"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Il partigiano di
Bandung.
Pier Paolo Pasolini e l’alba del mito terzomondista
di Alessandro Barbato
“Chi c’è
stato, nei regni della fame,
non può
rimpatriare.”
Pier
Paolo Pasolini, L’uomo di Bandung, 1964.
È probabilmente più
complesso di quello che si crede, oggi, persuadere vecchie e nuove
generazioni all’idea che l’Africa, il continente dove gli estremi
si congiungono, quello con i più alti tassi di natalità e
mortalità, triste teatro di epidemie, guerre civili e massacri; una
terra da cui i notiziari fanno rimbalzare lugubri echi di tragedie,
attentati e conflitti che ne insanguinano villaggi e comunità con
cadenza quasi quotidiana, sia stata, qualche decennio indietro, la
culla di quel sogno terzomondista(1) che accese un fuoco, che oggi purtroppo sappiamo essere stato fatuo,
di idee e di programmi in una vasta area del mondo intellettuale
europeo che proprio verso il Continente nero indirizzava i suoi sogni
e le sue speranze di rigenerazione e di realizzazione di quegli
ideali di equità e giustizia sociale sorti nel cuore della lotta al
mostro nazifascista. Disegni e progetti che già all’alba degli
anni Sessanta in Occidente, almeno per i più avveduti, sembravano
ormai avviati verso un mesto tramonto, soffocati dalla logica
disumana del neocapitalismo da un lato e dalla feroce dittatura
sovietica dall’altro e che, proprio per questo, convinse molti a
indirizzare il proprio sguardo verso un’Africa allora alle prese
con le lotte di liberazione dal giogo coloniale e ancora
pericolosamente ondeggiante tra imperialismo occidentale e sovietico
e dunque terreno ideale di proseguimento di una lotta che poteva e
doveva finire in maniera diversa rispetto alla situazione che si
stava delineando in Europa.
Tra gli
intellettuali che si distinsero per l’originalità della propria
riflessione, ma ahimé ancora poco noto a gran parte del pubblico
italiano, almeno a quello non specialistico, va senza dubbio
segnalato Michel Leiris: poeta, scrittore e antropologo francese che
ha avuto il merito di impostare in maniera sensibilmente differente
il ragionamento su quello che era l’apporto che i popoli del
cosiddetto Terzo Mondo potevano consegnare a un Occidente
pericolosamente lanciato verso un futuro alienante e alienato.
Leiris, che dopo aver smascherato l’ingenuità di ogni
visione romantica e idealistica dell’Africa nel suo surreale e
provocatorio diario di viaggio conosciuto con il titolo di Africa
fantasma,(2) non rinunciò a elaborare un suo personale Messaggio
dall’Africa(3),
frutto di sofferte meditazioni e lente conquiste culturali:
«Nelle società industrializzate, l’ipertrofia del perfezionamento tecnico comporta una divisione del lavoro esasperata e una ripartizione delle attività umane in sfere nettamente differenziate, con conseguente impossibilità per l’uomo di essere semplicemente se stesso, di essere un uomo integrale: e non un frammento d’uomo […] senza alcuno dei grandi momenti, esemplificati dalle feste africane […] che sono manifestazioni di vita totale (poiché vi sono rappresentati tutti gli aspetti, o quasi, della vita in società), dove l’uomo riesce a soddisfare concretamente quella sete di pienezza che, nelle nostre civiltà può estinguere solo in senso figurato, con la mediazione dell’invenzione poetica. Dobbiamo perciò ammettere che, se abbiamo un evidente vantaggio tecnico sui contadini africani, per altri aspetti sono loro che avrebbero dei punti da darci.»(4)Per certi versi è sorprendente constatare come già nel 1948, dunque con considerevole anticipo rispetto alle tesi di Herbert Marcuse e del suo, ormai classico, L’uomo a una dimensione (1964), Leiris, sebbene con un’altra terminologia, parli di “unidimensionalità” dell’uomo occidentale indicandola come il sommo pericolo che insidiava la società moderna, ovvero quello di vedere azzerata e ridotta a un solo aspetto la complessità dell’essere umano. Un rischio su cui occorreva mobilitare le coscienze e che agiva da forza motrice rispetto a un impegno intellettuale che si proponeva di cogliere dalle società “altre” quegli spunti in grado di ridestare l’Occidente dal suo sogno di dominio tecnocratico prima che lo stesso assumesse i contorni dell’incubo disperato.
