"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Da A. Soffia: o della divulgazione
3 -Distinzioni sul «taccuino»
Il taccuino, chi ne approfondisce il concetto, è indubbiamente la più facile forma di prosa: è la prosa dell'ingenuo che vuol fare il saputo, o del saputo che vuoi far l'ingenuo. Ha l'apparenza del mezzo espressivo più atto alla piena e totale confessione della propria insofferente, segreta, macerata umanità, ma è invece un
lenocinio per la più raffinata delle menzogne: la sincerità. L'insincerità della sincerità, come direbbe Bargellini («Frontespizio», anno 1939, n. 6).
Nel Giornale di bordo, come in generale in tutti i suoi taccuini, Soffici paga a fondo, e ne soffre, il suo tributo di menzogne alla sincerità; e nonostante tutta la fredda e cosciente autocritica che vi sfoggia, egli ci appare il più ingenuo, menzognero, appassionato dei romantici: «Mi sono ucciso per dissesti filosofici», è un motivo che ritorna spesso nel libro, e vi insiste con una sua segreta urgenza, così da divenirne il simbolo o la cifra; ed è motivo acutamente romantico questo indugiare sul pensiero della propria morte, ed è romantico anche il distacco ironico con cui il Nostro ne parla, nonostante la sua smaliziata e freddamente disillusa astuzia di contemporaneo. Così nel libro ogni parola è un ammiccamento; ogni frase è un sorriso che allude a un sussulto, a una serie di immaginabili angosce. La sincerità vi potrebbe essere paragonata, più che ad una femmina ignuda, ad un violento ceffone dato ridacchiando. Mi perdoni Soffici, ma ormai quelle sue pagine appartengono all'ieri, e noi, nuovi giovani, non possiamo più fare a meno di considerarle con un certo, e scusabile distacco.
Ma, per ritornare al taccuino, che nessuna forma di prosa sia più sofficiana del taccuino; anzi, forse, prima di Soffici il taccuino non è mai esistito, ed è solo il documento di una forma d'espressione lirica; propria del Nostro; non dico narrativa, filosofica, autobiografica: lirica. Ma è una lirica - intendiamoci - del tutto priva di risultati poetici, benché nata completamente da un bisogno umano, la cui profondità è insondabile: anzi, è forse nata soltanto per un desiderio di fare della letteratura. E questo sospetto è confermato dal fatto che il taccuino è quasi totalmente ingiustificabile dinnanzi a un assoluto concetto di poesia. Il taccuino è la poesia di un non-poeta. La poesia di un uomo che non ha mai indovinato cosa sia poesia (e che, per questo, è passato da un eccesso all'altro: ha mutato bandiera).
Ma il taccuino è nato, oltre che da un bisogno individualmente sofficiano, anche da un bisogno del tempo in cui Soffici si è formato; ed è soprattutto in questa sua genesi che esso acquista una sua validità culturale, al po· sto di quella poetica, che per inaderenza dell'autore a qualsiasi ispirazione lirica, gli manca. (Ricordo in Soffi· ci, un solo risultato lirico, in quel
che però non sembra cosa sua.)
