"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini
Le confessioni di un Poeta
(Trascrizione)
F. D.G. - Ha scritto due romanzi, volumi di poesia, ha diretto alcuni film noti in tutto il mondo, è stato esaltato e aggredito con un accanimento incredibile, ma chi sia davvero, nessuno ha mai tentato di scoprirlo. Ha avuto per maestro il teorico e l'uomo d'azione più importante nella storia del comunismo italiano, Antonio Gramsci. A Gramsci ha dedicato nel 1954 un poema che è insieme una confessione e un gesto di rivolta.
P.P.P. -
- Lo scandalo del contraddirmi,
- dell'essere
- con te e contro te; con te nel core,
- in luce, contro te nelle buie viscere;
- del mio paterno stato traditore
- - nel pensiero, in un'ombra di azione -
- mi so ad esso attaccato nel calore
- degli istinti, dell'estetica passione;
- attratto da una vita proletaria
- a te anteriore, è per me religione
- la sua allegria, non la millenaria
- sua lotta: la sua natura, non la sua
- coscienza: è la forza originaria
- dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
- a darle l'ebbrezza della nostalgia,
- una luce poetica: ed altro più
- io non so dirne, che non sia
- giusto ma non sincero, astratto
- amore, non accorante simpatia...
- Come i poveri povero, mi attacco
- come loro a umilianti speranze,
- come loro per vivere mi batto
- ogni giorno. Ma nella desolante
- mia condizione di diseredato,
- io possiedo: ed è il più esaltante
- dei possessi borghesi, lo stato
- più assoluto. Ma come io possiedo la
- storia,
- essa mi possiede; ne sono illuminato:
- ma a che serve la luce?
F.D.G. - Le cenere di Gramsci si intitola questa poesia, la tomba dell'uomo politico, morto al confino durante il fascismo, è al cimitero degli inglesi a Roma, nel quartiere popolare del Testaccio. Qui, sotto un colle di detriti c'è il mattatoio comunale, venuto a Roma dal nord nei primi anni del dopoguerra Pier Paolo Pasolini poeta e romanziere si formò in questa periferia rumorosa, ammucchiata accanto alle rive del Tevere, dove il fiume sta per uscire dalla città, come i poveri povero, imparò qui ad amare i diseredati, la loro allegria naturale e irragionevole, più che la loro lotta e la loro storia. Mucchi di case, mucchi di gente, i diseredati in cinque a dormire in una stanza e quelli che già sono un gradino più su, usciti appena dal buio della miseria, in questa periferia, in queste case prigione, qui Pasolini cominciò allora oscuramente a sentirsi un traditore. Un'altra Roma vede ora Pier Paolo Pasolini, la Roma lustra e solenne del nuovo quartiere dell'euro, dove il fascismo lasciò il segno di una civiltà di cartapesta, è la tipica Roma dei ricchi di oggi, dove il passato incompiuto si impasta con il futuro, la chiesa di San Pietro e Paolo, tonda, goffa e imperiale, nasconde piccoli edifici eleganti, dove non giungono rumori proletari, dove non arriva nemmeno il frastuono del caotico traffico romano, qui vive, appartato, il poeta delle ceneri di Gramsci, vive in una grande casa accogliente, protetto dall'amore di una piccola donna di 60 anni, sua madre.
S.C.P. - Ecco questa è la sala da ricevere, soggiorno, la vestiamo quasi sempre, quando ricevo qualche dono, qualche amica e anche Pier Paolo quando riceve i suoi amici.
F.D.G. - La voce e l'accento sono ancora quelli di un tempo lontano, del Friuli dove è nata, dove ha vissuto a lungo.
S.C.P. - Questo è lo studio di Pier Paolo, lo studio e la camera da letto, ha voluto lui la camera da letto perché dice, se mi viene qualche ispirazione, magari di notte oppure di mattina, io mi alzo e trovo subito da scrivere.
F.D.G. - Tutto il giorno la piccola donna gira per le istanze, silenziosa e leggera, attenta a ogni cosa, assidua protettrice dei segreti e del lavoro del figlio. Una casa che non ha nulla di particolare, al fondo di un corridoio la madre ha la sua camera da letto, arredata ancora con i mobili di quando sposò, malandati dopo i molti traslochi di una vita randagia, non li ha mai voluti abbandonare, nonostante le preghiere del figlio. Qui, su una parete, vive il passato, il ricordo di tutta una vita. Un altro figlio, Guido, di tre anni più giovane di Pierpaolo, morì nel 1945 partigiano, fucilato dai tedeschi nel Friuli.
