creativo dell’autore, all’invenzione stilistica, ad un’estetica spiritualistica audace e provocatoria (D’Annunzio), ma che riesca nel miracolo dialettico di porsi orizzontalmente in ascolto dei bisogni popolari, delle sue istanze di trasformazione, per rielaborare verticalmente, e cioè artisticamente, concettualmente, i dati raccolti.
L’organicità gramsciana può essere mantenuta nel non smarrire mai il nesso storico – indicato dal marxismo – tra teoria e prassi, concetto e storia, realtà e pensiero, bisogni e volontà.
Con Salò il discorso si acuisce e si complica enormemente. Salò non solo certifica ma radicalizza il pessimismo pasoliniano (divenuto cosmico), nella certificazione di un’afasia comunicativa ormai divenuta cronica ed irreversibile tra il suo voler essere intellettuale organico in una società sempre più disorganica e disomogenea, lacerata e scissa al suo interno e in precario equilibrio come quella italiana , e masse popolari, oltre che tra intellettuale e classe politica e fra intellettuale e intellettuale. La violenza cinica e barbara del fascismo, il sadismo grottesco e autenticamente disumano e disumanizzante dei notabili vittime-carnefici (secondo le indicazioni di Sade ), rappresentano a pieno la drammaticità indicibile (sebbene così comunicabile) del passaggio ulteriore e quanto mai definitivo di Pasolini nel cogliere – nell’esaurirsi oggettivo della funzione tradizionale dell’intellettuale organico gramsciano come espressione di un determinato blocco storico-sociale – l’annichilimento soggettivo di un’ideologia, di un progetto radicalmente alternativo al dominio capitalistico vigente, alla primitività delinquenziale, all’istinto autodistruttivo ed alienante del potere (paradossalmente “impotente”, paleo-industriale, ancora feudale, baronale) della borghesia italiana.
La sconfitta soggettiva, dettata dall’afasia etico-comunicativa dell’intellettuale , viene inscritta ed esasperata nel rapporto dialettico con l’intempestività (unzeitgemasse), l’anacronismo spazzante di un’ideologia burocratizzata d’emancipazione dell’intera umanità dalle catene della servitù antropologica, sociale ed economica Nell’orrore banale del male (Hannah Arendt), nell’infliggere patetiche sofferenze ai servi, i padroni realizzano la propria stessa alienazione, il loro essere soggettività brutale ed anonima, strumento fine a sé stesso del potere che esercitano e che rappresentano come elementi attivi del Thanatos (istinto di morte) nei confronti dell’Eros popolare irriducibile. La violenza cieca elevata a sistema di gestione sociale delle popolazioni, tema caro a Michel Foucault , serve sì a Pasolini per marcare le differenze antropologiche oltre che ideologiche tra servi e padroni e dunque aprire un piccolo barlume di speranza o d’illusione pietosa in una possibile presa di coscienza della natura di classe irriducibile della società borghese, sottolineare l’ipocrita dualità del potere fascista (e forse di ogni potere), nell’esibirsi come pomposa retorica di perfezione civile e di ingegneria sociale indiscutibile, e allo stesso tempo clownesca recita di un corpo trafitto e abusato come luogo privilegiato in cui – per dirla con Gilles Deleuze – si scrive la grammatica del potere, oltre a sigillare l’impossibilità di essere compresi e dunque opportunamente criticati, dai soggetti etico-sociali a cui il film dovrebbe essere indirizzato, cioè quei giovani, quelle masse proletarie e popolari, soffocate dall’omologazione consumistica imperante, impregnate di una medesima coscienza reificata, di medesimi costumi alienati, impossibilitate a comprendere qualcosa che va al di là di questo piano d’immanenza. Il dovrebbe è d’obbligo anche secondo le indicazioni stesse di Pasolini, convinto in una celebre intervista che i giovani non possano capire nulla del suo film, perché la società gli ha privato – attraverso la crisi della scuola, dell’università e della cultura sociale e delle tradizioni popolari millenarie – degli strumenti critici adatti ad apprendere e giudicare quanto emerso dal film. L’orrore che inghiotte tutto e che fa da sfondo mistico-simbolico al trauma barbarico di un cieco sadismo, rappresenta indubbiamente il buco nero comunicativo, l’afasia non artistico-espressiva (anzi, sempre più alta ed evocativa) ma linguistica, verbale, grammaticale, concettuale in cui cade l’intellettuale organico e la sua idea di società, annichilendo nei fatti «come l’arte sia sempre più legata ad una determinata cultura o civiltà, e lottando per riformare la cultura, si lotta a creare una nuova arte, perché si modifica l’uomo», come lo stesso Gramsci ci aveva più volte indicato. La violenza fascista come radicalizzazione dell’impotenza borghese nel gestire le sue stesse contraddizioni interne, diviene il contesto generale e la leva dello scollamento oggettivo delle masse dalla propria ansia di cultura ed arte, dal bisogno filosofico ed etico di trasformarsi, evolversi per trasformare ed evolvere la realtà capitalistica che le circonda e le aliena quotidianamente.