La posizione poetica che potrebbe offrire la possibilità di volo lirico allo scrittore del taccuino, è il fenomeno «sincerità». Ma anche se, come ho fatto, si pone tale sincerità come veramente non sincera, ciò non ha peso, in fondo, dinnanzi ad un esame di poesia; resta invece da vedere se è sincero -questa volta sì,·perché equivale a poetico -il linguaggio che esprime tale sincerità. Ora, se c'è un linguaggio totalmente antipoetico, è la prosaccia di questa specie di taccuini sofficiani. I quali, allora, potrebbero considerarsi come opera di poesia scritta contro la poesia; e questo era forse nelle intenzioni dell'autore. Infatti, mi si potrebbe contraddire così: ma Soffici non pensava affatto, nel gettar giù i suoi appunti, di fare delle liriche; egli voleva semplicemente esporre i suoi pensieri, i suoi umori; smascherare crudelmente, talvolta sadicamente, la propria ribelle umanità. Ma nelle parole stesse della contraddizione, che il più oggettivamente io mi sono ·posto, è in germe la controbiezione; cioè, che dagli appunti del taccuino non è assolutamente lecito allontanare l'idea di una sua ispirazione lirica, appunto per il fatto che il Nostro vuole esporre di momento in momento i «suoi umori», «smascherare sadicamente la propria ribelle umanità». Questo non gli riesce perché non è capace di purificare e giustificare le proprie intenzioni attraverso un linguaggio - ma qui diciamo pure decisamente stile-poetico. (Nella pagina, è vero, è senza dubbio reperibile una cifra verbale, come entità unica, personale, inconfondibile, sofficiana; non mai uno stile. È questo il destino degli uomini di ingegno, che non sono ancora genii; è il destino, per cosi dire, dei Margutte letterari.)
L'umanità sofficiana, dunque, come dicevo, non si purifica e giustifica (almeno in questa specie di taccuino) attraverso uno stile poetico, anche per le ragioni che -pressappoco -definivo, parlando del Lemmonio : che, cioè, è ritrovabile in Soffici un'inaderenza tra linguaggio e rappresentazione, derivante dall'indulgere della sua ispirazione alle varie possibilità del primo o della seconda. Voglio dire che, se Soffici è un «dono» per il lettore, egli è un dono anche per se stesso, e, come avviene spesso delle cose donate, egli ne abusa; cioè lo usa come una cosa troppo «propria», di cui vorrebbe mettere in mostra tutte le possibilità, come tutte troppo care all'affezionato possessore. In altre parole egli è un gran dilettante in letteratura (non mi senta il Soffici pittore!), perché gli manca quel prezioso attributo che è l'autocritica, come distaccata chiaroveggenza della propria torbida ispirazione. Per questo la sua sincerità -elemento lirico del taccuino - rimane lirica in potenza, che giunge appena a giustificare la genesi e la presenza del taccuino, ma non giunge a creare un linguaggio aderente, onde esprimersi divenendo poesia. Se si vuoi accertarsi con un confronto, si prenda un qualsiasi sincero o maledetto della letteratura:
e si vedrà come la più sfacciata sincerità, che è l'elemento ispirativo della poesia, non interessi più come sincerità, bensì come poesia. Si dia un'occhiata, invece, agli appunti di Soffici; se ne leggano alcune righe, una pagina: più pagine. Il nostro animo andrà lentamente macerandosi, abbuiandosi, attediandosi. Oh l'insincerità della sincerità! Soprattutto quando essa è ammiccante, allusiva, detta tanto per essere detta, e ne tragga poi le conclusioni il lettore ... ! Che sfoggio di segreta intelligenza! Che misteriosa vita interiore e profonda il lettore meravigliato deve intravedere dietro la sprezzatura di un aforisma! Ecco un ragionamento filatissimo, simmetrico, gelido: «Non potrebbe darsi che l'idea d'Iddio non avesse altra ragione all'infuori del bisogno in certi uomini di riempire il loro vuoto interno. Che fosse una specie di bouche-trous?»; e con ciò? Che cosa ci vuoi egli dire? Forse c'è, sotto queste parole gettate lì, così per dire qualcosa, seppure con un gesto pieno di significati, qualche profondissima verità, che l'autore ha meditato in intere notti di sofferenza? Del