S.C.P. - Un carattere comune avevano, quello della generosità, proprio una generosità, specialmente da bambini, che rappresentava, non so, perfino ridicola. Le differenze erano, sì, nel carattere molta differenza, Pier Paolo era sempre stato un po' chiuso, serio, anche troppo serio, l'altro invece era molto più aperto, più allegro, coraggiosissimo.
P.P.P. - Ma in realtà mio fratello rappresenta, continua a rappresentare, non soltanto lo rappresenta, quello che io avrei voluto essere. Se lei sa, probabilmente immagina, come ogni scrittore, ognuno che scrive delle poesie, ha come fondamento, direi come, come sentimento fondamentale, l'idea di essere diverso dagli altri. Credo che questa sia l'idea che ossessiona qualsiasi scrittore alle sue origini durante la sua infanzia. In realtà il mio fratello vedevo gli altri, però non in una forma, diremmo, nemica, ostile, angosciosa, ma nella forma in cui io avrei voluto in realtà essere.
F.D.G. - Tutto questo ancora resiste?
P.P.P. - Sì, resiste ancora, insieme col dolore che provo per la sua morte, che non ho mai esaurito. Perché quando è morto, nell'aiutarmi a mia madre a sopportare, superare questo momento, ho costretto me stesso a non pensarsi, a esserne come immune, illeso, essere abbastanza forte per sostenere mia madre - quindi non ho mai smaltito e ce l'ho ancora dentro.
F.D.G. - Ciò che il poeta avrebbe voluto essere e non fu, un dolore che non può scomparire, una naturale e tremenda, eppure confessata, invidia. Dovranno passare vent'anni perché il poeta riesca a piegare quel ricordo e a vincere la segreta umiliazione di non essere stato come il fratello Guido. Lo farà in modo splendido e atroce con un film. Con Il Vangelo secondo Matteo, con il Cristo che muore sulla croce, si placa la sofferenza inconscia del poeta. Non lo vuole e forse neppure lo sa, ma qui, in queste immagini strazianti e convulse, in questa crocifissione che ha tutta l'asprezza di una rivolta covata a lungo, Pasolini tenta di liberarsi da un passato che gli è nello stesso tempo venerato e intollerabile. Sua madre, la piccola donna friulana con cui ha sempre vissuto, si trasforma nella madre di Cristo e lui, Pier Paolo, ha finalmente per sé, solo per sé, temerariamente e incredibilmente identificato con il Cristo il dolore e l'amore che la madre aveva dato anche a Guido.
S.C.P. - Mettersi a fare un personaggio così elevato, come la Madonna, così divino, immenso, mi pare, ero troppo umile, troppo modesta per interpretarlo. Ne sono riuscita a entrare nel personaggio pensando al dolore che ho provato quando è morto quell'altro mio figlio.
F.D.G. - Ma pensando a Guido?
S.C.P. - Ho pensato a Guido, sì, avevo paura proprio di impazzire. Allora dico, anche la Madonna forse avrà pensato, avrà sofferto tanto per vedere il figlio in croce, e così... Padre mio, perché mi hai abbandonato?
F.D.G. - Non e un arbitrio interpretare così il film. Pasolini non rifiuta questa interpretazione. Il Cristo che muore sulla croce, pianto dalla Madonna che è sua madre, e la proiezione, temeraria certo, ma così candidamente umana, di tutto ciò che di infantile, di puro, di ingenuo, di fiabesco, è rimasto nel poeta, cioè di tutto l'autentico Pasolini.
S.C.P. - È sempre stata molto affettuoso. Quando dicevo, per esempio, sto poco bene, mi duole la testa. Lei si inocchiava davanti a un'immagine della Madonna e la pregava, piangeva, finché non gli dicevo che stavo bene, proprio.
F.D.G. - L'adolescenza di Pasolini, nato a Bologna per caso, fu randagia. La famiglia doveva cambiare residenza quasi ogni anno. A scuola fu un allievo eccezionale, saltò tre classi, a vent'anni era laureato in lettere. Il tempo delle vacanze fu breve. La guerra, le condizioni non floride della sua famiglia piccolo-borghese, lo costrinsero subito a cercarsi un lavoro. Con una laurea in lettere, trovò aperta la strada dell'insegnamento. Insegnò dapprima nel Friuli, dove la famiglia era sfollata, e poi a Roma, dove si erano trasferiti nel 49 in una piccola scuola media parificata a Ciampino.