Poeta e
intellettuale decisamente immerso nella Storia e nel mondo, Pier
Paolo Pasolini non poteva esimersi dall’esporre la propria visione
su una materia così affascinante e discussa. Certo, in Italia il
dibattito sul terzomondismo non fu così sviluppato e ampio come
nella Francia di Leiris, e questo per evidenti ragioni storiche e
culturali, tuttavia l’attenzione e la passione che Pasolini aveva
riversato sull’universo contadino in procinto di eclissarsi, la
profonda caratura civile e politica della sua lente di osservazione
sulla realtà infuocata di quegli anni, non potevano non condurlo nel
seno di una tematica che finì per appassionarlo e coinvolgerlo in
maniera durevole durante tutto il corso del decennio più fecondo
della sua attività artistica e intellettuale. Nel corso degli anni
Sessanta, infatti, Pasolini ha dedicato numerose opere e interventi
all’Africa post-coloniale e, più in generale, al Terzo Mondo,
opere che risultano essere tra i suoi lavori più convincenti sia sul
piano estetico sia per quel che riguarda gli impulsi che sono in
grado di trasmettere ancora oggi.
Chiariamo subito che
l’Africa anche per Pasolini, in continuità con quanto affermato in
apertura del presente contributo, sembra indicare una sorta di
allargamento di orizzonte rispetto ai temi già sviluppati in
precedenza tanto nell’opera scritta quanto in quella filmata.
Allargamento che proprio in quanto tale non coincide pedissequamente
con la riproposizione di «un discorso ormai esaurito», come
vorrebbe il pur acuto Ferrero(5),
ma al contrario risponde all’esigenza, questa sì non nuova, di
essere il cantore di una civiltà in atto di eclissarsi lasciando il
campo aperto ai fantasmi di una nuova ed eterna preistoria: inferno
tecnologico e bulimico in grado di inghiottire i residui di umanità
che sopravvivono ormai quasi solo nello spazio del ricordo struggente
e disperato. È però sin troppo evidente, e sarebbe assurdo negarla,
una profonda corrispondenza tra il Pasolini che celebra la sacralità
del mondo contadino prima e sottoproletario poi con quello impegnato
a tessere il mito di un’Africa al tempo stesso antica e moderna,
terra dove era forse ancora possibile riannodare i fili di quel
discorso politico e culturale incenerito dallo sviluppo imperioso
della macchina neocapitalistica. Tuttavia, dal momento in cui
Pasolini volge lo sguardo oltre l’angusta realtà italiana di
quegli anni per misurare su un altro terreno la validità dei suoi
assunti, ecco che gli si rendono indispensabili quegli strumenti
intellettuali, come la storia delle religioni e l’antropologia, che
arricchiranno in modo inequivocabile la sua produzione, infondendole
quell’originalità che la rende, per certi aspetti, unica nel
panorama culturale italiano, ed è questa probabilmente la novità
più importante di questa fase della sua elaborazione artistica.
Pier Paolo Pasolini
raggiunge per la prima volta un paese africano, il Kenya, nel
febbraio del 1961. Dal mese precedente, in compagnia di Alberto
Moravia e di Elsa Morante, ha lasciato l’Italia per dirigersi
dapprima in India, terra a cui avrebbe dedicato una serie di
articoli, sotto forma di racconto, pubblicati sul quotidiano «Il
Giorno» e poi riuniti in un fortunato volumetto che ancora oggi
viene ristampato con successo, L’odore
dell’India,
apparso per la prima volta nel 1962. In quel momento l’Africa era
in pieno fermento a causa delle lotte per l’indipendenza e le
guerre civili che ne accompagnavano la difficile fase di transizione.