resto, in tutto il Giornale spira l'umore di un ammalato grave, che allegramente dichiari: «Fra pochi mesi io sarò morto (forse anche domani); che ridere!». Umore profondamente tragico, e che ha dato dei grandi poeti (Baudelaire); ma che, ripeto, in Soffici non ha trovato un linguaggio aderente. Soffici ha bisogno di descrivere; la raffigurazione di stati d'animo, o, in genere, dell'animo, non è per lui; egli, dell'animo, non sa cogliere che i movimenti marginali, posteriori, come nuvole vaganti dopo l'uragano, già illuminate da un triste raggio di sole e ancor funeste per l'orrore non dissipato della tempesta. Nasce, cosz: l'aforisma: forma d'espressione in margine alla lirica, profondamente prosaica. Insomma, il processo generatore e risolutore di questa specie di taccuino sofficiano, è definibile secondo la seguente linea: «sincerità» (vera o falsa; violenta) - che diviene «substrato lirico», ma non si purifica attraverso un «linguaggio poetico» anzi, al contrario, diviene, per questa sua mancata purificazione, «anti-poesia», cioè «aforisma». Si potrebbe dunque dire che siamo così giunti all'esasperazione della sensibilità romantica, in quanto che, invece di trovar sfogo nella lirica, lo trova - ma lateralmente - nel suo contrario, l'antilirica, l'aforisma. E questo è sintomatico, perché, se si tien conto di quanto dicevo sopra («Il taccuino sofficiano.è nato, oltre che da un bisogno individualmente sofficiano, anche da un bisogno del tempo in cui Soffici si è formato; ed è soprattutto in questa genesi che esso acquista una sua validità»), ne resta illuminato crudamente l' «uomo» Soffici, come schietto esemplare del suo tempo.
[.,,]
Si vedano, ad esempio, per l'Arlecchino, le pagine iniziali, dove è notevole una scelta di vocaboli, una lucidità di visione, un andare cantabile di parole, che pur non rappresentando la cifra caratteristica della lingua sofficiana, ne formano tuttavia un'interessante maniera marginale: «Sotto gli ulivi, i loppi, i susini e i ciliegi verzica il grano tenero; il sole e l'ombra si muovon sui solchi; le selciaie rosseggiano torno torno agli acquitrini; le rame spoglie brillano; le colline sorgon di tra il groviglio delle piante, brulle, sassose, ferrigne, con le case su su per i fianchi, i cipressi che ombreggiano il tetto giallastro o vermiglio e le vigne secche dei pali in riga come lance d'eserciti. Lontano, lassù, sopra Pistoia, le montagne nevose sfavillan nel sole; il cielo è terso, tutto sprofondato nella trionfante luce del sole». Bella, sottile, tersa pagina, dall'andamento quasi strofico, risultante dalle frequenti melodiche ripetizioni («torno torno»; «su su»), e da cantabili sincopi di parole («sorgon», «si levan» ecc.) solo offuscamento, quella finale «trionfante luce del sole», che risente ancora delle poesie giovanili, un po' carducciane, anche se contro voglia.
Più avanti, nello stesso capitolo Primavera, altra segnatura in margine ad una bella pagina rievocante una scena rustica («Nei pleniluni di settembre i giovani contadini vengono in. questo capanno ... »).
Continuando a spigolare tra le pagine del libro ecco in Impressioni: Notte di dicembre, alla finestra, un bel <<l'aria è fresca come la ruta», che per me diviene quasi la frase chiave dell'intera operetta. Ancora in lmpressioni: Montecatini, 12 gennaio, ecco una pagina di grandissimo interesse per lo stile sofficiano (e, che dal punto di vista dell'interesse, credo rimanga insuperata; in nessun'altra, infatti, è riscontrabile una descrizione che aderisca così completamente ad una visione pittorica del mondo; qui veramente Soffici letterato e Soffici pittore si confondono; qui veramente Soffici dipinge a parole, con quali risultati di fronte all'arte, non saprei, e non voglio definire, ma con risultati assai precisi per una definizione del suo linguaggio. «In fondo, dove i poggi si ammassano, serpeggia il fiumiciattolo prosciugato, fra stoppie e campicelli aridi, appena verdeggianti, come una gran ruga piena d'ombra. Un po' più qua, una strada azzurrastra, si slancia diritta_ verso una casa