P.P.P. - Mi piaceva molto, sì, mi piaceva molto insegnare. È stata un'esperienza abbastanza bella della mia vita.
F.D.G. - Roma fu la scoperta del mondo proletario. La Roma della confusa periferia, dove faticavano uomini da pochi inurbati, rozzi, chiassosi, ricchi di vitalità e di antica pazienza contadina. Questa Roma proletaria del dopoguerra affamato, che a malapena si distingueva da un'altra Roma ancora più dissestata e stracciona, quella delle baracche, dei mendicanti, dei piccoli mestieri senza futuro. Questa Roma, che era il rovescio esatto della medaglia imperiale, fece nascere un poeta nuovo. Il piccolo borghese Pasolini subì, dopo quello della morte del fratello Guido, il secondo shock della sua vita. Nacque qui il suo marxismo. Nacque fra questa gente il suo amore rimorso per Gramsci. Qui cominciò a sentirsi un traditore. Amando, come dicono altri versi delle ceneri di Gramsci, il mondo che odio, nella sua miseria sprezzante e perso, per un oscuro scandalo della coscienza. Su questi personaggi primitivi e semplici, spietati e ingenui, su questo miscuglio a volte terribile di sentimenti che non era possibile conoscere sino in fondo, Pasolini scrisse due romanzi, che sarebbero divenuti presto famosi, "Ragazzi di vita" e "Una vita violenta". Il mondo della Roma proletaria e sottoproletaria prendeva forma nei romanzi e nei versi di questo marxista borghese pieno di rimorsi. Era cominciata l'ansiosa ricerca di un piccolo borghese marxista che inseguiva il sogno di affermare se stesso. Tra le baracche delle orribili borgate romane, prese coscienza del suo amore per questa vita informe e avvertì sempre meglio che era un amore istintivo, non ragionato, un amore religioso, lui che era divenuto con la ragione ateo. Del suo ateismo, di questa contraddizione ora dobbiamo parlare.
P.P.P. - C'è Monsignor della casa, che nel suo galateo, credo, sconsiglia come regola di buona educazione di non raccontare mai i sogni. Raccontare del proprio ateismo, della propria fede è un po' come parlare dei propri sogni, insomma sono due fatti talmente personali e noiosi in fondo che è difficile parlarne. Per quel che mi riguarda del resto le cose sono semplicissime, un'infanzia religiosa, non particolarmente, mio padre non credo fosse credente, mia madre credeva in un modo così naturale. A 14 anni improvvisamente questa fede infantile è scomparsa, di punto in bianco, senza nessuna ragione e subito dopo ho cominciato a leggere i primi testi così importanti per me, Dostoevsky sono stati per la precisione, l'idiota e il Macbeth di Shakespeare, sono le cose che sono venute quasi contemporaneamente e quindi ho semplicemente una tradizione culturale laica, come il resto dell'enorme maggioranza degli scrittori e degli uomini di cultura in Italia, in Francia, nei paesi occidentali, laicismo di quel tipo lì... è estremamente normale. Se invece per religione si intende qualcos'altro, non una confessione, non una fede, ma una forma anche permanente o arcaica dello spirito, il momento irrazionale dello spirito, beh invece devo ammettere che questa c'è. Il cinema, il suo primo film a Accattone nel 61, rivelò drammaticamente la contraddizione, la mise brutalmente sotto gli occhi di tutti, più dei versi, più dei romanzi.
F.D.G. - Accattone, prima regia dopo molti anni di sceneggiature, è la storia di un piccolo mascalzone di Borgata, sempre più disperato, sempre più solo, una notte sogna di morire. Pasolini era un regista dilettante in mezzo a tanti professionisti, davanti ai maestri, ai Visconti, agli Antonioni, ai Fellini, faceva l'effetto di uno fuori del gioco, eppure fu l'unica voce nuova di quegli anni. Quando i maestri avevano già detto tutto, arrivò lui, con la sua tecnica elementare, con le sue manie visive, qui nel sogno, scopre il suo amore per Ingmar Bergman, con il suo straordinario senso figurativo.
Dov'avete preso tutti questi fiori?
Laggiù.