Claudio Valerio Vettraino
Fonte:
http://www.storiaestorici.it/index.asp?art=239&arg=6&red=2

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Le parole di Pasolini, oggi

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Le parole di Pasolini, oggi

Mi sorprende ogni volta, la vastità di argomenti su cui Pier Paolo Pasolini aveva scritto o detto. E anche la lucidità nel saper vedere lungo, nei cambiamenti in atto nella società e nel paese.

Nel ruolo che la televisione stava assumendo.
eravamo nel 1975, come strumento di educazione di massa, unidirezionale, che genera un rapporto di inferiorità in chi vede:
Pier Paolo Pasolini: Il fatto di aver trovato i miei amici qui, alla televisione, non è bello. Per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video e a ricostituire qualcosa di reale, di sincero. Ma come posizione, la posizione è brutta, è falsa.
Enzo Biagi: Perché? Cosa ci trova di così anormale?
Pier Paolo Pasolini: Perché la televisione è un medium di massa e il medium di massa non può che mercificarci e alienarci. [...]Enzo Biagi: Ma noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione. O no?
Pier Paolo Pasolini: No, non è vero.
Enzo Biagi: Sì, è vero. Lei non può dire tutto quello che vuole?
Pier Paolo Pasolini: No, no, non posso dire tutto quello che voglio.
Enzo Biagi: Lo dica!
Pier Paolo Pasolini: No, non potrei perché sarei accusato di vilipendio, uno dei tanti vilipendi del codice fascista italiano. Quindi in realtà non posso dire tutto. E poi, a parte questo, oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose, quindi mi autocensuro. Ma a parte questo, non è tanto questo, è proprio il medium di massa in sé. Nel momento stesso in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.
(da “Terza B. Facciamo l’appello”,1971, link)


E ora pensate a quello che è diventata la televisione oggi: strumento di educazione politica, dove il politico di turno va in onda per autoassolversi o a celebrare la sua opera.

La sua idea su progresso e sviluppo.
Non sono la stessa cosa, ancora oggi si ripete il mantra dello sviluppo ad ogni costo. Dimenticandosi che noi, la nostra vita, la dobbiamo migliorare, progredire, appunto.
confondere sviluppo e progresso: in questo momento storico sono addirittura inconciliabile .. questo sviluppo lo vuole la destra economica .. sviluppo che vuole la produzione di beni superflui, chi vuole il progresso vuole la produzione di beni necessari
Pasolini fece distinzione tra“sviluppo” e “progresso”, chiarendo perché le riteneva opposte e inconciliabili. Questo sviluppo lo vuole la destra economica. Questi nuovi padroni non corrispondono a quelli che consideravamo in passato padroni. Non vogliono progresso. Ma l’opposizione non è una nuova opposizione, ossia ha delle posizioni tradizionaliste. Questo sviluppo vuole la produzione di beni superflui. Coloro che vogliono il progresso vorrebbero la produzione di beni necessari.
La produzione di beni superflui ha finito per cambiare antropologicamente tutti gli italiani. La destra è profondamente cambiata. Ha accettato lo sviluppo. È cambiato il fascismo e ha mutato nome.


E ora pensate a cosa sta succedendo a Pomigliano, cosa sta succedendo nel resto del paese a chi lavora, che fine stanno facendo, sempre più in basso i diritti dei lavoratori, il welfare. E chi ci dice ogni giorno in televisione (appunto), che questi diritti, queste regole (magari giuste in linea teorica) non ce le possiamo più permettere, in nome dello sviluppo.