In quello stesso anno, Pasolini scrive anche una originale
prefazione, oggi quasi dimenticata, per una antologia poetica di
autori di origine africana: un testo che ci aiuta a comprendere come
l’Africa più tardi rappresentata nelle sue opere sia percepita
proprio come l’ideale prosecuzione di un sogno che era sorto anni
addietro, nel cuore della lotta combattuta contro il nemico
nazifascista e all’alba del secondo dopoguerra. Il titolo dello
scritto, La
Resistenza negra,
riesce già a indirizzare il lettore sul senso e sul valore che le
esperienze, testimoniate nelle liriche raccolte e antologizzate da M.
De Andrade, in qualche modo resuscitano nell’animo del Poeta.(6) Nell’incipit Pasolini esplicita subito il riferimento al proprio
passato, individuale e collettivo, spiegando che la prima impressione
che si ricava dalla lettura dei versi della raccolta, è quella di
una lettura «un po’antiquata»(7),
come se fossero stati scritti almeno dieci anni prima, ovvero agli
inizi di quegli anni Cinquanta che avrebbero dovuto coincidere con
l’affermazione di quella giustizia sociale che in molti ritenevano
essere il vero lascito di una stagione di intense lotte che avevano
attraversato il Paese. Tuttavia, subito dopo, egli precisa come il
valore di tali liriche non sia solo la scia nostalgica che esse
possono evocare nel lettore occidentale, poiché quello sprigionato
dai poeti neri contemporanei è
«un sapore estremamente significante, non solo per il rimpianto, […] non solo per quel tanto di poeticità oggettiva che c’è in esso, non solo: perché la Resistenza negra non è finita; e pare non debba finire com’è finita da noi»(8).Significativa anche la distinzione, che Pasolini introduce subito dopo, tra l’idea di “Resistenza” - vero e proprio valore culturale universale reso, proprio per questo, con la lettera maiuscola – e “resistenza”, intesa come categoria storica che identifica una particolare stagione che in Italia, a giudizio di Pasolini, si era chiusa con la chiara sconfitta delle istanze rivoluzionarie di cui essa era portatrice:
«se per noi la “Resistenza” equivale, ancora, a “speranza”, la resistenza storica […] è ormai senza speranza», mentre al contrario, «in Africa, è chiaro, non è avvenuta la scissione tra resistenza e Resistenza. Si lotta dappertutto».(9)
Subito dopo Pasolini
fornisce una breve analisi linguistica e tematica dei testi
presentati nell’antologia, sostenendo che il loro carattere
dominante non poteva che essere la clandestinità che nasce
dall’urgenza dell’azione che ha la meglio anche sulla forma. Per
tale ragione tale poesia non può generare “un prodotto culturale
autonomo” ma una sorta di ibrido, una sintesi tra i modelli
linguistici antecedenti, dagli accenti decadenti, e una lingua ancora
nuova, ignara di ogni tradizione, sia che si tratti di testi
provenienti dall’Africa, sia che riguardi opere statunitensi o
provenienti dell’America del Sud. Tra i capolavori presenti nella
raccolta, Pasolini indica Io
non amo l’Africa
di Paul Niger, Appello
alla giovane Africa
di Dennis Osadebay e, infine, Istantanee
del Sud cotoniero
dell’americano Frank Marshall Davis. Su quest’ultima lirica
Pasolini aggiunge:
«è un grande appello, il più progressista inimmaginabile, alle enormi masse dei sottoproletari di metà del mondo: la metà del mondo che non produce, ma consuma, che non fa storia, ma la subisce, ma che intanto è alla testa della comune lotta.»(10)
L’articolata
prefazione prosegue con ulteriori precisazioni: interessante, ad
esempio, la presentazione dei due estremi entro i quali, a detta di
Pasolini, si muove la poesia della Resistenza negra: al limite che
egli definisce «il più basso» si collocano le poesie che
presentano un tipico risvolto psicologico secondo il quale tutto
quello che umilia i cantori neri «si riscatta e si fa quindi ragione
di palingenesi anziché di denuncia»(11).