Ah, ma...
Ah, Pio, ma che è successo?
Ma come non lo sai?
Accattone è morto.
F. D.G. - Il senso figurativo non fu una scoperta improvvisa o casuale del regista. Nessuno sapeva allora che Pasolini era stato pittore nei suoi anni giovanili e che dipingeva ancora. Era stato un piccolo depisis secondo il gusto dell'epoca e con qualche venatura drammatica ed espressionista per inevitabile tendenza personale. Molte volte aveva dipinto il fratello Guido, amato e invidiato. Molte volte aveva dipinto se stesso, come in questo quadro che lo ritrae ventenne. Ha cominciato presto a dipingere?
P.P.P. - Sì, ho cominciato... cioè, fin da bambino mi piaceva disegnare. Anzi, ricordo, mia mamma mi dice che prima di imparare a scrivere facevo disegni di automobili o di treni, una vecchia passione. Poi, verso i 18-19 anni, all'università, ho conosciuto Roberto Longhi, che è stato in realtà il mio vero maestro, insomma, che faceva un corso su Masaccio, il rapporto di Masaccio e Pasolini. Questo mi ha molto appassionato e allora è per questo in realtà che ho cominciato a dipingere in quegli anni. Si è rimasto Masaccio? Sì, è rimasto un po' come categoria del mio spirito, insomma, ecco, come modo di vedere la realtà, come intensità, sacralità, in un certo senso violenza, violenza non coloristica, ecco, di vedere la realtà.
F.D.G. - C'è un po' di compiacimento in tutto ciò che Pasolini fa e dice. Masaccio, categoria del suo spirito, la violenza non coloristica di vedere la realtà, sono l'aspetto più evidente ed esibito di Accattone, anche in questa scena in cui il protagonista conclude la sua squallida vicenda. Agli occhi di Pasolini, il sottoproletario diventa una specie di santo alla rovescia e il film si trasforma in una agiografia. Ma è proprio questo che, esprimendo la contraddizione fondamentale di un spirito tormentato, mostra intero il valore del poeta. Assurdamente, questo film severo e religioso, anche se religioso alla rovescia, è stato accolto da molti con una ferocia che è difficile, o forse troppo facile, spiegare.
P.P.P. - La conclusione è che il film Accattone ha suscitato in Italia, forse il primo caso abbastanza così clamoroso, per quanto limitatissimo, di razzismo.
F.D.G. - Di razzismo?
P.P.P. - Eh sì, lei sa benissimo che gli italiani non sono razzisti. C'è qualche piccolo sintomo, come per esempio certi cartelli nei bar di Torino dove c'era scritto proibito l'ingresso ai terroni. Cioè, sono dei piccoli elementi. Ma gli italiani non sono mai stati razzisti, pur essendo borghesi, come i francesi, gli inglesi, eccetera, eccetera, non hanno mai avuto occasione di manifestare il loro razzismo. Un'occasione gliel'ho data io con Accattone, cioè rappresentandogli un personaggio come Accattone di razza diversa. Cioè, il borghese vuole ignorare ciò che è diverso da lui, ciò che non corrisponde all'idea falsa che gli si fa di se stesso.
F.D.G. - Se io le chiedessi di definirmi che cos'è un fascista oggi, oggi che il ciclo storico del fascismo italiano è terminato, che cosa mi direbbe?
P.P.P. - Ma direi che un fascista è un viluppo di sentimenti sconosciuti. Cioè, un fascista è un uomo che prima di tutto, innanzitutto, per prima cosa non sa chi è lui stesso.
F.D.G. - E basta.
P.P.P. - Da questo possono provenire o delle cose tremende, o delle cose meravigliose. Nel caso del fascista provengono delle cose tremende.
F.D.G. - Credo che sia una costante del suo modo di reagire davanti alle aggressioni, quella di contrapporre all'aggressività degli altri un'altrettanta, forse anche maggiore aggressività. Ora, io mi sono chiesto da che cosa dipenda questa aggressività. Cioè, se dipenda da un compenso di debolezze psichiche sue, o se poi non dipende invece dall'aggressività così forte dell'ambiente e quindi da ragioni sociali, sociologiche.