Pasolini e la società dei consumi.
Andate ad un centro Ikea, il fine settimana, oppure in un grande centro commerciale. Troverete le persone che qui trovano un centro di aggregazione, nel nome del finto shopping, dell'idea di consumo. Tutti uguali, tutti omologati, tutti a dire, fare, le stesse cose. Pensando pure di essere liberi come il Winston di 1984.
"il fascismo, il regime fascista non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere" che "non ha potuto fare niente, non è riuscito ad incidere, nemmeno a scalfire lontanamente la realtà dell'Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico-estetizzante-accademico, non trova le sue radici nel regime che l'ha ordinata ma [...] in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire, cioè è la realtà dell'Italia provinciale, rustica, paleoindustriale, che ha prodotto Sabaudia e non il fascismo",e, ancora, poco dopo:"Ora, invece, succede il contrario. Il regime è un regime democratico, eccetera, eccetera, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della società dei consumi, invece, riesce a ottenere perfettamente. [...] Il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l'Italia, e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che non ce ne siamo resi conto, è avvenuta in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni... è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l'Italia intorno a noi distruggersi, sparire. Adesso, risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c'è più niente da fare"
[preso dal sito
Pasolini.net]


Pasolini e i giovani: giovani che nel 1968 volevano rottamare la società per rinnovarla in chiave progressista. Ma Pasolini poteva permettersi di criticare i loro slogan, il loro prendersela coni poliziotti “figli dei poveri” a Valle Giulia, per cui il poeta parteggiava.
"Pagine corsare"
La poesiaIl Pci ai giovani!!, di Pier Paolo Pasolini.È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metàdel decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.
[...]Pier Paolo Pasolini [
link]
Il processo al potere.
Infine l'accusa al potere, che negli anni 70, gli anni degli scandali e delle stragi, era il potere democristiano.
Quello della faccia pulita di Moro e Zaccagnini, ma anche degli Andreotti, Taviani, Rumor, Lima. Come intellettuale onesto, non poteva tacere, rimanere zitto, guardare dall'altra parte, farsi comprare, come succede anche oggi a tanti giornalisti e intellettuali.
Arrivò a chiedere, nelle Lettere Luterane , un processo alla Dc, per quello che aveva fatto contro il paese:
In conclusione, il PSI e il PCI dovrebbero per prima cosa (se vale questa ipotesi) giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente gli ultimi dieci) l‘Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. [..] E quivi accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente (sperando nell’eventualità che, almeno, venga prima o poi celebrato un «processo Russell» finalmente impegnato e non conformistico e trionfalistico com’è di solito):indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come suol dirsi, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono«selvaggio» delle campagne, responsabilità dell‘esplosione«selvaggia» della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori.
Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla.
Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999 (“Il Mondo, 28 agosto 1975; poi in Lettere luterane [link])
Chi pagherà per lo scempio dei nostri territorio, per la cementificazione delle coste e per le discariche abusive in Lombardia come in Campania.
Chi pagherà per lo scempio e l'abbandono industriale nel paese?
Per le morti sul lavoro, per le morti di amianto?
Per un paese diventato di spettatori e non cittadini, di commentatori da bar sport e non più di lettori di libri o giornali.
Chi pagherà per lo smantellamento della Costituzione: la scuola pubblica che non è più scuola né pubblica. L'assistenza sanitaria che diventerà cosa per ricchi. La tutela contro le discriminazioni, politiche razziali e sessuali. Chi pagherà per la corruzione di sistema, per aver permesso alla criminalità organizzata di entrare nella società e nell'economia?
Chi pagherà per la generazione perduta, senza lavoro pensioni e diritti, e che domani dovrà farsi carico degli errori (e dei debiti) di oggi.
Fonte:
http://unoenessuno.blogspot.it/2012/11/le-parole-di-pasolini-oggi.html

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pasoliniPesaro, 1965, Pasolini si presenta alla tavola rotonda organizzata dal Festival del Cinema Nuovo, e dice la “sua” sulla probabile esistenza di una “lingua” filmica. Questo intervento dal titolo “il cinema di poesia”, pubblicato poi sul numero 156/157 di “Fimcritica”, costituisce il cardine nella riflessione pasoliniana sul cinema come possibile sede di una “lingua della poesia”. Una riflessione che prendeva spunto dalla ricerca di sistemi filmici in grado di scorgere discrepanze stilistiche tra quella lingua di prosa del cinema classico e la lingua di poesia del cinema moderno.
Secondo Pasolini, infatti, in Bergman, in Chaplin, la lingua filmica aderiva ai significati al punto da rendere trasparente la macchina da presa (“non si sovrapponeva ai fatti, violentandoli attraverso le folli deformazioni semantiche che si devono alla sua presenza come continua coscienza tecnico-stilistica”). Nel cinema moderno, al contrario, la macchina da presa si “sente” soprattutto per merito di quell’espediente che Pasolini individua nella “soggettiva libera indiretta”: il mezzo semantico chiamato a rendere visibile lo stile dell’autore. Questa è la lingua di poesia: un soggetto preso a pretesto dall’autore per poter parlare liberamente. Quasi un monologo interiore in grado di rivelare tra le maglie del discorso filmico, la presenza dello sguardo d’autore come essenza dello stile stesso del film. Si tratta, è bene precisarlo, di un’operazione essenzialmente stilistica e non linguistica. Per un regista, infatti, è molto più difficile esprimersi interiormente di quanto non lo sia per uno scrittore: in letteratura l’autore che si sostituisce al personaggio utilizza e si immerge nella sua psicologia utilizzando essenzialmente una lingua.