Qualcosa di simile, secondo Pasolini, lo si può trovare nella poesia
meridionalistica italiana in cui «le disgrazie del Sud vengono
enunciate in tono auto consolatorio, quasi che chi le vive potesse
trovare in esse un’esperienza di per sé palingenetica. […] È
l’alternativa della vitalità».(12) Vitalità che, in quanto retorica accettazione di una realtà
inaccettabile, è respinta dai poeti neri più avveduti, quelli che
si muovono sul secondo estremo e che sono, appunto, delusi da tale
rassegnazione. Tra questi Davidson Nicol, poeta che non conosceva
l’Africa e che, dopo averla visitata, di fronte alla passività di
una terra di cui dice «tutto qui ciò che sei?», non può che
concludere affermando «…Tu non sei un paese,/ Africa, tu sei un
concetto.» permettendo a Pasolini di chiosare in questo modo:
«Per un poeta come il Nicol, di origine negra, ma di cultura europea, l’Africa è quello che è per tutti noi […] il concetto “Africa” è il concetto di una condizione sottoproletaria estremamente complessa ancora inutilizzata come forza rivoluzionaria reale. E forse si può definirlo meglio, questo concetto, se s’identifica l’Africa con l’intero mondo di Bandung, l’Afroasia, che, diciamocelo chiaramente, comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. […] È l’inquietudine “angosciosa”, mista alle vertigini inebrianti della vitalità, di questo mondo escluso che i poeti negri di questa antologia esprimono; l’inquietudine angosciosa non esorcizzata ancora che da una confusa speranza o dall’allusione a una lotta armata in atto. Perché – e questo è il dato più importante dell’intera questione – questa lotta c’è: e se l’obiettivo immediato di essa è l’indipendenza, l’obiettivo vero è la “giustizia sociale” […] È fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale siano i popoli più lontani dalla civiltà industriale che si possono immaginare: dei sottoproletari addirittura preistorici rispetto a tale civiltà. Questo mi sembra il fenomeno più significativo del nostro momento storico.»(13)
Pasolini propone in
questa sede un discorso che sulle pagine della rivista «Vie Nuove»,
più o meno negli stessi mesi, lo aveva portato a indicare in
Bandung(14) la capitale di quell’Italia umile e sottoproletaria che intanto
aveva preso a immortalare in pellicole come “Accattone” che,
sempre nel 1961, segnò il suo esordio come regista e autore dopo
anni di collaborazioni e consulenze per registi del calibro di
Fellini e Bolognini. Il cinema, forse ancora di più e meglio della
poesia, consentirà a Pasolini di interpretare fino in fondo il ruolo
che sin dagli esordi sembrava caratterizzarlo: quello di aedo di una
civiltà che, proprio attraverso lo strumento che tale civiltà aveva
ideato per celebrarli, declama i propri sacri racconti mitici. Mito
popolare, prima di tutto, quello di cui proprio i primi lavori
cinematografici sanciscono la definitiva caduta nell’oblio
facendone una esperienza che può sopravvivere solo sul piano
estetico e che l’Africa, al contrario, almeno in apparenza, pare
poter nuovamente risvegliare anche attraverso le varianti che tale
“concetto” potrebbe introdurvi. Varianti mitiche che affiorano
con evidenza già in una silloge poetica come La
religione del mio tempo,
lavoro che secondo l’autore «esprime la crisi degli anni Sessanta.
La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria
dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne
consegue.»(15)
Un vuoto che, come
credo inizi a delinearsi chiaramente, sembrerebbe trovare un modo per
essere colmato proprio attraverso il sostegno alla lotta che unisce
idealmente i tanti Accattone della periferia romana ai milioni di
disperati che abitano le periferie del mondo; e questo non solo per
permettere al Poeta di rivivere, quasi religiosamente, il tempo
mitico di una gioventù ormai consumata attraverso una sorta di
riattualizzazione africana, ma anche per intravedere una possibilità
di futuro di segno diverso rispetto a quello verso cui procedeva la
civiltà occidentale. Tale messaggio sarà ribadito nei versi di una
poesia, certamente non tra le più note, significativamente
intitolata L’uomo
di Bandung.