P.P.P. - Ma evidentemente dipende tra una cosa e dall'altra, come sempre succede. Potrei dirle con Saba che ci sono certi animali che vengono mangiati, che mentre vengono mangiati non fanno tanta pietà, perché in realtà, dice Saba, desiderano di essere mangiati. Ora può darsi che sia uno di quegli animali che desiderano di essere mangiati e quindi provochi l'appetito degli altri. Ma... dovrei recitare di mia colpa, che se non è il caso di recitare, tanto più che uno non è responsabile della volontà del proprio inconscio. Mi sembra invece più interessante dire qualcosa sul momento oggettivo di questo mio rapporto drammatico con le società. E allora dovrei dire che questa specie di persecuzione o di linciaggio nei miei riguardi sono dovute in Italia a due elementi della società italiana, cioè il moralismo e il qualunquismo. Evidentemente la mia operazione così di romanziere e di poeta urta non soltanto i moralisti o non soltanto i qualunquisti, ma gli uni e gli altri. È questa abietta alleanza che ha suscitato certe reazioni smodate nei miei confronti.
F.D.G. - Quale segno lascia questa aggressività dentro di lei?
P.P.P. - Ma devo dire che mi dà dei forti traumi immediati, ma che non lasciano poi fondamentalmente traccia, come tutto ciò che è irreale, come tutto ciò che non risponde a qualcosa di profondamente vero, cioè non mi ha mai impedito di lavorare.
F.D.G. - Continuò infatti a lavorare. Continuò a scrivere poesie, molte, sempre più angosciate e dure con se stesso e con gli altri, sempre più polemiche contro il mondo. Continuò a fare film. Dopo a Accattone girò Mamma Roma con Anna Magnani, fece un film di montaggio La rabbia, partecipò con un episodio La ricotta a un film collettivo e finalmente affrontò, dopo un soggiorno alla Pro Civitate cristiana di Assisi, per caso dice lui, ma non fu un caso, Il Vangelo secondo Matteo e immaginò così la strage degli innocenti, con i massacratori del re Erode simili a fascisti e con la musica che Sergej Sergeevič Prokof'ev aveva scritto per l'Alexander Nevskij di Ejzenstejn.
P.P.P. - Quando ho fatto il Vangelo, ero sicuro di avere la tecnica in tasca, di avere la formula tecnica per il film, che era quella di Accattone. Accattone era un film di carattere epico e il Vangelo di carattere sacrale, cioè, l'intensità dell'immagine, una certa ieraticità, una certa strana religiosità nell'insieme del film, come tutti i critici hanno rilevato, sottolineata per esempio dalla musica di Bach. Con questa formula tecnica di semplicità, di ieraticità, di sacralità, credevo di poter affrontare Il Vangelo, e invece mi sono accorto dopo due giorni che non funzionava, e quindi ho dovuto rovesciare tutto, non funzionava perché Accattone era un film estremamente laico, in qualche modo blasfemo, una tecnica sacrale ci stava bene, il Vangelo era già un film sacro, quindi una tecnica sacrale per un film sacro era l'assurdità, ho dovuto rovesciare tutto evidentemente, allora ho cominciato ad adottare l'irregolarità grammaticale, insomma quelle regole che si potrebbero definire di un cinema di poesia e che sono tipiche, mettiamo, della nouvelle vague, di Godard. Questo è dovuto al fatto che mentre a Accattone ero io in prima persona a raccontare, Il Vangelo non potevo essere io in prima persona, in quanto che non sono credente, non potevo raccontare sinceramente una storia, una storia di un figlio di Dio a cui io non credo, insomma, in quanto fatto religioso.
Io vi battezzo nell'acqua a penitenza.
F.D.G. - E' raro trovare, in un film religioso, fra i molti che si fanno nel mondo per ragioni di commercio più che di religione, uno spirito così profondamente religioso, un tono così alto e sincero, eppure Pasolini sostiene con la sua candida improntitudine di poeta e di uomo complicato che Il Vangelo lui l'ha girato per interposta persone, per conto e con la voce di quel credente che lui non è. La contraddizione resiste, nelle parole almeno, e la contraddizione rende la tecnica intricata, induce l'autore a scegliere i suoi mezzi dappertutto. Come aveva usato Prokof'ev per la strage degli innocenti, qui, nella scena del battista, usa uno spirito al negro e la musica di Mozart. Ma il risultato è sempre coerente, limpido, commosso.
Sono io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me. Lascia fare per ora, è conveniente a noi compiere ogni giustizia.