Pasolini_Accattone_2Nel cinema l’immedesimazione punta sulle peculiarità della tecnica audio-visiva, sullo sguardo dando vita ad una identificazione di tipo sociale e psicologica, ma non linguistica (“la realtà esiste materialisticamente ed è una lingua, non uno scenario mentale; gli uomini vi interagiscono; la lingua in cui la realtà si manifesta è visiva e orale, per cui primitiva e pre-culturale”).
Prendiamo l’ultima indimenticabile sequenza di Accattone: Franco Citti è a terra, steso, moribondo. Pronuncia qualche parola. Chiude gli occhi. La macchina da presa abbandona il viso dell’attore romano e sale verso il cielo. Un movimento non “giustificato”, completamente privo di un qualsiasi tipo di raccordo in grado di rendere impercettibile lo smacco spazio-temporale, la continuità da un piano all’altro; privo cioè di quelle condizioni “grammaticali” chiamate a legittimare un movimento simile.
Lo sguardo in questione viene sottoposto ad una biforcazione ideale: la macchina da presa si allontana dal personaggio vedente e lo sguardo vira improvvisamente verso l’alto. Una virata che non è semplice vezzo autoriale, non ha niente da spartire con nauseabondi quanto abusati narcisismi stilistici. Una virata che, al contrario, è in grado di rivelarci la poetica presenza dell’autore, dell’intellettuale Pasolini, deciso a dar libero sfogo ad un monologo interiore semplicemente per addolcire la morte di un povero disgraziato. Un lento ma traumatico movimento di macchina messo lì con lo scopo di far sentire una presenza “altra” e per assicurare al “borgataro” una prospettiva spirituale rassicurante. Accattone, che nella sua “ignoranza” nemmeno si sarebbe sognato (figuriamoci da morto), uno sguardo così carico di pietà, uno sguardo mirato verso l’infinito, verso la redenzione, “affida” la sua anima alle cure di Pasolini il solo in grado di capire e giustificare una simile esistenza balorda ( ..se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo ). In senso freudiano, questa è una tipica situazione di formazione del compromesso tra il desiderio di calarsi dentro l’orizzonte visivo di un altro, di un personaggio, e l’impossibilità di prescindere da se stessi. In senso pasoliniano, il cinema di poesia.
imageMVIPer Pasolini la realtà stava al cinema (un cinema sui generis, in cui i poveri sono veri poveri, un facchino è un vero facchino «corpo e voce», i doppiatori non sono professionisti, la cinepresa è tenuta sulla spalla) come la vita di un individuo, un brandello di questa realtà, sta ad un film, un film che termina inevitabilmente con la morte.
Una morte che un giorno spuntò in un prato di periferia con bastoni, catene e fango; nonostante ciò, arrivò senza fare irruzione. Così la morte lo raggiunse. Una morte tutto sommato scontata, perché già sceneggiata, diretta e interpretata mille volte. Non scelse un luogo come un altro, ma un luogo che già aveva visto riflesso negli occhi del suo il suo “assistito” . Riflessi amari che avevano l’odore di Ragazzi di vita, di Una vita violenta, rimandi agghiaccianti e impressi tra le inquadrature di Accattone e tra le forme zigzaganti di Uccellacci e uccellini. Una morte che arrivò e a sforbiciare materia viva: ultimo e definitivo decoupage di un’esistenza intrisa di carica poetica che ne aveva invocato l’arrivo quale puntello indispensabile a cui aggrapparsi.
Mimmo Carretta
Fonte:


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domenica 21 aprile 2013

Il Vangelo secondo Matteo di Fabrizio Ferzetti, il Messaggero 9/4/2004

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dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