La lirica è datata ancora una volta 1961 ma apparve per la prima
volta solo nel 1964 su una piccola rivista friulana.(16) Il testo si apre con un invito alla fuga verso Oriente di matrice
rimbaudiana, anche se subito si chiarisce come la destinazione
indicata sia un luogo ideale che comincia già dalla via Appia per
proseguire fino ad Aversa e da lì in Africa, «nei regni della
fame», ed è probabilmente compiuta per sfuggire alla maledizione
che più oltre il Poeta stesso lancia al mondo che vorrebbe lasciarsi
alle spalle:
«Abbiate figli fascisti!/ Che vi distruggano con le idee/ nate dalle vostre idee!/ Con l’odio/ nato dal vostro odio! Nei regni della fame,/ sono i miei figli; cuccioli neri o marrone,/ nati da seme di vittime ignare, dolci/ dannati alla vergogna della miseria./ Anzi, io l’ho visto il mio bambino,/ che mi assomigliava come nessuno in Italia:/ era là, poverino, sotto i miei ginocchi/ e io non lo vedevo, in uno spiazzo/ dove Denka nudi e mascherati da tigri/ ballavano un loro ballo pazzesco».(17)
Occorre però
sottolineare come già in questa poesia, tuttavia, Pasolini mostri di
non credere fino in fondo nella speranza riaccesa da un’Africa
umiliata dalla povertà e dalla fame, e come Bandung sia soprattutto
l’espressione di un utopico sogno che appare probabilmente già
minato alle fondamenta, tanto che il tema della ridiscesa nel passato
prevale nettamente rispetto alle aperture verso il futuro che il
Continente nero dovrebbe al contempo rappresentare e che, quando ci
sono, sembrano far presagire le medesime ombre inquietanti che
aleggiavano sull’Occidente. Eloquente in proposito il passaggio in
cui si afferma:
«Col corpo vivo di chi è nato nel tempo/ della produzione, percorrere all’indietro/ i secoli fino alla visione della Preistoria/ perduta nel fetore di pecora del mondo/ che mangia i suoi prodotti. Qui il futuro/ è il nostro presente».(18)Tuttavia sarebbe ingeneroso ridurre il tutto alle nostalgie regressive dell’autore, il quale peraltro non fece mai mistero delle proprie irrazionali malinconie, o alle apocalittiche sue visioni sulle sorti dell’umanità senza provare a circoscrivere nel dettaglio il senso di un rapporto con il tempo che rappresenterà per Pasolini uno dei fili conduttori della sua produzione in questo decennio, nonché la porta di ingresso verso l’utilizzo di una forma di sapere, quella storico religiosa, che sarà la piattaforma teorica su cui in seguito avrebbe poggiato “Medea”, pellicola che, in un certo senso, rappresenta il punto di arrivo, disperato e disperante, di questo discorso.
Nei versi citati
poc’anzi, infatti, Pasolini indica il presente dal quale è fuggito
poeticamente come futuro delle genti incontrate in quell’immenso
Terzo Mondo che ingloba anche gran parte della penisola italiana.