che pare sdraiata, come me, sul limite del bosco, a godersi il tepore della giornata straordinariamente felice. Ha i muri bianchi e il tetto bruno. Grandi ombre celesti cupe sui lati e tutte le finestre spalancate. Più giù, alcuni pennacchi di salici ranciati, svariano la monotonia del grigio delle piagge piantate di olivi e sostenute ogni tanto da muriccioli a secco. Di là dalla casa, una toppa di bosco segna il cominciar del monte.» E così ancora per altre tre pagine. Come si vede la descrizione, qui, è pura; non c'è altro all'infuori di essa; l'anima dell'autore sembra essersi trasformata in terra, alberi, colli, nebbia', tronchi, fiori, senza- si direbbe - alcun residuo umano («Il ricordo va e viene senza attecchire, senza rivivere»). Ma è apparenza: in realtà, sotto la pagina, l'umanità vive, urge, seppur debolmente; un sentimento c'è, ed è un passivo ed amoroso aderire alla bellezza della Natura, che si svolge senza voce, anzi senza passione, ma con un lento e gioioso processo di oggettivazione del sentimento in realtà naturale, e di questa in scrittura. Si tratta dunque di un movimento lirico, benché resti interamente nascosto dietro alla prosa. Che sia questo il segreto della prosa poetica, ·causa di tanti equivoci ed errori? Preferisco non approfondire, per non andar troppo lontano; certo che tale movimento lirico nascosto dietro la distaccata prosa della descrizione è assai frequente in Soffici, anche quando non si tratta, come nella pagina surriportata, di un sentimento amoroso della natura, ma di una visione pessimistica della vita come noia. Si leggano, infatti, ancora in Impressioni le pagine Firenze, trattoria Masaccio, 2 gennaio, dove lo spleen di una giornata invernale non trova sfogo nella sintesi dolorosa-fantastica di una lirica, ma si estrinseca in una descrizione compiutamente oggettiva, precisa, particolareggiata, lunga, minuta, direi quasi «pignola». Per terminare sull'Arlecchino, il suo genere descrittivo è ampiamente documentato dal più lungo e centrale capitolo Firenze-Parigi, tutto una lunga descrizione; che, qui, è proprio descrizione descrizione.
Inedito, dicembre 1941
Nel Giornale di bordo, come in generale in tutti i suoi taccuini, Soffici paga a fondo, e ne soffre, il suo tributo di menzogne alla sincerità; e nonostante tutta la fredda e cosciente autocritica che vi sfoggia, egli ci appare il più ingenuo, menzognero, appassionato dei romantici: «Mi sono ucciso per dissesti filosofici», è un motivo che ritorna spesso nel libro, e vi insiste con una sua segreta urgenza, così da divenirne il simbolo o la cifra; ed è motivo acutamente romantico questo indugiare sul pensiero della propria morte, ed è romantico anche il distacco ironico con cui il Nostro ne parla, nonostante la sua smaliziata e freddamente disillusa astuzia di contemporaneo. Così nel libro ogni parola è un ammiccamento; ogni frase è un sorriso che allude a un sussulto, a una serie di immaginabili angosce. La sincerità vi potrebbe essere paragonata, più che ad una femmina ignuda, ad un violento ceffone dato ridacchiando. Mi perdoni Soffici, ma ormai quelle sue pagine appartengono all'ieri, e noi, nuovi giovani, non possiamo più fare a meno di considerarle con un certo, e scusabile distacco.
Ma, per ritornare al taccuino, che nessuna forma di prosa sia più sofficiana del taccuino; anzi, forse, prima di Soffici il taccuino non è mai esistito, ed è solo il documento di una forma d'espressione lirica; propria del Nostro; non dico narrativa, filosofica, autobiografica: lirica. Ma è una lirica - intendiamoci - del tutto priva di risultati poetici, benché nata completamente da un bisogno umano, la cui profondità è insondabile: anzi, è forse nata soltanto per un desiderio di fare della letteratura. E questo sospetto è confermato dal fatto che il taccuino è quasi totalmente ingiustificabile dinnanzi a un assoluto concetto di poesia. Il taccuino è la poesia di un non-poeta. La poesia di un uomo che non ha mai indovinato cosa sia poesia (e che, per questo, è passato da un eccesso all'altro: ha mutato bandiera).