« Un Vangelo in bianco e nero interpretato da attori non professionisti fra cui sottoproletari, scrittori (Gatto, Ginzburg, Leonetti, Siciliano, Wilcock), un futuro filosofo (Agamben) e la madre dell’autore nel ruolo della Madonna. Un Gesù giovane e aguzzo che sembra uscito da un quadro di El Greco o di Georges Rouault, mentre nella realtà era uno studente spagnolo in esilio. Un film austero e sapiente, tutto girato fra Basilicata, Puglia e Calabria, perché Pasolini non pensò nemmeno un minuto di ricreare la Palestina del I secolo, ma ne cercò l’equivalente in quel Sud arcaico e pastorale che era al centro della sua personale mitologia. Tutto questo e molto di più è Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, che si riaffaccia restaurato in un pugno di sale mentre lo “spottone” pulp di Mel Gibson invade gli schermi come una forza d’occupazione. Naturalmente il paragone fra i due film non ha senso. Nel ’64 infatti il mondo non era sull’orlo di una guerra di religione; Pasolini inoltre era un poeta e da poeta affrontò il testo di Matteo, lanciandosi in ogni sorta di sperimentazione per cercare le soluzioni stilistiche più adeguate. Addio dunque alla famosa sacralità di Accattone, che sarebbe stata retorica applicata a un soggetto simile, e via con zoom, carrellate, teleobiettivi, tecniche quasi documentarie che danno al suo Vangelo quell’andatura “rubata” ancor oggi così commovente. Mai la parola di Gesù avrebbe avuto tanta forza al cinema, né l’avrebbe ritrovata in seguito. Mai passi così noti e commentati («Il mio film è la vita di Cristo più duemila anni di storie sulla vita di Cristo») sarebbero apparsi così umili, quotidiani, concreti. Pochi sguardi feriti, una fuga lungo un orto, e si consumano lo sconcerto e il prodigio della maternità di Maria. Un fischio alla pecorara e parte la strage degli innocenti. Una corsa a perdifiato, ed ecco Giacomo e Giovanni. Mentre i ricchi, i potenti, i sacerdoti, vivono nei fantasiosi costumi di Danilo Donati, incastonati con naturalezza davvero miracolosa fra i Sassi di Matera e i castelli di Puglia. Naturalmente il Vangelo di Pasolini non era fatto per piacere a tutti, e se a Venezia fu premiato fra gli sputi fascisti, solo il coraggio del produttore Alfredo Bini vinse l’indifferenza ostile delle banche. Visto oggi ci riporta a un’epoca remota, quando il cinema lo facevano gli uomini, non le macchine; e il dibattito culturale non aveva l’isteria malata, quasi militarizzata di oggi. Curiosamente ma non troppo, nel tempo Pasolini continuò a cambiare idea al suo riguardo (un film «ambiguo e sconcertante» arrivò a definirlo). Forse temendo di aver messo in quel Cristo sferzante troppo di sé ».
Fabrizio Ferzetti, il Messaggero 9/4/2004 ©

« ...il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obbiettivamente, ma non entusiasticamente atto ».
l'Unità ©

Voce alle Maestranze

« Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile... ».
Pier Paolo Pasolini, il regista

Voce agli Interpreti

« Ciò che accadde è che quel film fu girato in parte in Calabria, e a quell'epoca il sud dell'Italia era più meridionale del sud della Spagna: le persone che sfilavano in abiti neri mi chiedevano che realizzassi qualche miracolo, non erano disposte a credere che io non fossi Cristo, oppure si offendevano quando fumavo. Perché Cristo non fuma ».
Enrique Irazoqui, Gesù Cristo nel film

Curiosità

Il film si classificò 68° nella classifica dei film più visti al cinema nella stagione 1964-65.
Il film è dedicato da Pasolini alla "cara, lieta e familiare" memoria di Giovanni Paolo XXIII.
La pellicola originale ha subito un restauro nel 2004 da Mediaset, con il Centro Sperimentale di Cinematografia in collaborazione con Compass Film.
Le riprese del film si effettuarono dall'aprile al luglio del 1964.
Quando fu presentato, il film fu largamente apprezzato e premiato dalla critica cattolica, quanto aspramente contestato dalla sinistra politica.

Fonte:
http://calabriainciak.blogspot.it/2010/12/il-vangelo-secondo-matteo-italia-1964.html


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Curatore, Bruno Esposito

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