Tuttavia, il presente di quelle stesse persone che ballano «un loro
ballo pazzesco,/ con le donne in cerchio come drogate», corrisponde
al passato ancestrale e mitico cui appartiene anche il decantato
universo contadino con il suo senso ciclico del tempo. Analizzata in
questa chiave, dunque, non stupisce più di tanto l’identificazione
del poeta con quel bambino accovacciato tra le sue ginocchia, un
«negretto battezzato,/ coi calzoncini bianchi tra i Denka nudi»,
che nei versi successivi, sollecitato dall’autore, dice di
chiamarsi addirittura Paolino, palesando ancor di più tale
sovrapposizione. Come se si trattasse di quello che osiamo definire
un “rito poetico”, Pasolini esprime allora quella che,
utilizzando la terminologia propria del sapere storico religioso,
potremmo chiamare “destorificazione”, in questo caso una
“destorificazione metaforica”, ovvero l’espressione poetica di
ciò che Ernesto De Martino, grande etnologo e storico delle
religioni italiano, definisce così:
«il divenire angoscia, soprattutto nei momenti critici dell’esistenza: l’istituto della destorificazione religiosa sottrae questi momenti all’iniziativa umana e li risolve nella iterazione dell’identico»(19).Ed è proprio su tale ripetizione che si fonda la diversità di quelle civiltà altre alle quali Pasolini affratella il cristianesimo rurale e primitivo dei contadini friulani conosciuti da giovinetto. Una diversità salvifica che si palesa nella loro sensibilità all’appello del sacro, il quale consente di recuperare, attraverso l’immersione rigenerante nella metastoria, cioè nella dimensione in cui la crisi presente si annulla nella ripetizione del passato mitico, un rapporto più equilibrato con la storia: quella storia in cui Pasolini spera di poter finalmente vedere realizzato il processo rivoluzionario interrotto in Occidente dall’avvento del neocapitalismo.
Dunque è proprio
questo continuo ritornare al proprio passato e nel proprio passato
che permette all’uomo di Bandung di essere «più moderno di ogni
moderno». La sua possibilità di futuro risiede proprio nella forza
del suo passato, nell’immensa riserva vitale di un patrimonio
simbolico che la modernità barbarica con cui Pasolini definisce la
civiltà neocapitalistica sta, invece, seppellendo sotto il cemento
dei nuovi palazzoni periferici, sotto la compulsività di un
consumismo agli esordi ma già feroce, nella rimozione di ogni
diversità. Siamo qui alle soglie di un percorso che Pasolini
svilupperà e amplierà fino alla morte; e che come accennato già in
questa fase appare consapevole del suo connotato utopico e
malinconico assumendo, con il passare del tempo, i contorni della
vera e propria tragedia, quella di un mondo in cui «niente è più
possibile, ormai». Progressivamente la Preistoria mitica e sacrale,
alla quale come si è visto appartengono i Denka così come i
contadini friulani e i sottoproletari meridionali, sarà contrapposta
alla Nuova Preistoria interamente profana della civiltà dei consumi;
con la differenza, non di poco conto, che la prima, proprio grazie al
suo rapporto con il sacro aveva potuto elevarsi dalla contingenza
elaborando il proprio repertorio di simboli e valori; una via ormai
preclusa alla seconda. Nelle poesie cui lavora nei primi anni
Sessanta, molte delle quali confluiranno nella silloge Poesia
in forma di rosa,
Pasolini propone con forza la dicotomia che ormai vedeva contrapposte
più che due classi, due razze distinte, due tipi di umanità il cui
destino – e occorre segnalare quanto questo sia ben chiaro nella
coscienza del Poeta sin dalle prime fasi di questo discorso - era
drammaticamente segnato per entrambe. Si tratta di temi che verranno
sviluppati nell’arco di un decennio e che se spesso si mescolano a
uno scoperto impulso regressivo, non giustificano affatto
un’interpretazione in chiave semplicemente antimoderna del discorso
pasoliniano. Già in questa primissima fase, da alcune risposte che
l’autore dava ai lettori delle rubrica settimanale che teneva su
«Vie Nuove», è possibile evincere il vero significato di certe
prese di posizione che i coevi il più delle volte interpretarono
come semplici provocazioni: «bisogna strappare ai tradizionalisti il
monopolio della tradizione […] i borghesi non amano nulla, le loro
affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente
retoriche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è
decorativo, o “monumentale”, come diceva Schopenhauer, non certo
storicistico, cioè reale e capace di nuova storia».(20) Ed è per queste ragioni che l’Africa per Pasolini, nello spazio
sacro della poesia, sembra poter ancora racchiudere in sé passato e
futuro, può rappresentare un caldo rifugio nel già vissuto e uno
stimolo ad andare oltre il presente, può essere al tempo stesso un
ritorno e una nuova partenza, proprio come cantato ne L’uomo
di Bandung:
«non tornerò/ dalla periferia di Roma o del Mondo/ secondo il destino del Figliol Prodigo, su cui voi sareste pronti a scommettere,/ borghesi volgari e borghesi squisiti,/ o meglio, tornerò, se così è umano, ma andando sempre più lontano».(21)
Note:
1) La definizione Terzo Mondo, come è noto, fu coniata dal geografo francese Alfred Sauvy agli inizi degli anni Cinquanta, nel 1952 per la precisione, per indicare tutti quei Paesi non allineati al modello occidentale né a quello sovietico. La definizione venne poi fatta propria dagli Stati che si riunirono, nel 1955, nella Conferenza afroasiatica di Bandung proprio per proporsi come concreta alternativa ai modelli sopracitati.
