"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini
Il sesso come metafora del potere
(autointervista)
Corriere della Sera
25 marzo 1975
( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )
Il regista, che ha incominciato a girare «Salò o le 120 giornate di Sodoma chiarisce l'intento della sua opera dove quattro «potenti» strumentalizzano alcune vittime in un continuo confronto dialettico, che è fisico oltre che economico, tra chi detiene il comando e chi invece è asservito - La scelta degli attori...
Pochi giorni or sono abbiamo registrato su queste colonne l'inizio delle riprese, a Mantova, del nuovo film di Pier Paolo Pasolini << Salò o le centoventi giornate di Sodoma >>. Ora l'autore stesso ha voluto scrivere per il << Corriere >> dal << set >> dove lavora, questo articolo in forma di << auto-intervista >>, per chiarire il significato e i propositi della sua nuova opera che, come è noto, trasferisce i personaggi del racconto di De Sade all'epoca della Repubblica di Salo.
D. - Questo film ha dei precedenti nella sua opera?
R. - Sì. Le ricordo Porcile. Le ricordo anche Orgia, un’opera teatrale di cui ho curato io stesso la regia (a Torino, nel ’68). L’avevo pensata nel 1965, e scritta tra il ’65 e il ’68 come del resto Porcile, che era anch’esso un’opera teatrale. Originariamente doveva essere un’opera teatrale anche Teorema (uscito nel ’68). De Sade c’entrava attraverso il teatro della «crudeltà», Artaud, e, per quanto sembri strano, anche attraverso Brecht, autore che fino a quel momento avevo poco amato, e per cui ho avuto un improvviso, anche se non travolgente amore appunto in quegli anni antecedenti alla contestazione. Non sono contento né di Porcile né di Orgia: lo straniamento e il distacco non fanno per me, come del resto la «crudeltà».
Crudeltà
D. - E allora Salò?
R. - E vero, Salò sarà un film «crudele», talmente crudele che (suppongo) dovrò per forza distanziarmene, fingere di non crederci e giocare un po’ in modo agghiacciante… Ma mi lasci finire il discorso sui «precedenti». Nel 70 ero nella valle della Loira. Facevo dei sopralluoghi per il Decameron. Sono stato invitato a fare un dibattito con gli studenti dell’Università di Tours. Lì insegna Franco Cagnetta, il quale mi ha dato da leggere un libro su Gilles de Rais e i documenti del suo processo, pensando che potesse essere un film per me. Ci ho pensato seriamente per qualche settimana (è uscita in Italia in questi mesi una bellissima biografia di Gilles de Rais, a cura di Ernesto Ferrerò). Naturalmente poi ci ho rinunciato. Ero ormai preso dalla Trilogia della Vita.
D. - Perché?
R. - Un film «crudele» sarebbe stato direttamente politico (eversivo e anarchico, in quel momento): quindi insincero. Forse ho sentito un po’ profeticamente che la cosa più sincera dentro di me, in quel momento, era fare un film su un sesso la cui gioiosità fosse un compenso — come infatti era — alla repressione: fenomeno che stava per finire ormai per sempre. La tolleranza di lì a poco avrebbe reso il sesso triste e ossessivo. Ho evocato nella Trilogia i fantasmi dei personaggi dei miei film realistici precedenti. Senza più denuncia, ovviamente, ma con un amore così violento per il «tempo perduto», da essere una denuncia non di qualche particolare condizione umana ma di tutto il presente (permissivo per forza). Ora siamo dentro quel presente in modo ormai irreversibile: ci siamo adattati. La nostra memoria è sempre cattiva. Viviamo dunque ciò che succede oggi, la repressione del potere tollerante, che, di tutte le repressioni, è la più atroce. Niente di gioioso c’è più nel sesso. I giovani sono o brutti o disperati, cattivi o sconfitti…
D. - E questo che vuole esprimere in Salò?
R. - Non lo so. Questo è il «vissuto». Certo non ne posso prescindere. E uno stato d’animo. E quello che cova nei miei pensieri e che soffro personalmente. Dunque è questo forse ciò che voglio esprimere in Salò. Il rapporto sessuale è un linguaggio (ciò, per quanto mi riguarda, è stato chiaro ed esplicito specialmente in Teorema): ora i linguaggi o sistemi di segni cambiano. Il linguaggio o sistema di segni del sesso è cambiato in Italia in pochi anni, radicalmente. Io non posso essere fuori dell’evoluzione di alcuna convenzione linguistica della mia società, compresa quella sessuale. Il sesso è oggi la soddisfazione di un obbligo sociale, non un piacere contro gli obblighi sociali. Da ciò deriva un comportamento sessuale appunto radicalmente diverso da quello a cui io ero abituato. Per me dunque il trauma è stato (ed è) quasi intollerabile.
