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mercoledì 16 febbraio 2022

Pier Paolo Pasolini, In nome della cultura mi ritiro dal Premio Strega - «Il Giorno», 24 giugno 1968

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro

In nome della cultura mi ritiro dal Premio Strega

«Il Giorno», 24 giugno 1968

La prima reazione di un osservatore oggettivo e un po’ indifferente, nel venire a sapere che un partecipante al Premio Strega, poco prima della seconda votazione, ritira il suo libro, è che si tratti di una azione scorretta. Ebbene, lo è. Si tratta di una scorrettezza formale: e si sa che la correttezza formale è una delle basi della convivenza democratica. Benché questo non mi sia costato molta fatica, ho dovuto dunque usare una certa violenza contro me stesso, in questa decisione di ritirarmi dal premio (formalmente, secondo il regolamento, il mio ritiro in pratica non sussiste: i miei 62 elettori sono perciò liberi di fare quello che vogliono — e sappiano, proprio a questo punto, che sono verso di loro pieno di gratitudine — anche perché almeno 40 di quei voti mi sono giunti inaspettati).

Perché ho usato questa violenza contro il mio legalitarismo e il mio rispetto per le formalità democratiche? Perché ero posto di fronte a un dilemma: o andarmene, scorrettamente — e questo era male — o restare — correttamente — e questo era un male ancora peggiore. E molto semplice dire il perché. Ma prima voglio fare un breve riassunto di quello che è successo in questi giorni.

Come il lettore forse sa, alla prima votazione del premio la rosa si era ristretta a cinque nomi: Bevilacqua (103 voti), io (62), Cattaneo (56), Barolini (52) e Zavattini (37). Io avevo deciso di partecipare al premio cosi come si partecipa a un gioco (a una lotteria come dice Zavattini): per avere la soddisfazione infantile di essere premiato. Insomma, ho partecipato, con leggerezza, col gusto del rischio, con curiosità, con vanità — magari per far piacere a mia madre — come quando tornavo a casa dalla prima elementare e mostravo dalla strada, a lei affacciata alla finestra, il nastro verde della medaglia di primo della classe, settimanalmente guadagnata (cattiva abitudine, ahimè). Bene. Piano piano, in questi giorni, la mia leggerezza si è mostrata ingenuità, e questa ingenuità, complicità.

È vero che già altre volte avevo partecipato al premio: con Ragazzi di vita, nel ’55 o ’56, e con Una vita violenta nel '59: e l’elettorato (scelto arbitrariamente, ed è per questo che ho detto che chi decide di partecipare allo «Strega», decide di partecipare a un «gioco», e non come a una «competizione democratica») ha decretato una mia dimostrativa sconfitta: ma quelli erano altri tempi, erano gli anni Cinquanta, con l’Italia ancora paleocapitalistica, col suo Sud, i suoi sottogoverni ecc. ecc. Ora tutto è cambiato: mentre allora il Premio Strega era, come dire, una cosa in famiglia, pareva, partecipandovi, di andare a giocare a tombola coi vicini di casa — e quindi tutti i suoi piccoli pasticci, le sue micragnose alleanze, le sue contrattazioni galeotte facevano parte di un «malcostume», contro cui non valeva nemmeno la pena di fare delle polemiche — oggi invece il Premio Strega è venuto a fare parte integrante di quella che si chiama «industria culturale» e si inquadra in una Italia borghese dì tipo nuovo, contro cui non incombe più la minaccia romantica e antiquata di una rivoluzione operaia, che non è poi avvenuta. Il «malcostume» dunque non è più un fenomeno parziale, all'interno di un particolarismo sociale (la vita letteraria), ma è un fenomeno integrale, riguardante la società italiana nel suo insieme.

Il malcostume imperante al Premio Strega negli anni precedenti al nuovo corso della società italiana non mi offendeva dunque che parzialmente, e mi consentiva un certo cinismo: oggi non più. Ora, quando quest’anno ho accettato di concorrere al premio, mi sono illuso — per colpa della mia natura recalcitrante a riconoscere il male e le malefatte — che le cose non fossero così gravi: la mia ingenuità mi ha dunque fatto commettere un errore: sarebbe stupido che ora non riconoscessi pubblicamente questo errore, e non cercassi di ripararlo, magari anche scorrettamente, cioè commettendo una nuova ingenuità.