2) Cfr. M. Leiris, L’Afrique fantôme, Paris 1934 [trad. it. L’Africa fantasma, Milano 1984.]. Si tratta del diario di viaggio che Leiris scrisse durante la sua partecipazione alla celeberrima missione etnografica “Dakar-Gibuti” tra il 1931 e il 1933. Diario che suscitò numerose polemiche che fruttarono a Leiris un isolamento accademico che durò per anni soprattutto per la schiettezza con la quale l’autore denunciò i comportamenti e le scorribande, ai limiti della razzia, che accompagnarono la missione; che, va detto, raggiunse considerevoli risultati scientifici e consacrò la ricerca etnografica francese sul campo. Per un approfondimento si veda: A. Barbato, L’alternativa fantasma. Leiris e Pasolini: percorsi antropologici, Padova 2010.
3) Cfr. M. Leiris, Message de l’Afrique, in Id., Miroir de l’Afrique, a cura di J. Jamin, Paris 1996 [trad. It. in Id., L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1960, Torino 2005.]
4) M. Leiris, Message de l’Afrique, in Id., Miroir de l’Afrique, a cura di J. Jamin, Paris 1996 [trad. It. in Id., L’occhio dell’etnografo. Razza e civiltà e altri scritti 1929-1960, Torino 2005, p. 168.]
5) Cfr. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Venezia 1977.
6) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, prefazione a M. De Andrade, (a cura di), Letteratura negra. La poesia, Roma 1961. Oggi in P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano 1999, tomo II, pp. 2344-2355.
7) Ivi, p. 2344.
8) Ibidem.
9) Ibidem.
10) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., p. 2350.
11) Ibidem.
12) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., pp. 2350-2351.
13) P. P. Pasolini, La Resistenza negra, op. cit., pp. 2353-2354.
14) Cfr. P. P. Pasolini, Bandung capitale di mezza Italia, in «Vie Nuove», n. 30, a. XVI, 29 luglio 1961.
15) P. P. Pasolini, Salinari: risposta e replica, in «Vie Nuove», n. 45, a. XVI, 16 novembre 1961.
16) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, in «Julia Gens», Udine, gennaio-febbraio 1964. Poi inclusa in P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Milano 1993, vol. II, pp. 1773-1782. Ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie (2 voll.), a cura di W. Siti, Milano 2003, tomo I, pp. 1305-1313.
17) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, in P. P. Pasolini, Tutte le poesie (2 voll.), a cura di W. Siti, Milano 2003, tomo I, pp. 1312-1313.
18) Ivi, p. 1310.
19) E. De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in Id., Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, con introduzione e cura di Marcello Massenzio, Lecce 1995, p. 62.
20) P. P. Pasolini, Risposta a un insoddisfatto, in «Vie Nuove», n. 44, a. XVII, 8 novembre 1962.
21) P. P. Pasolini, L’uomo di Bandung, op. cit., p. 1313.
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