D. - In pratica, per quanto riguarda Salò…
R. - Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza.
D. - Mi sembra di capire, però, che in lei ci siano anche altre intenzioni, meno interiori, forse, ma più dirette…
R. - Sì, ed è a queste che voglio arrivare. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. Tutto il contrario che nella Trilogia (se, nelle società repressive, il sesso era anche un’irrisione innocente del potere).
D. - Ma le sue Centoventi giornate di Sodoma non si svolgono appunto a Salò nel 1944?
R. - Sì, a Salò, e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti (come per esempio nei migliori films di Miklós Janksó) il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. Quel potere arcaico mi facilita la rappresentazione. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme… E poi… Ecco: è il potere che è anarchico. E, in concreto, mai il potere è stato più anarchico che durante la Repubblica di Salò.
D. - E De Sade, che c'entra?
R. - C’entra, c’entra, perché De Sade è stato appunto il grande poeta dell’anarchia del potere.
D. - Come?
R. - Nel potere — in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo — c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. L’anarchia degli sfruttati è disperata, idillica, e soprattutto campata in aria, eternamente irrealizzata. Mentre l’anarchia del potere si concreta con la massima facilità in articoli di codice e in prassi. I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli.
Tre gironi
D. - Scusi se torno alla pratica: ma in pratica come tutto ciò si realizza nel film?
R. - E semplice, più o meno come nel libro di De Sade: quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore), ontologici e perciò arbitrari, «riducono a cose» delle vittime umili. E ciò in una specie di sacra rappresentazione, che seguendo probabilmente quella che era l’intenzione di Sade, ha una specie di organizzazione formale dantesca. Un Antinferno, e tre Gironi. La figura principale (di carattere metonimico) è l’accumulazione (dei crimini): ma anche l’iperbole (vorrei giungere al limite della sopportabilità).
D. - Chi sono gli attori che rappresentano i quattro mostri?
R. - Non so se saranno mostri. Comunque non meno e non più delle vittime. Nello scegliere gli attori ho fatto la solita contaminazione: si tratta di un generico che in più di vent'anni di lavoro non ha mai detto una battuta, Al do Valletti; di un mio vecchio amico delle borgate romane (conosciuto ai tempi di Accattone), Giorgio Cataldi; di uno scrittore, Uberto Paolo Quintavalle, e infine anche di un attore, Paolo Bonacelli.
D. - E chi saranno le quattro «megere» narratrici?
R. - Saranno tre bellissime donne (la quarta nel mio film fa la pianista, perché i Gironi sono appunto tre): Helene Surgère, Caterina Boratto e Elsa de’ Giorgi. La pianista sarà Sonia Saviange. Le due attrici francesi le ho scelte dopo aver visto a Venezia il film Femmes Femmes di Vecchiali: bellissimo film in cui le due attrici, per restare nel contesto linguistico francese, sono «sublimi» (ma veramente).
D. - E le vittime?
R. - Tutti ragazzi e ragazze non professionisti (almeno in parte: le ragazze le ho scelte tra delle fotomodelle, perché naturalmente dovevano avere dei bei corpi e, soprattutto, non dovevano avere paura di mostrarli).
D. - Dove gira?
R. - A Salò (esterni), a Mantova (interni ed esterni in cui si svolgono rapimenti e rastrellamenti), a Bologna e dintorni: il paesetto sul Reno sostituirà il distrutto Marzabotto…
D. - So che sono due settimane che sono cominciate le riprese. Può dire qualcosa del suo lavoro?
R. - Me lo risparmi. Non c’è niente di più sentimentale di un regista che parla del suo lavoro sul set.
Pier Paolo Pasolini
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
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