F.D.G. - Queste immagini bastano per poter dire che la contraddizione si sta sciogliendo. Il Vangelo può anche essere visto come un addio al marxismo in crisi, e come ogni addio provoca dolore.
P.P.P. - Non è un addio o un abbandono dell'ideologia marxista che io dovrei qui intonare, e quindi niente dolore, ma volontà a risolvere la crisi. Il marxismo è in crisi per due ragioni fondamentali, cioè per uno sviluppo rapido, direi sensazionale, del capitalismo verso nuove forme, da una parte, e dall'altra l'affacciarci alla scena politica mondiale di quello che si chiama il terzo mondo, cioè di un mondo fondamentalmente ancora contadino, in via di sviluppo, in via di industrializzazione, la cui caratteristica principale di pensiero è una forma di pensiero religiosa, etc. Mentre prima mi interessavo del sottoproletariato di Roma, immergendomi completamente in esso come un problema assolutamente particolare italiano, come una specie di sacrario del sottoproletariato, adesso so che se dovessi occuparmene ancora non potrei altro che occuparmene tenendo conto che il terzo mondo comincia dalla periferia di Roma. Cioè che il sottoproletariato cittadino e agricolo italiano appartiene al terzo mondo. Questo è il dolore di non poter essere completamente e integralmente marxista, cosa che resta impossibile, utopistica. Il quale dolore poi non è una forma particolare... è il dolore di non essere completamente qualcosa.
F.D.G. - Mancava un elemento che completasse la psicologia del poeta. Un fratello, la contraddizione, il dolore di non essere completamente qualcosa. L'ultimo elemento del dolore, il padre. Il colonnello Carlo Alberto Pasolini era un militare di carriera. Morì nel 1958.
S.C.P. - Aveva una grande idea della disciplina. Era molto severo anche con i figli e anche con me. Non andava mai bene e giusto come voleva lui le cose. Era abituato con i soldati a comandare, la disciplina ferrea. E così era anche in casa.
P.P.P. - Mio padre, è difficile parlare di lui perché era un uomo molto diverso da me e con cui ho avuto dei rapporti molto difficili. I tipici rapporti tra padre e figlio quando questi rapporti sono drammatici.
F.D.G. - In che modo drammatici?
P.P.P. - Drammatici nel senso che prima di tutto inconsciamente, per ragioni diciamo così che spiegherebbe Freud, meglio di me. E anche poi per ragioni oggettive di carattere. Mio padre era un uomo un po' all'antica, ufficiale. La pensava esattamente al contrario di quello che pensassi io allora e adesso. Quindi c'era proprio una diversità di ideologia, di carattere, eccetera. Ma in questo momento sono un po' ingiusto a dire questo. Perché questa differenza c'era. Io inconsciamente forse ero profondamente nemico a lui. E lui era profondamente nemico a me inconsciamente. Ma in realtà poi è stato lui che mi ha quasi spinto a scegliere la carriera che ho preso. Quindi è un sentimento ambivalente nei rapporti con il padre, no? C'è gratitudine e c'è, forse possiamo usare una parola grossa, odio. Odio per lo meno nel senso freudiano. C'è questo misto di sentimenti, sì. È il rapporto più drammatico che abbia avuto in realtà nella mia vita.
F.D.G. - Il più drammatico di tutti?
P.P.P. - Beh, certo.
F.D.G. - Vogliamo parlare di altri rapporti drammatici se è possibile inserirli?
P.P.P. - Sì, senza fare confronti naturalmente, proprio su una scala di valori.
F.D.G. - Ho capito.
P.P.P. - Ma, direi che i miei rapporti drammatici avvengono con tutto ciò che è paterno. Cioè, mettiamo, con lo Stato, con il sentimento medio della vita che hanno gli uomini, con la società, eccetera, eccetera.
F.D.G. - Sì, ma con persone in particolare?
P.P.P. - Ma un rapporto così profondamente drammatico come con mio padre non l'ho più riavuto, con delle persone singole, particolari. Anche perché l'ho sfuggito.
F.D.G. - Per paura?
P.P.P. - Beh, non per paura, così, per esperienza. E poi perché è un rapporto assolutamente infecondo. Cioè, è fecondo se questo rapporto è con lo Stato, mettiamo, che rappresenta il padre, così. Allora può essere fecondo perché questo obbliga il figlio ad essere una specie di contestazione vivente e questo è fonte di poesia, di pensieri, di ideologie, di vita, insomma. Ma con delle persone singole che si pongono con me in un rapporto paterno, vedo che è una cosa assolutamente assurda, insomma, non l'accetto.