Ma il taccuino è nato, oltre che da un bisogno individualmente sofficiano, anche da un bisogno del tempo in cui Soffici si è formato; ed è soprattutto in questa sua genesi che esso acquista una sua validità culturale, al po· sto di quella poetica, che per inaderenza dell'autore a qualsiasi ispirazione lirica, gli manca. (Ricordo in Soffi· ci, un solo risultato lirico, in quel
Buona notte, luna,se, mentre tu vai,la vedessi mai,baciala per me.
che però non sembra cosa sua.)
La posizione poetica che potrebbe offrire la possibilità di volo lirico allo scrittore del taccuino, è il fenomeno «sincerità». Ma anche se, come ho fatto, si pone tale sincerità come veramente non sincera, ciò non ha peso, in fondo, dinnanzi ad un esame di poesia; resta invece da vedere se è sincero -questa volta sì,·perché equivale a poetico -il linguaggio che esprime tale sincerità. Ora, se c'è un linguaggio totalmente antipoetico, è la prosaccia di questa specie di taccuini sofficiani. I quali, allora, potrebbero considerarsi come opera di poesia scritta contro la poesia; e questo era forse nelle intenzioni dell'autore. Infatti, mi si potrebbe contraddire così: ma Soffici non pensava affatto, nel gettar giù i suoi appunti, di fare delle liriche; egli voleva semplicemente esporre i suoi pensieri, i suoi umori; smascherare crudelmente, talvolta sadicamente, la propria ribelle umanità. Ma nelle parole stesse della contraddizione, che il più oggettivamente io mi sono ·posto, è in germe la controbiezione; cioè, che dagli appunti del taccuino non è assolutamente lecito allontanare l'idea di una sua ispirazione lirica, appunto per il fatto che il Nostro vuole esporre di momento in momento i «suoi umori», «smascherare sadicamente la propria ribelle umanità». Questo non gli riesce perché non è capace di purificare e giustificare le proprie intenzioni attraverso un linguaggio - ma qui diciamo pure decisamente stile-poetico. (Nella pagina, è vero, è senza dubbio reperibile una cifra verbale, come entità unica, personale, inconfondibile, sofficiana; non mai uno stile. È questo il destino degli uomini di ingegno, che non sono ancora genii; è il destino, per cosi dire, dei Margutte letterari.)
L'umanità sofficiana, dunque, come dicevo, non si purifica e giustifica (almeno in questa specie di taccuino) attraverso uno stile poetico, anche per le ragioni che -pressappoco -definivo, parlando del Lemmonio : che, cioè, è ritrovabile in Soffici un'inaderenza tra linguaggio e rappresentazione, derivante dall'indulgere della sua ispirazione alle varie possibilità del primo o della seconda. Voglio dire che, se Soffici è un «dono» per il lettore, egli è un dono anche per se stesso, e, come avviene spesso delle cose donate, egli ne abusa; cioè lo usa come una cosa troppo «propria», di cui vorrebbe mettere in mostra tutte le possibilità, come tutte troppo care all'affezionato possessore. In altre parole egli è un gran dilettante in letteratura (non mi senta il Soffici pittore!), perché gli manca quel prezioso attributo che è l'autocritica, come distaccata chiaroveggenza della propria torbida ispirazione. Per questo la sua sincerità -elemento lirico del taccuino - rimane lirica in potenza, che giunge appena a giustificare la genesi e la presenza del taccuino, ma non giunge a creare un linguaggio aderente, onde esprimersi divenendo poesia. Se si vuoi accertarsi con un confronto, si prenda un qualsiasi sincero o maledetto della letteratura:
S'i fosse morte, andare da mio padre;s'i fosse vita, fuggirei da lui:similamente faria da mi' madre.