Insomma, sono venuto a conoscenza di fatti (di cui purtroppo non posso né, credo, potrò mai produrre prove) che mi hanno convinto che il Premio Strega è completamente e irreparabilmente nelle mani dell’arbitrio neocapitalistico, che ciò che è avvenuto nel ’66 non è stato un caso, ma un precedente: e che quest’anno le cose si stanno ripetendo. Devo rendermene complice? Un editore certamente ha il diritto di fare le pressioni che vuole: i suoi interessi sono di tipo industriale: e di fronte alla concorrenza, lo sappiamo, i «padroni», sia pure addolciti dal nuovo corso, sono capaci di tutto. I miei interessi, invece, sono di tipo culturale: il mio esser capace di tutto può consistere dunque in una sola cosa: protestare. Così mi ritiro scorrettamente dalla seconda votazione del premio per protesta: protesta contro l’ingerenza dell’editore industriale in un campo che io considero ancora, arcaicamente, non industriale: cosa che si concretizza nella creazione di valori falsi e nella soppressione di quelli veri. Soppressione, dico. Perché il neocapitalismo non ha scrupoli: l’America reazionaria lo insegna. Circolano parole d’ordine e veline. Di questo libro si può parlare, di quest’altro si taccia; questo libro vinca un premio, quest’altro no. Guai a te, Direttore di rivista, se fai recensire favorevolmente questo libro. E se tu, Scrittore, non fai una recensione buona di quest’altro libro, me la pagherai: infatti nessuno dei miei rotocalchi parlerà più di te. Ah, tu, Letterato, sei amico di quest’altro letterato? Ebbene, tradiscilo, altrimenti non ti rinnovo il contratto con la mia casa. Sei il votante di un premio? Bene, dammi la scheda, o entri nella lista di proscrizione. Beh, prendi questi soldi, dammi la scheda. Ah, vecchi tempi, in cui una delegazione di votanti dello Strega andava da uno scrittore (buono) a pregarlo di ritirarsi dal premio perché la figlia di un altro scrittore (buono) doveva sposarsi, e quindi il milioncino del premio occorreva a lei! Ora l’industria del libro tende a fare del libro un prodotto come un altro, di puro consumo: non ha bisogno dunque di buoni scrittori: cosa a cui fa perfetto riscontro la richiesta della nuova borghesia, che parrebbe completamente padrona della situazione, di opere di svago, di evasione e di falsa intelligenza.

Ripeto: non voglio rendermi complice in alcun modo di questo stato di cose. Ma come odio la complicità, odio anche il compromesso. Avrei potuto continuare, formalmente, a fingermi un concorrente democratico e, d’accordo con Maria Bellonci, avallare, sia con una vittoria, sia con una sconfitta di misura, per l’ultima volta, il Premio Strega così com’è: cioè un campo d’operazioni del più brutale consumismo. Infatti, la signora Bellonci mi ha promesso che, per il prossimo anno, il premio sarebbe stato riformato, garantendo un miglior livello delle opere presentate eccetera.

No. Non mi sono sentito di venire a un tale patteggiamento. Credo che soltanto una protesta, completa, rigorosa e senza compromessi, possa essere utile a far sì che il premio, se deve ricostituirsi, si ricostituisca da zero, rimettendosi integralmente in discussione. Sono convinto che solo così si potrà avere un «altro»

Premio Strega: che garantisca davvero di essere tutto dalla parte degli interessi culturali «contro» gli interessi industriali. Se esso vuole arrivare a questo attraverso patteggiamenti, compromessi, silenzi, vuol dire che non ha una reale buona volontà.

Per finire, vorrei dire che so che, a questo punto, qualcuno mi potrebbe domandare perché sono solo, o con pochi amici — gli altri concorrenti al premio, per esempio — a combattere questa battaglia, e se per caso non esista un «sindacato scrittori» che intervenga, con forza e autorità (doppia: sindacale e letteraria) a difendere i suoi iscritti dalla vera e propria «servitù» a cui li sta cominciando a ridurre l’industria culturale. Ebbene, è questa una domanda che mi faccio anch’io senza saper rispondere, ma a cui si dovrà, prima o poi, dare una risposta.



Curatore, Bruno Esposito

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