F.D.G. - È subito chiuso?
P.P.P. - È subito chiuso.
F.D.G. - Possiamo dare un nome a nemici, oppure...
P.P.P. - No, nemici non ne ho. Sono loro i miei nemici, ma io non sono il loro nemico.
F.D.G. - Quali sono i suoi migliori amici, se dovessimo fare un elenco dei suoi amici? Se dovessimo proprio dare nome e cognome ad ognuno di questi amici?
P.P.P. - Ma se fossi seduto nella patrona di un analista e dovessi rispondere meccanicamente, i nomi che vengono subito in mente sono la Morante, Moravia, Bertolucci, Gadda, Bassani, benché sia molto tempo che ci frequentiamo poco. Questi sono i miei amici.
F.D.G. - Sul divano dell'analista non sempre o non subito si dice la verità. Non sono solo intellettuali gli amici di Pasolini. Ce ne sono anche altri, e questi forse sono gli amici più veri. Non hanno molto da fare, o meglio, non avevano, perché ora bene o male tutti hanno trovato un lavoro. Ma gli piace ritrovarsi sempre insieme come quando interpretavano il film di Pasolini, perché questi sono i suoi attori, i suoi consiglieri, i suoi sottoproletari amati. Come Franco Citti, l'interprete di Accattone, che ha conosciuto Pasolini quando?
P.P.P. - L'ho conosciuto circa 12 anni fa, mentre facevamo dei bagni nei fiumi qui di Roma, in una borgata di Pietralata.
F.D.G. - Renato Capogna, che in Accattone interpretava il personaggio del profeta. Che effetto le ha fatto conoscere Pasolini?
Mi ha fatto un effetto ... perché prima cosa, tramite lui ho conosciuto molta gente, e poi mi ha dato delle soddisfazioni enormi.
F.D.G. - In che senso?
Mi ha portato a Venezia, mi ha portato in tanti altri posti, mi ha fatto conoscere delle persone che mi ha fatto piacere conoscerle.
F.D.G. - Un aneddoto su Pasolini?
Beh, che posso dire? Per me è stato un grande amico.
F.D.G. - No, ma io dico un episodio, raccontiamo un episodio.
Un episodio è questo, scherzando che quando ci siamo conosciuti abbiamo fatto una gara di moto, e lui mi ha distaccato di una trentina di metri, un duecento metri. È stata una sorpresa. Una sorpresa per me.
F.D.G. - Aldo Negri - Il .... per gli amici. Roberto Alessandri - Il Parata per gli amici. Quando l'avete conosciuto Pasolini?
Beh, molti anni fa. Sì, tutti e due insieme, tutti gli amici. Per noi è un nostro caro amico, e lui vicino a noi si sente contento e quasi protetto.
F.D.G. - Protetto?
Sì, perché noi tutti gli vogliamo bene, perché questo è vero, perché non devi dire? Lui lavorando ci fa lavorare a noi, e noi guadagniamo dei soldi, e noi siamo contenti di stargli vicino. Non è d'accordo? Sì, tutto questo è tutto d'accordo, però che sia protetto o no, perché lui è protetto da noi, noi. Facciamo un ritratto di Pasolini insieme.Ma è un po'... Il ritratto suo dicono che sia il mio. Cioè, parlando di ritratti. Anche se... Anche lui, cioè, rassomiglia molto a me, espressivamente, come persone.Cioè, io interpreterò sempre lui se stesso nei film, no? Come persona, cioè, lui è un po' ritirato nelle sue cose.
F.D.G. - La scoperta di Pasolini attraverso i suoi amici proletari è illuminante. Sono di una riservatezza esemplare. C'è un rispetto assoluto dell'amico, della sua psicologia traumatica, come ha detto lei una volta, che è la sua caratteristica fondamentale.