e si vedrà come la più sfacciata sincerità, che è l'elemento ispirativo della poesia, non interessi più come sincerità, bensì come poesia. Si dia un'occhiata, invece, agli appunti di Soffici; se ne leggano alcune righe, una pagina: più pagine. Il nostro animo andrà lentamente macerandosi, abbuiandosi, attediandosi. Oh l'insincerità della sincerità! Soprattutto quando essa è ammiccante, allusiva, detta tanto per essere detta, e ne tragga poi le conclusioni il lettore ... ! Che sfoggio di segreta intelligenza! Che misteriosa vita interiore e profonda il lettore meravigliato deve intravedere dietro la sprezzatura di un aforisma! Ecco un ragionamento filatissimo, simmetrico, gelido: «Non potrebbe darsi che l'idea d'Iddio non avesse altra ragione all'infuori del bisogno in certi uomini di riempire il loro vuoto interno. Che fosse una specie di bouche-trous?»; e con ciò? Che cosa ci vuoi egli dire? Forse c'è, sotto queste parole gettate lì, così per dire qualcosa, seppure con un gesto pieno di significati, qualche profondissima verità, che l'autore ha meditato in intere notti di sofferenza? Del resto, in tutto il Giornale spira l'umore di un ammalato grave, che allegramente dichiari: «Fra pochi mesi io sarò morto (forse anche domani); che ridere!». Umore profondamente tragico, e che ha dato dei grandi poeti (Baudelaire); ma che, ripeto, in Soffici non ha trovato un linguaggio aderente. Soffici ha bisogno di descrivere; la raffigurazione di stati d'animo, o, in genere, dell'animo, non è per lui; egli, dell'animo, non sa cogliere che i movimenti marginali, posteriori, come nuvole vaganti dopo l'uragano, già illuminate da un triste raggio di sole e ancor funeste per l'orrore non dissipato della tempesta. Nasce, cosz: l'aforisma: forma d'espressione in margine alla lirica, profondamente prosaica. Insomma, il processo generatore e risolutore di questa specie di taccuino sofficiano, è definibile secondo la seguente linea: «sincerità» (vera o falsa; violenta) - che diviene «substrato lirico», ma non si purifica attraverso un «linguaggio poetico» anzi, al contrario, diviene, per questa sua mancata purificazione, «anti-poesia», cioè «aforisma». Si potrebbe dunque dire che siamo così giunti all'esasperazione della sensibilità romantica, in quanto che, invece di trovar sfogo nella lirica, lo trova - ma lateralmente - nel suo contrario, l'antilirica, l'aforisma. E questo è sintomatico, perché, se si tien conto di quanto dicevo sopra («Il taccuino sofficiano.è nato, oltre che da un bisogno individualmente sofficiano, anche da un bisogno del tempo in cui Soffici si è formato; ed è soprattutto in questa genesi che esso acquista una sua validità»), ne resta illuminato crudamente l' «uomo» Soffici, come schietto esemplare del suo tempo.
[.,,]
Si vedano, ad esempio, per l'Arlecchino, le pagine iniziali, dove è notevole una scelta di vocaboli, una lucidità di visione, un andare cantabile di parole, che pur non rappresentando la cifra caratteristica della lingua sofficiana, ne formano tuttavia un'interessante maniera marginale: «Sotto gli ulivi, i loppi, i susini e i ciliegi verzica il grano tenero; il sole e l'ombra si muovon sui solchi; le selciaie rosseggiano torno torno agli acquitrini; le rame spoglie brillano; le colline sorgon di tra il groviglio delle piante, brulle, sassose, ferrigne, con le case su su per i fianchi, i cipressi che ombreggiano il tetto giallastro o vermiglio e le vigne secche dei pali in riga come lance d'eserciti. Lontano, lassù, sopra Pistoia, le montagne nevose sfavillan nel sole; il cielo è terso, tutto sprofondato nella trionfante luce del sole». Bella, sottile, tersa pagina, dall'andamento quasi strofico, risultante dalle frequenti melodiche ripetizioni («torno torno»; «su su»), e da cantabili sincopi di parole («sorgon», «si levan» ecc.) solo offuscamento, quella finale «trionfante luce del sole», che risente ancora delle poesie giovanili, un po' carducciane, anche se contro voglia.