P.P.P. - No, io credo che la caratteristica fondamentale sia invece il contrario di questo, cioè, sia una certa gaiezza, una certa leggerezza, che non riesce mai a venire... a manifestarsi. Cioè, direi che, in fondo, il momento fondamentale del mio carattere sia piuttosto elegiaco e gaio, insomma. Per poter usare, se posso usare una parola un po' forte, a cui ambisco molto, vorrei dire mozartiano. Ma non riesce mai a... Niente, ripeto, a manifestarsi e a esplicarsi. Ho tentato con Uccellassi e Uccellini di far vibrare la mia corda mozartiana, ma ci sono riusciti solo in parte, perché anche lì sono intervenuti poi l'angoscia, l'ideologia, eccetera, eccetera. Dio, patria, famiglia, quante ne avrei dette un giorno contro! Oggi forse non ne va più la pena, o forse... io sono finito. È passata la mia ora. Le mie parole cadono nel cuore.
Corvo - Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. O io piango solamente su me stesso, è umano, no, chi sente di non contare più.
Totò - Che? Che? Signor maestro, permettete? Devo dire una parola a questo rimbicillito convinto. Io me lo mangio.
Ninetto - Che?
Totò - Ce lo mangiamo.
Ninetto - Che?
Totò - Tanto se non ce lo mangiamo noi, se lo mangia qualc'altro. E poi, che ci campa a fa? Mi sembra pure matto, mi sembra.
Ninetto - Sì, sì, c'ha ragione, quanto m'ha stufato, così sempre ampiccicarsi agli affari dell'altri. Come ce lo mangiamo?
Totò - Come gli antichi...
F.D.G. - Abile e candido come sempre, anche questa volta Pasolini ha rovesciato il discorso. E non per convenienza, ma nel profondo. In questo bislacco apologo sulla fine di un marxista, il marxista cupo e rabbioso degli anni cinquanta, che è il film Uccellacci e Uccellini. Il corvo seccatore, che rappresenta lui marxista ormai fuori del tempo, ben diversi sono gli anni sessanta della nostra Europa, è stato divorato dai sottoproletari allegri, vitali e incoscienti. Da un anno non scrive più poesie. Ha girato, dopo Uccellacci e Uccellini, un breve episodio con Silvana Mangano e Totò per le streghe. E non ne ha scritto la sceneggiatura. Ha preferito disegnare la storia in un album di fumetti. Pasolini ormai ha paura delle parole, dei programmi, delle etichette. Si affida al cinema, cosa concreta, visibile, fatti reali che si toccano, come ad un'ancora di salvezza. L'ansia di guardare, di toccare, di mostrare cose concrete, e proprio perché concrete, indiscutibili, è come una fuga inconscia dalla parola. Silvana Mangano è sordomuta, infatti se c'è una bomba che scoppia di vicino, lei non la sente. Ma loro la capiscono... Un disegno come sceneggiatura. Un lavoro che rifiuta la parola scritta. Nonostante le apparenze, nessuno dei suoi drammi è stato risolto. La figura del padre amato, odiato, il dolore di non essere completamente qualcosa, neppure adesso a 45 anni, domina ancora il suo inconscio. La madre protettrice, dolce, è un po' ossessiva con la sua presenza casalinga e tranquilla, domina ancora la sua vita.
S.C.P. - Ho avuto sempre poca simpatia per l'ambiente del cinema. Ogni volta che comincia un film, io sono nervosa, mi viene male, insomma, se ci penso. Siamo venuti a Roma, ha cominciato a stare male, vedi che viso che ha. Proprio incavato. Invece prima era... Va bene che sono passati gli anni, ma insomma, non tanti da...
F.D.G. - La madre mitemente ricorda, compiange, consola. Vive di lui, gli riempie le giornate, gli restituisce un'umanità più semplice, meno contorta e dolorosa. La madre tiene il conto degli anni tristi, della povertà, delle disavventure, delle feroci polemiche, e avvolge tutto nel suo affetto paziente e sottomesso. Ricorda ogni cosa, senza più rancore, ma ricorda. Anche quello che per Paolo vorrebbe e non può dimenticare.
P.P.P. - Supplica mia madre
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
F.D.G. - Il mondo è cambiato sotto gli occhi del poeta e il poeta non ha potuto fare nulla. Un poeta non può mai fare nulla. Il suo impegno marxista è in crisi. La sua religione non ha ancora trovato e forse non troverà mai un nome. Sa soltanto, lo ha detto lucidamente in una poesia in forma di rosa, che sta per morire l'idea dell'uomo che compare nei grandi mattini.
L'uomo intento, nella infinita prigione di grano o di ulivi, sotto il sole impuro o divinamente vergine, a ripetere a uno a uno gli atti del padre. In silenzio. Perché nel suo cuore non c'è posto per altro sentimento che la religione.
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