Più avanti, nello stesso capitolo Primavera, altra segnatura in margine ad una bella pagina rievocante una scena rustica («Nei pleniluni di settembre i giovani contadini vengono in. questo capanno ... »).
Continuando a spigolare tra le pagine del libro ecco in Impressioni: Notte di dicembre, alla finestra, un bel <<l'aria è fresca come la ruta», che per me diviene quasi la frase chiave dell'intera operetta. Ancora in lmpressioni: Montecatini, 12 gennaio, ecco una pagina di grandissimo interesse per lo stile sofficiano (e, che dal punto di vista dell'interesse, credo rimanga insuperata; in nessun'altra, infatti, è riscontrabile una descrizione che aderisca così completamente ad una visione pittorica del mondo; qui veramente Soffici letterato e Soffici pittore si confondono; qui veramente Soffici dipinge a parole, con quali risultati di fronte all'arte, non saprei, e non voglio definire, ma con risultati assai precisi per una definizione del suo linguaggio. «In fondo, dove i poggi si ammassano, serpeggia il fiumiciattolo prosciugato, fra stoppie e campicelli aridi, appena verdeggianti, come una gran ruga piena d'ombra. Un po' più qua, una strada azzurrastra, si slancia diritta_ verso una casa che pare sdraiata, come me, sul limite del bosco, a godersi il tepore della giornata straordinariamente felice. Ha i muri bianchi e il tetto bruno. Grandi ombre celesti cupe sui lati e tutte le finestre spalancate. Più giù, alcuni pennacchi di salici ranciati, svariano la monotonia del grigio delle piagge piantate di olivi e sostenute ogni tanto da muriccioli a secco. Di là dalla casa, una toppa di bosco segna il cominciar del monte.» E così ancora per altre tre pagine. Come si vede la descrizione, qui, è pura; non c'è altro all'infuori di essa; l'anima dell'autore sembra essersi trasformata in terra, alberi, colli, nebbia', tronchi, fiori, senza- si direbbe - alcun residuo umano («Il ricordo va e viene senza attecchire, senza rivivere»). Ma è apparenza: in realtà, sotto la pagina, l'umanità vive, urge, seppur debolmente; un sentimento c'è, ed è un passivo ed amoroso aderire alla bellezza della Natura, che si svolge senza voce, anzi senza passione, ma con un lento e gioioso processo di oggettivazione del sentimento in realtà naturale, e di questa in scrittura. Si tratta dunque di un movimento lirico, benché resti interamente nascosto dietro alla prosa. Che sia questo il segreto della prosa poetica, ·causa di tanti equivoci ed errori? Preferisco non approfondire, per non andar troppo lontano; certo che tale movimento lirico nascosto dietro la distaccata prosa della descrizione è assai frequente in Soffici, anche quando non si tratta, come nella pagina surriportata, di un sentimento amoroso della natura, ma di una visione pessimistica della vita come noia. Si leggano, infatti, ancora in Impressioni le pagine Firenze, trattoria Masaccio, 2 gennaio, dove lo spleen di una giornata invernale non trova sfogo nella sintesi dolorosa-fantastica di una lirica, ma si estrinseca in una descrizione compiutamente oggettiva, precisa, particolareggiata, lunga, minuta, direi quasi «pignola». Per terminare sull'Arlecchino, il suo genere descrittivo è ampiamente documentato dal più lungo e centrale capitolo Firenze-Parigi, tutto una lunga descrizione; che, qui, è proprio descrizione descrizione.
Inedito, dicembre 1941
P.P. Pasolini,
Da A. Soffici, o della divulgazione,
Saggi Giovanili [194 1- 1957]
Nessun commento:
Posta un commento